di Andrea Romanazzi

La magia in Russia ha rappresentato, nel corso dei secoli, un fenomeno non solo diffuso ma profondamente radicato nel tessuto culturale, religioso e sociale del paese. Si tratta di una realtà stratificata e mutevole, le cui pratiche hanno assunto forme differenti a seconda delle epoche, delle regioni e delle influenze storiche. Dall’incontro tra lo sciamanesimo siberiano, il cristianesimo ortodosso e le credenze popolari, si è sviluppato un complesso universo magico che ancora oggi affascina per la sua profondità e per la sua capacità di adattarsi al mutare dei tempi.

Origini e Funzioni della Magia

La concezione russa della magia affonda le sue radici in un sistema epistemologico in cui il sapere magico non è semplice conoscenza empirica o tecnica, bensì gnosis, cioè conoscenza trasformativa, segreta, iniziatica. In questo senso, le figure centrali del panorama magico russo — ведьма (ved’ma) per la donna e ведун (vedun) per l’uomo — incarnano non soltanto il ruolo dell’operatore magico, ma anche quello del “sapiente”, del vidente e dell’intermediario tra il visibile e l’invisibile. L’etimologia dei termini è in sé altamente rivelatrice. Il lemma vedun (lett. “colui che sa”) e ved’ma derivano dalla radice protoindoeuropea u̯eid- / weid-, da cui proviene anche il latino video, il greco εἶδον (eidon, “vidi”), e soprattutto il sanscrito Veda, corpus sacro che rappresenta la quintessenza del sapere rivelato. Questa radice designa originariamente non soltanto l’atto del vedere fisico, ma più profondamente “vedere con l’occhio interiore”, cognoscere in senso esoterico. Dunque, vedun non è semplicemente lo stregone, ma l’iniziato, il conoscitore di ciò che è celato agli occhi ordinari.

Nella semantica russa arcaica, la visione magica non è dissociata dalla capacità di trasformare: chi “vede” la realtà oltre il velo dell’apparenza è anche in grado di alterarla, attraverso parole, gesti o contatti rituali. La ved’ma è quindi una figura liminale, che naviga tra mondi e possiede la chiave del passaggio tra il piano naturale e quello sovrannaturale. In tal senso, il sapere della strega è sempre stato percepito come potenzialmente pericoloso, proprio perché non mediato dalle strutture istituzionali del potere religioso ufficiale.

A questo si collega l’evoluzione semantica di altri termini fondamentali, come koldún (maschile) e koldúnya (femminile). Sebbene oggi siano sinonimi di “stregone” o “fattucchiera” nel senso negativo, la loro radice originaria — kaladovati — rimanda a un’area semantica completamente diversa: quella del sacrificio rituale. Il verbo kaladovati significava infatti “offrire sacrifici”, “immolare”, e rinvia al termine kaladovániec (“il sacrificatore”) e kaladóvce (“l’altare”). Come osservato da Afanasev, tra i massimi studiosi del folklore slavo, questa connessione sacrale è stata progressivamente dimenticata con l’avvento del cristianesimo, che ha reinterpretato questi atti rituali come superstizione o stregoneria, relegando tali figure ai margini della legittimità religiosa.

L’associazione originaria tra il koldún e il sacrificio suggerisce che la figura del mago rivestisse un tempo una funzione para-sacerdotale, legata alla mediazione tra l’umano e il divino tramite atti rituali. In questa fase precristiana, il koldún non era dunque un operatore del male, ma un garante dell’equilibrio cosmico e comunitario. Il progressivo passaggio da “sacerdote-sacrificatore” a “stregone-malefico” riflette un processo di demonizzazione avvenuto sotto la pressione del paradigma cristiano, che cercò di cancellare o marginalizzare le forme religiose indigene, inquadrandole come eresia, paganesimo o magia nera.

Un’ulteriore figura linguistica di rilievo è quella del kudesnik (incantatore, mago), la cui radice è kud- o -cud, connessa con le nozioni di purificazione e giudizio. Il verbo cudit’ indicava infatti “purificare” o “emettere giudizio”, e ancora una volta la radice si collega ad ambiti sacrali. Il termine cudo, in slavo antico, significava “miracolo” o “evento prodigioso”, e trova analogie semantiche con il greco kēdos (“cura rituale dei morti”). Dunque, la magia è inizialmente interpretata come azione rituale purificatrice, non come devianza. Siamo di fronte a un intero campo semantico che lega le pratiche magiche alla sfera del sapere sacro, della visione interiore e del rito. Questo campo viene destabilizzato e ristrutturato in epoca cristiana, attraverso una doppia operazione: da un lato, l’assimilazione e riformulazione di alcuni elementi all’interno del culto ufficiale (es. i santi guaritori, le reliquie taumaturgiche), e dall’altro la stigmatizzazione delle pratiche magiche non autorizzate come stregoneria malefica. Non si tratta semplicemente di una “perdita” di significato, ma di un vero e proprio shift epistemologico: il sapere magico cessa di essere un “sapere legittimo” (conoscenza rituale e sociale) per divenire “sapere proibito” (superstizione, eresia, male). È a partire da questa frattura che la strega — la ved’ma — assume il suo volto ambiguo: tra sacerdotessa del passato e agente del demonio.

Il Sapere dei Rimedi: Natura, Piante e Parole

Uno degli aspetti centrali della magia russa era la connessione profonda con il mondo naturale. La forza magica era vista come una qualità innata, una riserva di energia concentrata in specifiche parti del corpo: capelli, denti, unghie, cuore. Le streghe e i guaritori ne possedevano di più. Quando una strega perdeva i denti o i capelli, la sua forza diminuiva. Per questo motivo, si credeva che gli adolescenti non potessero essere streghe: non avevano ancora la stabilità necessaria. Il corpo era visto come strumento e portale. L’intero ordine della società si basava sulle azioni delle streghe, vere protagoniste occulte della vita comunitaria. Le pratiche magiche si basavano sull’uso di piante, animali e minerali, i cui poteri erano noti solo agli iniziati. Le ricette erano segrete, tramandate oralmente o in forma cifrata, e ogni elemento aveva un valore simbolico oltre che terapeutico. La guarigione non era un semplice atto medico, ma un rito che richiedeva la comunicazione con entità invisibili e la manipolazione delle forze vitali. Le streghe agivano come intermediarie tra i due mondi, quello visibile e quello invisibile. Curavano malattie, scacciavano spiriti maligni, ristabilivano l’equilibrio nei corpi e nei villaggi. L’uso della parola era fondamentale: gli incantesimi, pronunciati con formule antiche, avevano potere performativo. La parola magica non descriveva, ma trasformava la realtà. La distinzione tra magia bianca e magia nera era quindi molto labile. Nei nostri libri abbiamo approfondito il tema. Spesso era la comunità a decidere, a posteriori, se un atto magico fosse stato benefico o dannoso, a seconda degli esiti. In generale, però, gli uomini erano associati alla magia curativa e le donne alla magia malefica. Questa dicotomia di genere rifletteva una visione profondamente patriarcale, che demonizzava la potenza femminile quando non era sotto controllo. La magia si manifestava in forme diverse: protezione dai malocchi, benedizione dei raccolti, interpretazione dei sogni, predizione del futuro, creazione di talismani.

La Strega come Sciamana

Molti elementi della stregoneria russa sono riconducibili allo sciamanesimo. La strega, come lo sciamano, attraversava una crisi iniziatica: periodi di malattia, isolamento, visioni. Era visitata dagli spiriti e riceveva doni magici. Spesso qualcuno nella sua famiglia moriva, segnando così la trasmissione ereditaria del potere. Inoltre, si credeva che le streghe potessero volare — e qui entra in gioco il simbolismo del manico di scopa (metla), associato anche al betullaio (venik) e agli strumenti sciamanici. Il volo non era solo fisico ma spirituale: la strega viaggiava tra i mondi, comunicava con l’aldilà, saliva nel cielo attraverso il camino. Secondo Claude Lecouteux, lo stesso concetto del doppio animale — molto presente nella tradizione germanica e nella Mongolia — si ritrova anche in Russia. Il doppio assumeva forma zoomorfica e serviva l’individuo nella pratica magica. Il corpo del mago era un tramite: non era lui a operare, ma il suo spirito.

Continuità, Persecuzione e Sopravvivenza del Magico in Russia tra Stato, Chiesa e Cultura Popolare

Uno dei tratti più distintivi della storia della magia in Russia, rispetto all’Europa occidentale, è l’assenza di una sistematica “caccia alle streghe” su larga scala. Mentre l’Europa cattolica e protestante fu attraversata, tra il XV e il XVII secolo, da ondate di panico collettivo e processi inquisitoriali culminati in migliaia di roghi — basti pensare a Germania, Svizzera, Francia e Italia settentrionale — in Russia il fenomeno conobbe una parabola meno spettacolare, ma non per questo meno significativa. La persecuzione della stregoneria si manifestò infatti in forme più episodiche, più spesso legate a tensioni locali, rivalità personali, o operazioni di disciplinamento religioso e sociale da parte dello Stato zarista. Ivan IV, noto come Ivan il Terribile (1530–1584), fu il primo sovrano russo a colpire in maniera esplicita il fenomeno della magia, associandolo ai suoi nemici interni e attribuendo le proprie sventure personali — tra cui la morte della moglie Anastasia — all’azione di stregoni. La repressione non seguì però il modello inquisitoriale, ma fu parte di un più ampio processo di centralizzazione del potere, in cui la magia venne usata come capro espiatorio per eliminare figure sospette. L’editto più significativo giunse sotto lo zar Alexis Mikhailovich, che nel 1649 promulgò un Sobornoe Ulozhenie (Codice di Leggi) in cui tutte le pratiche pagane e magiche venivano formalmente proibite, assimilate a eresia e punite con la morte.

Eppure, come spesso accade nei contesti di repressione culturale, la condanna ufficiale non riuscì ad estirpare il fenomeno, che si adattò, si mimetizzò e continuò a fiorire nei contesti rurali. Anche sotto Pietro il Grande — considerato emblema della modernizzazione russa — si registrarono esecuzioni per stregoneria, come nel caso del 1716, segno che il potere magico era ancora percepito come una minaccia reale all’ordine razionale e statale. Nel XIX secolo, in assenza di un tribunale inquisitoriale, furono le comunità stesse a regolare i casi di stregoneria. I processi si svolgevano spesso in maniera informale, con accuse mosse sulla base di sospetti legati a malattie improvvise, raccolti compromessi, o tensioni tra vicini. L’accusa di stregoneria divenne così uno strumento ambiguo: da un lato, un modo per spiegare l’inspiegabile; dall’altro, un mezzo di vendetta e controllo sociale. Le streghe venivano allontanate, aggredite, sottoposte a violenza simbolica o fisica. In tal senso, la stregoneria russa deve essere letta anche come un “fatto sociale totale” (Mauss), capace di convogliare dinamiche economiche, simboliche e psicologiche. Con la Rivoluzione del 1917 e la presa del potere da parte dei bolscevichi, le autorità smantellarono le strutture giudiziarie precedenti e interruppero la registrazione formale dei casi di stregoneria. Ma la sopravvivenza della pratica magica non fu intaccata. Al contrario, la magia continuò a vivere in forma “sommersa” nei villaggi, nei rituali domestici, nella medicina popolare. Le donne, in particolare, continuarono a tramandare formule, benedizioni, maledizioni, trattamenti erboristici e gesti rituali, spesso mascherandoli da atti religiosi ortodossi o da semplici “consigli della nonna”.

Questo fenomeno di “cripto-stregoneria” sopravvive anche in ambienti apparentemente razionalizzati. L’etnografia sovietica, pur nell’impossibilità politica di trattare apertamente il tema, ha raccolto testimonianze implicite della persistenza magica, specie nelle campagne. I leader del Partito, paradossalmente, non erano immuni a queste pratiche: si sa di figure di rilievo che frequentavano znakhari (guaritori), astrologi e operatori dell’occulto. Il potere sovietico, che pure si fondava su un materialismo storico-dialettico, non riuscì mai a cancellare il residuo magico dell’anima russa.

Dalla fine degli anni ’80 in poi, con la caduta del regime e la rinascita delle identità religiose e culturali, la magia ha vissuto una nuova esplosione. Non più solo in forma rurale e popolare, ma anche nelle città, nei media, nei centri spirituali postmoderni. Le figure della strega, del medium, del guaritore sono tornate alla ribalta come professionisti dell’anima, offrendo servizi divinatori, astrologici, energetici, e spesso mescolando elementi della tradizione slava con retoriche New Age e pseudo-scientifiche. La stampa russa contemporanea pubblicizza regolarmente guaritori, sensitivi, astrologi, praticanti della “magia bianca”, della “magia rossa”, della “magia nera”, mentre in televisione si trasmettono reality show su competizioni tra maghi. È un segno della spettacolarizzazione del magico, ma anche della sua continua adattabilità.

Oggi è difficile offrire un’immagine coerente della stregoneria russa, proprio per la sua natura policentrica, rizomatica, fluida. Le pratiche variano profondamente da regione a regione, spesso oscillano tra il religioso e il profano, tra l’eredità ancestrale e l’innovazione sincretica. 

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