Il Culto dei Morti a Napoli: Anime Pezzentelle e Leggende

di Andrea Romanazzi

Passeggiando tra i vicoli del rione Sanità di Napoli, ci si può imbattere, tra l’altro, in curiose cappellette, note come “grotte” delle anime del purgatorio. All’interno di queste la scena che si presenta è sempre la stessa, anime oranti avvolte tra le fiamme che a braccia aperte cercano una preghiera a loro dedicata, quella che in napoletano è definita “rinfresco”, ovvero una sorta di sollievo dalle pene inflitte dal calore del fuoco che le attornia. Già nella fine del ‘600 compare l’idea che le anime purganti avessero bisogno di tali “sollievi” per poter accelerare la loro ascesa al Paradiso e che, in cambio delle preghiere dei viventi, queste potessero ricambiare con grazie e favori ottenuti per intercessione. Cosa si nasconde dietro questo culto? Che legame c’è con alcune tradizioni sudamericane? Prepariamoci ad un viaggio nel mondo dei defunti.

La Tradizione delle anime Pezzentelle

Il culto dell’Antenato è qualcosa che Napoli si porta dentro da sempre. Situati a 10-12 metri dal livello stradale troviamo infatti, sotto il rione Sanità, estese necropoli datate IV – III secolo a.C., sarcofagi dipinti e scolpiti purtroppo dimenticati nell’oblio culturale italiano, ipogei greci, catacombe del V secolo come quelle di San Gennaro dove si svolgevano rituali pagani di fertilità e procreazione.

Il legame tra quest’area e i defunti non ha mai più lasciato la città,   infatti, utilizzando la parole di Cesare De Seta “…Questa zona conservò, anche agli albori dell’era cristiana, la sua destinazione cimiteriale…”. Tra il Seicento e il Settecento la cave del rione Sanità furono adibite ad ossario comune per l’epidemia di peste che colpì la città nel 1656, quindi punto di raccolta per le ossa rinvenute nelle “terre sante” attorno e sotto le Chiese, ed infine per le vittime del colera del 1836.

In questo contesto si sviluppò il culto delle “anime purganti” ovvero le “anime pezzentelle”, termine che proviene dal latino petere, chiedere. La peste del ‘600 e il Colera dell’800 impediscono un rapporto diretto e personalizzato con i propri morti annullando così ogni possibilità del culto degli “Antenati”. Le anime pezzentelle sopperiscono a questo problema, il culto dell’anonimo diviene il culto dell’Antenato in quanto riconosciuto, appunto, come defunto di famiglia. E’ in questo quadro culturale pagano e cattolico, magico e religioso che si inserisce la tradizione del culto del Purgatorio napoletano, un culto la cui potentia deriva dal fatto che si tratta di “anime antiche” come dichiarano gli stessi devoti.

Un importante revival del culto delle pezzentelle lo ritroviamo durante la Seconda Guerra Mondiale. I corpi dei dispersi sono tantissimi e le donne che non riescono a dare sepoltura ai propri cari soffrono due volte, per la morte e per la non possibilità di piangere il corpo. Ecco che ricomincia, laddove in realtà non si era mai spezzato, l’uso di “adottare un’anima purgante”.

In cosa consta realmente il culto?

Ci sono due differenti versioni del rituale.

Secondo una prima tradizione un’anima purgante apparterrebbe in sogno al fedele prescelto, quasi sempre una donna, indicando dove si trovano i suoi resti ed in particolare la capuzzella, ovvero il suo cranio.

All’indomani del sogno il fedele si sarebbe recato nel luogo indicato dove, presa la capuzzella, la puliva, la lucidava, l’asciugava dal “sudore”, segno delle fatiche che l’anima doveva sostenere per arrivare in paradiso, la venerava portandola, in alcuni casi, addirittura a casa. Un’altra versione vorrebbe che fedele si scegliesse la capuzzella da accudire, ponendola su di un fazzoletto bianco, magari aggiungendole attorno un rosario e solo dopo giungeva il sogno durante il quale l’anima rivelava la sua identità e dunque il suo nomen.

In ogni caso elemento principale è il sogno, il mezzo con cui si può comunicare con i defunti. E’ la trance che avviene in somnis, come negli antichi rituali di incubazione pagana che si tenevano presso i luoghi sacri.

La richiesta delle anime è sempre la stessa, tutte hanno bisogno del “rinfresco”.

Se la famiglia iniziava a vedere dei cambiamenti positivi all’anima purgante veniva costruita una scarabattola, una sorta di teca in legno leggero con fondo dipinto, fazzoletto, olio e lumino ed iniziava così il culto, ovvero i primi refrischi, fiori, preghiere e offerte.

Se invece non accadeva nulla la capuzzella veniva prima “messa in punizione”, ovvero girata, e poi riportata al l’ossario e abbandonata.

Le richieste erano molto materiali e inserite nel contesto sociale della vita di ogni giorno, trovare un fidanzato, convolare a nozze, vincere dei soldi al lotto, trovare un lavoro, avere dei figli…Avuta la grazia l’anima era “Familiarizzata”, ovvero entrava a far parte della famiglia, venivano donati oggetti del corredo, addirittura costruita, attorno al luogo di sepoltura, una piccola area domestica.

Nella cripta di Santa Maria del Purgatorio, attorno ad alcune scarabattole troviamo delle piastrelle.

Le piastrelle sono reali mattonelle della cucina degli adottanti, realizzate negli anni ’50, per ricreare l’ambiente famigliare per eccellenza, Il luogo dove la famiglia si riunisce: ovvero la cucina.

Il lunedì era ed è il giorno dedicato al culto, ancestrale ricordo dei culti di Ecate, signora della Notte e deputata al “commercio” con i defunti. Le donne si recavano sul luogo di culto e con ovatta, spirito e naftalina iniziavano a lustrare il teschio: la pulizia infatti avrebbe accelerato la salita in paradiso e dunque l’intercessione.

Il rituale non deve essere né troppo veloce né troppo lungo per evitare il pericolo della “fissazione”, ovvero del legare troppo il defunto al mondo materiale impedendo proprio quel passaggio dell’anima che il processo vuole favorire.

Accanto a questo culto personale si associava uno comunitario. Donne chiamate “maste”, ovvero dotate di una particolare sensibilità indicavano ai fedeli le anime bisognose, mentre spesso per potenziare l’intercessione ci si rivolgeva ad una “ministrante”, una ragazza vergine, oggi diremmo malata di epilessia, che cadeva in trance e iniziava a schiumare. Quella schiuma era la manifestazione della grazia e che di lì a poco sarebbe accaduto qualcosa.

Un ruolo importante avevano anche i bambini, considerati, per la loro purezza, più ricettivi. Ecco che dunque durante le preghiere, erano portati spesso nei luoghi di culto. Anche i resti dei bambini morti erano considerati potentissimi, i loro crani erano in assoluto i più richiesti, e di conseguenza, pressoché introvabili, al punto di suggerire ai devoti l’opportunità di iscriversi in una lista di attesa che veniva evasa via via che arrivavano nuovi crani.

Il Refrigerium ai defunti

L’usanza del “refrigerio”, ovvero la “sete” del defunto costituisce un motivo antichissimo. Nel mondo pagano il refrigerium era il banchetto funebre che si usava fare sulla tomba dei defunti.
Spesso sulle tombe era offerto del pane, sia come nutrimento che come simbolo di rinascita del morto nella sua novella vita. Anche i greci e i latini commemoravano i propri morti con offerte votive di cibo e vini sulle tombe proprio per placare le anime, mentre i babilonesi e gli assiri seppellivano vasi di miele. Che il cibo reale fosse davvero utilizzato nei sepolcri è dimostrato da diversi testi come il “De Masticazione Mortuorum in Tumulis” di Michel Raufft o la “Dissertatio Historico-Philosophica de Masticatione Mortorum” di Philip Rohr. Qui si descriveva come il morto, le cui scorte alimentari erano insufficienti, iniziava a nutrirsi masticando il sudario e le sue stesse carni. L’Abate Calmet Agustin, parlando proprio dell’opera del Raufft scrive che “E’ opinione comune in Alemagna che certi morti mastichino nelle sue sepolture e divorino tutto ciò che hanno intorno…Egli [ il Raufft N.d.A.] suppone che cosa provata e certa esservi alcuni morti che han mangiato gli abiti ond’eran involti, e tutto ciò che avevano vicino e per fino divorare le proprie carni. Egli osserva come in alcuni luoghi dell’Alemagna, per impedire ai morti di mangiare loro, mettono sotto il manto una zolla di terra che in altri luoghi mettono loro in bocca una piccola moneta d’argento e una pietra e in altri casi con un fazzoletto loro stringono fortemente la gola”. Sant’Agostino invece parla “del costume dei Cristiani di portar su per i sepolcri della carne e del vino con cui si facevan i pranzi di devozione” giustificando, ma non assecondando, questa tradizione pagana facendola basare sul libro di Tobia “mettete il vostro pane e il vostro vino sulla sepoltura del giusto e guardativi di mangiarne e di bere in compagnia dè peccatori”. Anche il pane “pro anima” tipico dell’area campana avrebbe una funzione simile. L’alimento è offerto spesso durante la veglia notturna, all’ingresso del cimitero o della casa dei luttuati. Successivamente il termine “refrigerio” fu legato più ad una sorta di rinfresco delle anime che, immaginate avvolte dalle fiamme, avevano bisogno di acqua per rinfrescarsi. Questa idea è presenta già nel Vangelo,

“…Morì anche il ricco e fu sepolto. Trovandosi questo nell’Ade fra i tormenti … alzata la voce disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura…”.

Nasceva così l’usanza di mettere vicino al defunto vasi e bicchieri di acqua fresca. Frequente era anche l’uso di lasciare sulla tomba uno spiraglio o piccoli bucherelli dai quali versare il prezioso liquido direttamente sul morto.

I Luoghi del Culto

I luoghi di culto più importanti nella città campana sono il già citato il cimitero delle Fontanelle, la Chiesa di Maria Santissima del Carmine, la chiesa di San Pietro ad Aram, edificata sul luogo ove la tradizione vuole che lo stesso san Pietro avesse battezzato Santa Candida, e la Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco nella centralissima via dei Tribunali.

Antiche sedi del culto dei morti, oramai dimenticate erano anche la chiesa di Santa Croce in Purgatorio e Sant’Agostino alla Zecca.

Ognuna di queste conserva personaggi magici ricorrenti: gli Sposi, i Bambini, il Dottore, la giovane Fanciulla, il Capitano…etc…Ci soffermeremo a breve su alcuni. Qui voglio giusto citare l’anima del Dottor Alfonso custodita a San Pietro ad Aram che continua ad esercitare la professione medica, secondo le leggende locali, dall’aldilà e a fare miracoli.

Nonostante si tratti di veri e propri cimiteri, questi luoghi assumono le caratteristiche della zona di confine, di quel “crepuscolo” ctonio dove si può realizzare l’incontro tra vivi e morti.

“…Oltrepassata finalmente la porta, restai colpito dallo spettacolo che si offriva ai miei occhi. Niente di simile alle file di mummie che si vedono presso la chiesa dei cappuccini a Palermo, niente di simile agli eleganti arabeschi di frammenti di ossa che fanno bella mostra di sé ai cappuccini dell’Immaccolata Concezione di Roma…Quei mucchi di ossa, sistemati su una specie di marciapiede ungo le gallerie, non sono molto alti, ma in una galleria con quelle ossa, si è innalzato lungo il muro un arco di trionfo: l’arco del trionfo della morte. Tutt’intorno a quest’arco funebre sono sparsi fiori. Alcune ossa sono state messe dentro cofanetti di vetro. Altrove è su un cranio che viene accesa la candela, sicché essa parche raffiguri lo Spirito Santo sulla testa degli Apostoli. Talvolta la candela accesa è posta dentro il cranio ed esso prende così un aspetto biabolico… L’uomo che pregava, giovane e con una bella voce da predicatore o da cantore di canzoni napoletane, non aveva niente di ascetico: gli si leggeva in viso la gioia di vivere. Aggiungi che faceva questo suo mestiere con convinzione. Si osservava una specie di rito: la persona che voleva far recitare una preghiera si metteva a sedere in un piccolo banco accanto all’uomo che recitava la preghiera come se volesse consultare un oracolo. Dapprima l’uomo che pregava stava immobile, poi, a poco a poco, la sua testa cominciava a far movimenti e la sua corona del rosario cominciava a tintinnare come un campanello. [. .. ] Ma non ci sono diritti senza doveri. Una donna che stava perdendo la testa perché non trovava più il teschio di sua proprietà venne a chiedere aiuto al «pregatore». «E’ un teschio giallo, lucentissimo» diceva. E andarono tutt’e due a cercarlo. «Eccolo là», gridò trionfante il «pregatore» scovando l’oggetto smarrito. Lo brandì verso la proprie/arta, lo ribenedì gratuitamente e fece ritorno ai suoi clienti. E bisognava vedere quanta tenereua la donna aveva per quel teschio finalmente ritrovato! Ci soffiava sopra per cacciarne la polvere, lo strofinava col suo fazzoletto, lo baciava, se lo crogiolava, lo rimetteva con dolcezza a posto su un piccolo cuscinetto che aveva portato con sé e gli accendeva torno un mucchio di candeline. La scelta del teschio non si fa alla leggera. La gente che ne fa ricerca cammina lentamente da una parte e dall’altra delle gallerie e attentamente scruta quei tristi avanzi di morti; a un tratto si ferma e si china per prendere un teschio sul quale non si leggeva alcun nome; l’esamina da tutte le parti, ne prova la consistenza, lo gira e lo rigira, lo palpa, lo soppesa, e l’annusa come si annusa un popone. Segue, subito dopo, la ripulitura. Ho visto alcune giovani donne procedervi con un’arte tutta casalinga; spazzolatura, pulitura con alcool, lucidatura con cera da mobili, dopo due frizioni fatte l con tutte le regole, il teschio brillava come una fiammeggiante moneta nuova….”

Questa la descrizione data dal viaggiatore Roger Peyrefitte negli anni ’40 del Cimitero delle Fontanelle.

Il cimitero delle Fontanelle è in realtà una cava di tufo risalente al 1500 utilizzata per reperire materiale da costruzione per le abitazioni del proprietario, il Principe Carafa.

Il nome deriverebbe, secondo la tradizione, da piccole uscite sorgentizie che in passato trasudavano dalla roccia porosa. Ad oggi il cimitero accoglie circa 40.000 resti di corpi umani, ma si dice che sotto l’attuale piano di calpestio vi siano compresse ossa per almeno quattro metri di profondità, ordinatamente disposte, all’epoca, da becchini specializzati. I resti sono tutti rigorosamente anonimi tranne due, ovvero quello del Conte Filippo Carafa e di Donna Margherita, oggi ancora visibile in una teca di vetro. Attorno quest’ultima, a causa del suo teschio con la bocca spalancata, è nata la leggenda che fosse morta a causa di uno gnocco andato di traverso.

Il cimitero in quanto tale viene risistemato nel 800 da padre Gaetano Barbati della chiesa di Mater Dei, fondatore dell’Opera Pia ed aperto al pubblico nel 1872.

Proprio perche qui i corpi sono tutti anonimi si sviluppò il culto delle anime pezzentelle, un ponte tra l’aldilà e la terra, un mezzo di comunicazione tra i mondi dei morti e i mondi dei vivi.

Entrando nella cava il devoto si segnava con la croce, il luogo era infatti di una sacralità assoluta, impermeato da quella umidità che non è naturale ma generata dal sudore delle fatiche delle anime del purgatorio e dunque emanazione dell’aldilà.

Tra le moltissime capuzzelle adottate, la più famosa è quella del “capitano”. La versione più nota è quella raccontata da Roberto De Simone, nel suo saggio “Novelle K 666. Fra Mozart e Napoli”. “…Un giovane camorrista, donnaiolo e spergiuro, aveva osato profanare il cimitero delle Fontanelle, ivi facendo l’amore con una ragazza. A un tratto sentì la voce del capitano che lo rimproverava ed egli, ridendosene, rispose di non aver paura di un morto. Alle nuove imprecazioni del capitano, il temerario giovane lo aveva sfidato a presentarsi di persona, giurando ironicamente di aspettarlo il giorno del suo matrimonio (e intanto giurando in cuor suo di non sposarsi mai). Però il giovane, dimentico del giuramento, dopo qualche tempo si sposò. Al banchetto di nozze si presentò tra gli invitati un personaggio vestito di nero che nessuno conosceva e che spiccava per la sua figura severa e taciturna. Alla fine del pranzo, invitato a dichiarare la sua identità, rispose di avere un dono per gli sposi, ma di volerlo mostrare solo a loro. Gli sposi lo ricevettero nella camera attigua, ma quando il giovane riconobbe il capitano fu solo questione di un attimo. Il capitano tese loro le mani e dal suo contatto infuocato gli sposi caddero morti all’istante…”

Il racconto, ovviamente di fantasia, in realtà si rifà ad una tradizione popolare, ovvero in passato, in questo cimitero, ed in particolare nella sala nota come “I Tribunali”, si svolgevano i riti di affiliazione dei giovani camorristi, l’iniziato, sottoposto a una sorta di prova di coraggio, doveva resistere da solo all’interno della cava per una intera notte.

Altro importante luogo di culto era la chiesa di Santa Maria del Purgatorio, eretta nel 1616, su un progetto di Giovanni Cola di Franco e di Giovan Giacomo Di Conforto, su commissione di diverse famiglie nobili napoletane con l’obiettivo di realizzare un luogo di sepoltura. La chiesa ha in realtà un “Sopra” e un “Sotto” sviluppati proprio con l’idea di realizzare un culto purgatoriale ed un culto per i vivi. La parte sottostante era il vero e proprio sancta sancturum, qui era presente un ossario da dove i fedeli “attingevano” per le capuzzelle.

La cosa curiosa è che nell’ossario c’era una vecchina con una bancarella che vendeva fiori e lumini, un’attività che poi passò al figlio almeno fino al terremoto dell’80. Il culto era diffusissimo, la gente veniva a Napoli dalla provincia, il giorno dei morti la coda arrivava a via Duomo, parliamo dunque di un culto davvero difficile da gestire per la Chiesa. Questo è stato il motivo principale del successivo divieto.

L’anima più potente del cimitero era Lucia. Ci sono varie versioni riguardo la sua storia.

Sembra si trattasse di Lucia D’Amore, figlia unica del principe di Ruffano Domenico D’Amore, data in sposa al marchese Giacomo Santomago nel 1789. Lucia non voleva sposarlo in quanto innamorata di un ragazzo del popolo, bellissimo, con il quale decise di scappare. Don Domenico li raggiunse e li uccise Lucia diventa la vittima del matrimonio infelice. Quanti non riuscivano a sposarsi o a trovare marito, venivano da Lucia e una volta ottenuta la grazia le portavano l’anello di fidanzamento che veniva cucito sul suo cuscino. Ancora oggi il lunedì molte donne recitano curiose giaculatorie che linguisticamente hanno perso ogni senso, insomma una sorta di magia dello “scongiuro”.

Riportiamo una delle più utilizzate e comprensibili litanie:

“…Anime sante anime purganti/ Io sono sola e vuie siete tante/ Andate avanti al mio Signore/ e raccontateci tutti i miei dolori/ Prima che s’oscura questa santa giornata/ da dio voglio essere consolata/ Pietoso Dio col sangue Tuo redento/ a tutte le anime del Purgatorio salutamele a tutti i momenti/Eterno Riposo…”.

In realtà per la Chiesa solo i santi possono concedere ed intercedere presso Dio e dunque non le anime, per giunta costrette in Purgatorio. Nel 1969 il Tribunale Ecclesiastico proibisce queste manifestazione religiose

“…le manifestazioni di culto che in alcune chiese della nostra arcidiocesi si rivolgono dai fedeli a resti di ossa umane variamente sistemate. Considerato che quei resti mortali non sono identificabili come appartenenti a persone storicamente sconosciute di cui si possa provare la santità di vita nell’esercizio in grado eroico delle virtù soprannaturali (. .. ) dichiara che le manifestazioni di culto rivolte ai resti umani variamente inumati in alcune chiese della nostra arcidiocesi sono arbitrarie, superstiziose e pertanto inammissibili….” 

Vengono messe delle lastre sugli altarini per evitare il contatto con i fedeli, ma in realtà le norme rimangono disattese, i fedeli rompono le protezioni e il culto prosegue fino al terremoto del 1980. L’Arcidiocesi dichiara pericolante la Chiesa del Purgatorio e la chiude. Questa la motivazione ufficiale della chiusura di un culto fortemente scomodo. Solo nel 1992 la chiesa viene riaperta come monumento e i fedeli dovevano e devono rispettare i tassativi divieti del culto.

Chiudiamo il nostro tour virtuale con due cripte aperte da pochissimo grazie a dei volontari e anch’esse visitabili. La prima si trova sotto la chiesa di San Filippo e Giacomo,

mentre l’ultima è la chiesa di S. Luciella ai Librai che custodisce il noto Teschio con le Orecchie, cioè un cranio che presenta protuberanze ai lati simili in tutto e per tutto a padiglioni auricolari. Per i fedeli le orecchie rappresentano un legame fra il regno dei morti e quello dei vivi: in molti si recavano dal teschio per affidargli preghiere, speranze e paure, credendo che, essendo munito dei mezzi per ascoltare potesse trasmettere più facilmente il messaggio a chi di dovere dall’altra parte. Spero di non aver annoiato in questo curioso viaggio, Napoli sarà protagonista di altri nostri prossimi scritti. Oggi ricordate: Fate bene alle anime del Purgatorio.

Napoli e Sud America: Le Pezzentelle, gli Eguns e l’Anima Sola

La famosa maschera di Pulcinella, nota in tutto il mondo come simbolo del capoluogo campano è strettamente connessa al culto delle anime dei defunti. La maschera compare ufficialmente nel 1500 dall’attore Silvio Fiorillo e portata alla ribalta come oggi la conosciamo nell’800 da   Antonio Petito. Le origini si perdono nella notte dei tempi. Il nome di Pulcinella per alcuni deriverebbe da “piccolo pulcino” ovvero “pulciniello”, per altri sarebbe la caricatura di un contadino di Acerra, Puccio d’Aniello, che nel ‘600 era un buffone locale, per altri ancora le origini arrivano al IV secolo a.C., ovvero Pulcinella come discendente di Maccus, personaggio degli spettacoli teatrali romani raffigurante un servo dal naso lungo e dalla faccia bitorzoluta. Pulcinella è però molt’altro. Il suo vestito bianco e la maschera nera sono i tipici colori del mondo dei defunti o meglio del rapporto tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Il bianco era nell’antichità il colore dell’abito del lutto, e anche il riferimento al pulcino, da sempre nelle leggende popolari simbolo del mondo ctonio non è casuale. Egli è dunque lo psicopompo, il traghettatore dell’aldilà, dunque colui che comunica e mercanteggia con la Morte come testimoniano le molte storie popolari messe in scena nei teatri di burattini. La sua figura liminare è però curiosamente legata anche al Sud America. I colori di Pulcinella ricordano molto infatti i Petros Velhos, anime di defunti che hanno portato a termine il loro “ciclo” e considerati nel Candomblè e nell’Umbanda appunto come guide spirituali. L’animo del trickers di Pulcinella ci permette di fare un’ulteriore paragone. Bruno Leone afferma “…Anche nel caso di Pulcinella, nella struttura antica, esistono molti contatti con l`Africa abbastanza misteriosi. In questo paese vi sono personaggi che hanno la stessa voce di Pulcinella, e hanno gli stessi significati simbolici. Per esempio il rapporto con il mondo dei morti, la maschera come mezzo di dialogo con la morte: Pulcinella è psicopompo, e la stessa cosa si trova in alcune maschere africane…”. Il Pulcinella aggressivo, più docile e remissivo, vitale e giocoso, sembra collegarsi direttamente al veneratissimo Eshù, una delle divinità più rispettate nella religione yoruba e nei culti sincretici correlati. Egli svolge il ruolo di intermediario fra gli dèi (gli Orisha) e l’uomo, espressione delle energie vitali che permettono il passaggio del Messaggio. Egli è il signore degli Eguns, gli spiriti degli antenati, in un rituale poco conosciuto ma che sembra davvero vicino a quello delle “pezzentelle” fin ora descritto. Infatti gli Eguns sembrerebbero più fortemente legati al concetto di spiritismo e di “entità” o “fantasma” più che di antenato tout court. Si parla spesso di una vera e propria società segreta dei veneratori degli Eguns, dalle chiare influenze kardeciste, i cui membri sono legati ad uno strettissimo riserbo.

Se Pulcinella ricorda il culto di Eshù, le pezzentelle sono strettamente correlate ad un altro culto diffusissimo in tutto il continente sud americano ed in particolare in Messico, quello dell’Anima Sola. L’iconografia più diffusa è quella di una donna incatenata che soffre tra le fiamme. Pregare per l’Anima Sola è una tradizione per molti aspetti diversa da quello del più diffuso culto dei santi. Invece di pregare per un santo che poi si appella a Dio, l’Anima Sola rappresenta le anime del purgatorio, che richiedono l’assistenza sia dei vivi e in cambio concedono loro qualcosa. In altre parole è l’anima abbandonata che richiedere preghiere ed attenzioni per velocizzare la sua ascesa in paradiso e dunque diviene grata a chiunque gliele dia.

 

In Messico, proprio come a Napoli, il culto dell’Anima Sola raggiunge il suo apice nel 1800 per poi diventare importante culto devozionale in tutto il Messico. In realtà il culto dell’Anima Sola è una forma di sincretismo tra i culti del mondo ctonio Maya e il Cattolicesimo. Le botaniche vendono moltissime immagini dell’Anima purgante, legata più che altro a richieste di amore, o di protezione dai nemici a cui temporaneamente vengono inviate sofferenze come quelle purgatoriali.

In molte case messicane è collocato un piccolo altare con un’immagine dell’Anima purgante, candele ed acqua.

 

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