di Andrea Romanazzi
L’Italia non è solo terra di santi e navigatori: è anche un arcipelago di paure antiche, di racconti che scivolano tra gli ulivi al calare del sole, di metamorfosi che mescolano uomo e natura. Tra queste ombre si muove la licantropia, non come favola lontana, ma come parola sussurrata nelle cucine, nelle stalle, nei vicoli dei nostri paesi. Le storie di uomini-lupo, tramandate da generazioni, custodiscono l’inquietudine di un passato che non ha mai smesso di respirare sotto la pelle del presente.
Storie Italiane di Lupomini
Prima di cercare lupi mannari in Scandinavia o nei Balcani, basta aprire la porta delle nostre memorie. In molte famiglie del Sud , come nella mia, c’era sempre una nonna pronta a dire “mò t’ la cont’…”, e quella storia aveva sempre denti, artigli o almeno un’ombra più scura delle altre…era la storia di Zia Angelina…
In realtà le credenze italiane sugli uomini-lupo non sono un fenomeno importato, ma un filone robusto del nostro immaginario popolare. Alimentano racconti, studi folklorici, testimonianze orali e persino produzioni contemporanee, come il cortometraggio di Alessandro Diaco, vincitore del Ciak Irpinia 2004, che riporta con serietà e rispetto voci di paesi dove la notte non è mai silenziosa.
Mi voglio soffermare qui su un caso tutto italiano documentato. Esso viene riferito per la prima volta da Job Fincel, medico tedesco. Nell’anno 1541 a Padova viveva un uomo che assalì altri suoi vicini uccidendoli. Confessò che era un lupo-mannaro. I cittadini, terrorizzati, prima lo scorticarono, per vedere se si trattava di un versipelle, poi gli amputarono braccia e gambe e così l’uomo morì dissanguato. Quanto detto da Fincel, però, non ritrova nessuna traccia archivistica. Per molti si tratta di un falso, forse costruito a partire da un racconto di Pietro Pomponazzi che, come medico, seguì realmente un paziente sofferente di “licantropia”.
Ad ogni modo il caso viene citato anche dal Bodin
“…Giob Fincel al libro XI delle marauiglie scrive che era parimente un Lycanthropo a Padoua, che futrapolato, & le sue zampe di lupo gli furono tagliate, & nel medesimo instante si trovò le braccia, & i piedi tagliati…”
E un’altra citazione del caso la ritroviamo in un commento di Wier che scrive in riferimento al caso padovano
“…Non c’è dubbio che fosse affetto da quel tipo di malinconia che dagli Arabi è detta chatrab, nome derivato da quello di una bestiola che vaga qua e là senza ordine in moto irrequieto sulla superficie dell’acqua. […] I Greci la chiamano lukanqwpivan, cioè metamorfosi degli uomini in lupi; alcuni, seguendo Marcello, la chiamano malinconia lupina, o anche follia lupina; molti lukavwna, altri kunahqwpivan. Coloro che sono affetti da questo male, per la fuligine dell’atra bile, si credono trasformati in lupi, o in cani…”
Andiamo a Roma. E’ il poeta Giuseppe Gioacchino Belli a riportare, nei sonetti popolari del 15 gennaio 1833, uno dal titolo “er lupo manaro”. Nell’incipit spiega che “opinione e nelle notti molto piovose alcuni uomini siano assenti da un male che, togliendo gli dà ragione, li spinge urlanti e carponi fra l’acqua nei quali momenti pericoloso sparsi loro da presso. Costoro vengono chiamati lupi manari“. Secondo alcuni il Belli riporta, sotto forma poetica, un fatto realmente accaduto. In una notte di pioggia di gennaio, un tale Grillo, fabbricante e venditore di sedie, abitante presso San Vitale, oggi sulla via Nazionale, fu colpito dal male del lupo mannaro. Il povero artigiano lasciò la moglie e si allontanò da casa andando ad urlare sull’immondezzaio ma dopo un’ora tornò a casa e la moglie senza tema, gli aprì e fu sbranata. In coda il Belli riporta la credenza popolare che la donna si sarebbe potuta difendere dando in mano al lupo una chiave femmina.
‘Na notte diluviosa de ggennaro
a Ggrillo er zediaretto a Ssan Vitale
tutt’in un botto j’ariprese er male
dell’omo-bbestia, der lupo-manaro.
Ar primo sturbo, er povero ssediaro
lassò la mojje e ccurze pe le scale,
e ssur portone diventò animale,
e sse n’aggnede a urlà ssur monnezzaro.
Tra un’ora tornò a ccasa e jje bbussò;
e cquela sscema, senza dì “cchi è”,
je tirò er zalissceggne, e ‘r lupo entrò.
Che vvòi! Appena fu arrivato sù,
je s’affiarò a la vita, e ffor de sé
la sbramò ssenza fajje dì Ggesù.
Lui je lo disse: “Tu
bbada de nun uprì, ssi nun te chiamo
tre vvorte, ché ssi nnò, Rrosa, te sbramo”.
Cuanno aveva sto ramo
d’uprì, ppoteva armanco a la sicura
dajje una chiave femmina addrittura.
Licantropia e malattie celebrali
Proprio come nel caso del “Vampirismo”, anche la tradizione del lupo mannaro nasconde una patologia. Già Galeno parlava di “melanconia cerebrale” e spiegava che nessuno può davvero diventare un lupo ma che
Coloro i quali vengono colti dal morbo, chiamato lupino o canino, escono di notte nel mese di febbraio, imitano in tutto i lupi o i cani, e fino al sorgere del giorno di preferenza scoprono le tombe.
Secondo il medico Tuttavia si possono riconoscere le persone affette da tale malattia da alcuni sintomi come il pallore e gli occhi lacrimanti. Johan Wier, nel suo De Praestigiis Daemonum, tentò, infatti, di dimostrare che i licantropi erano o insani affetti da forme maniacali, afflitti da gravi patologie mentali. Oggi si parla di licantropia clinica, ovvero una patologia mentale che costringe chi ne soffre a voler assomigliare ad un animale, spesso ad un lupo, a cibarsi di carne cruda e di sangue. Successivamente queste “malattie” furono legate anche a timori e tabù, così ecco che se un paese veniva colpito da peste o carestia significava che in questo era nascosto un “lupomino” e così si scatenavano terribili caccie all’“untore”.
Si sviluppa e cresce la nuova immagine popolare del Licantropo. Per convinzione popolare si credeva che i nati tra il 24 e il 25 dicembre, sarebbero divenuti licantropi se maschi o streghe se femmine. Anche il settimino, cioè il figlio nato settimo senza che, prima di lui, ci sia stata interruzione di sessi, così come chi nasce nel giorno di San Giovanni o di Natale, era destinato a diventare “Lupomino”. Nel Leccese, il padre dello sventurato bambino a mezzanotte saliva sul tetto e gridava: «È natu nu’ stregone alla casa mia». La famiglia cercava di evitare questo tremendo destino. Per le tre notti successive al giorno di Natale il padre, con un piccolo ago rovente, disegna una piccola croce sopra il piede del figlio per “guarirlo”. Tale operazione è nota con il termine ferrare. Una tradizione simile è presente nella valle del Fortore. Altro modi per calmare il “Lupo Mannaro” erano quello di pungerlo con un ago recitando lo scongiuro “sime chembare de San GGiuànne” o cercare di fargli fare un bagno in acqua tiepida dove i sui bollori si calmavano quasi sempre. Mia nonna mi raccontava come un importante mezzo di difesa erano le scale. Il Lupo Mannaro, infatti, non po’ salirle e dunque andarci sopra garantiva una certa protezione. Stessa cosa dicasi per violazioni di tabù, nel materano ad esempio, ed in particolare a Grassano vi era la credenza che chiunque avesse sposato la sua figlioccia si sarebbe trasformato nelle notti di luna piena in un lupo, forse antico ricordo di culti autoctoni che veneravano il sacro animale e tradizioni simili le ritroviamo nell’area siciliana e nel pugliese.
La religione Cristiana non poteva rimanere a guardare, per esorcizzare questi antichi ricordi e per guarire queste malattie legate a satana iniziò a introdurre nella cultura popolare santi guaritori come Sant’Antonio da Padova e il più famoso San Vito, legato al famoso “ballo del santo”, un modo per esorcizzare epilessie e malattie “lunari”, per non parlare di San Francesco d’Assisi e la vicenda del lupo, un modo per esorcizzare antichi culti pagani legati all’animale totemico dell’area umbro-abruzzese e legarli alla nuova figura cristiana, idea che ritroviamo anche nella versione “abruzzese” dell’evento e in particolare della tradizione del paese di Cocullo dove si narra che San Domenico, patrono del villaggio, si trovava a combattere contro un lupo che, la tradizione voleva aver rapito un bimbo in fasce per poi portarlo con se nel bosco. Fu il santo, con le sue preghiere a Dio, a far tornare l’animale con il pargolo e a renderlo mansueto, un altro modo per identificare il santo con la signora delle bestie, la padrona della natura che può donare vita e morte ai suoi credenti.
Il dottor Moselhy, in un suo studio sul Irish Journal of Psichological Medicine affermava che si trattava di un disturbo dell’identità, spesso associato a schizofrenia o ad altri disturbi psichiatrici. Il dottor Coll, in un suo articolo sul The British Journal of Psychiatry descrive due casi di “licantropia clinica” datati 1977 e 1978, ovvero degli individui che avevano sviluppato una sindrome licantropica ovvero lo strisciare carponi, imitando i latrati di cani, in quella che in realtà era una forma di schizofrenia, manico-depressiva. Insomma, alla fine i nostri nonni non avevano torno, probabilmente l’”uomo-lupo” dei loro racconti era esistito davvero, semplicemente la medicina del tempo non aveva diagnosticato il fenomeno, relegandolo, così a magia e superstizione.





Lascia un commento