di Andrea Romanazzi
Il casale di Navarrino, situato nelle campagne di Bisceglie, rappresenta un luogo di grande interesse storico e architettonico. La struttura, risalente al XVIII secolo, ha una destinazione che ancora oggi resta in parte misteriosa, nonostante le numerose indagini storiche. Il complesso si distingue per le sue particolari caratteristiche costruttive, che lo rendono unico nel suo genere.
Il nome “Navarino” ha un’origine incerta e varia a seconda delle località circostanti. La zona è conosciuta come Masseria di Annamaria verso Terlizzi, Navario verso Bisceglie, e Navarino a Molfetta. Il toponimo compare per la prima volta nel 1582, ma le sue radici potrebbero risalire alla Spagna, in particolare alla regione della Navarra. Questo collegamento si deve a don Ferrando Briones Yspanus, marito di Costanza Gadaleta, figlia di Giacomo, un antico proprietario di terreni nella zona. Ferrante Briones, originario di Briones, una città situata al confine tra Navarra e Castiglia, si trasferì a Bisceglie dopo il 1529, quando la città tornò sotto il controllo spagnolo. Durante la sua vita, Ferrante possedeva una porzione di terra denominata “pecia de la Nera”, situata nella zona che successivamente sarebbe stata chiamata Navarino. Dopo la sua morte, avvenuta tra il 1556 e il 1561, la proprietà passò alla famiglia Gadaleta, che ampliò il casale trasformandolo in un centro agricolo fortificato.
Il casale si sviluppa intorno a una masseria fortificata, con due corpi di fabbrica disposti a “L”. I lunghi vani voltati a botte con archi a sesto acuto testimoniano un’architettura pensata per durare nel tempo. Nell’angolo formato dai due corpi sorge una torre, elemento caratterizzante del complesso, la cui funzione rimane incerta. Le torri sono cieche su tre lati, un dettaglio insolito che ne limita l’utilizzo per scopi difensivi o di avvistamento, sollevando interrogativi sulla loro reale destinazione. Il piano seminterrato dell’edificio emerge dal terreno con decorazioni che richiamano una linea di gronda o un cornicione, suggerendo un’attenzione ai dettagli decorativi. Oltre alla masseria, il complesso include due altri corpi di fabbrica: un porticato con tre fornici paralleli e un edificio con due torri sovrastanti, accessibili solo dal primo piano. Le mura spesse che circondano il lotto non coltivato e la presenza di una lama nelle vicinanze rafforzano l’idea di un complesso autosufficiente e isolato.
Nel 1687, fu edificata una cappella dedicata a San Francesco di Paola lungo la strada vicinale, prima dell’ingresso principale del casale. La cappella, descritta nel 1699 durante la visita di monsignor Pompeo Sarnelli, presentava un altare con una piccola icona del santo, affiancata da immagini di Santa Maria del Monte Carmelo, Sant’Antonio e San Biagio. Questa struttura sacra, accanto alla masseria, sottolinea l’importanza spirituale attribuita al luogo e la volontà dei proprietari di garantire un punto di riferimento religioso per chi lo abitava.
Collegamenti con il Brigantaggio
Il casale di Navarrino è però legato soprattutto ad episodi di brigantaggio. Si narra che nel luglio del 1749, su ordine del re di Napoli Carlo III di Borbone, furono qui giustiziati tre briganti: M. Cariati, A. Arcieri e C. Piturro. La condanna, come ricorda ancora oggi un’epigrafe murata su una delle porte del casale, avvenne alla presenza del popolo e della comunità locale. I corpi dei giustiziati furono esposti in pubblico per fungere da monito severo. L’episodio ha alimentato nel tempo una serie di leggende popolari, tra cui quella che racconta di un monaco appartenente alla famiglia Gadaleta, proprietaria del casale. Si narra che un giorno, mentre si trovava nel fondo di Navarrino, il monaco fu avvicinato dai tre briganti, i quali, armati, gli sottrassero un reliquiario d’argento e altri beni. Il monaco, intimorito, li avvertì dicendo: “Bada, che c’è il re a Napoli!”, ma i briganti risposero con arroganza: “Se egli è il re di Napoli, noi siamo i re del bosco!”. Infine, gridarono in coro:
“Noi siamo i vandalieri,
disturbatori di regni,
i re della campagna,
viva la libertà!”
Dopo aver compiuto la rapina, i briganti si diressero verso Bisceglie. Tuttavia, il monaco non rimase inerte: segnò con del fango croci sulle case in cui si erano rifugiati i tre malviventi e denunciò tutto alle autorità. I briganti furono catturati poco dopo, trovati in possesso del bottino. La sentenza fu implacabile: vennero condannati a morte e giustiziati proprio nel casale di Navarrino, nel punto avevano offeso il re e che ancora oggi viene chiamato Pezza delle Forche. Secondo una leggenda popolare, sul luogo del patibolo si trovava anche un’antica vasca chiamata dal popolo Piscina delle Lacrime. Questa vasca si sarebbe riempita simbolicamente delle lacrime versate dai parenti delle vittime durante l’esecuzione, rendendo il casale di Navarrino un luogo carico di memorie e significati.
La famiglia Gadaleta, desiderosa di proteggere l’integrità del casale e di ottenere il favore del re, si adoperò affinché il luogo della giustizia diventasse un simbolo di ordine e disciplina, sancito dalla presenza dell’epigrafe commemorativa.





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