di Andrea Romanazzi

Le melodie natalizie sembrano esistere da sempre, come se il loro suono fosse nato insieme all’idea stessa dell’inverno e della luce che ritorna. Eppure, anche il canto più noto, quello che oggi in Italia è sinonimo di Natale – Tu scendi dalle stelle – ha una patria precisa, un luogo concreto in cui le note sono germogliate: Deliceto, piccolo centro del Subappennino Dauno, disteso in una geografia di vento, noccioleti e silenzi antichi. È qui, tra il convento della Consolazione e le strade di un borgo che allora contava poco più di un migliaio di anime, che Alfonso Maria de’ Liguori compose nel 1754 la melodia che avrebbe conquistato l’intero Paese.

L’immagine è semplice: un vescovo napoletano, uomo di lettere, musicista, fondatore dei Redentoristi, che trascorre l’inverno in un eremo di Puglia. Le notti sono fredde, la neve compare sulle cime più alte, e i fedeli salgono al convento portando con sé la devozione dei paesi del Sud. In questo rifugio severo e luminoso, Alfonso compone prima la versione in dialetto campano – Quanno nascette Ninno – e da questa farà nascere la stesura in italiano, Tu scendi dalle stelle, che diventerà il canto natalizio più diffuso della tradizione italiana.

Il fatto che tutto sia accaduto a Deliceto non è un dettaglio folcloristico: la Puglia del Settecento è una terra di confine tra la solennità del rito e la vivacità del canto popolare. Qui la religiosità è concreta, fisica, fatta di processioni, presepi, ninne-nanne e formule di devozione domestica. La stessa struttura del canto liguoriano sembra assorbire questo spirito: è una melodia semplice, quasi una filastrocca sacra, pensata per essere subito memorizzata, canticchiata, ripetuta nei vicoli, nei presepi viventi improvvisati nelle masserie, nelle messe di mezzanotte affollate dai contadini.

Per capire perché Tu scendi dalle stelle abbia avuto un destino così radioso, occorre allargare lo sguardo e osservare la lunga storia dei canti natalizi. La tradizione è molto più antica del cristianesimo popolare che oggi conosciamo. Una delle prime testimonianze è l’“Inno dell’Angelo”, datato al 129 d.C., attribuito a un vescovo romano anonimo. Questo inno è forse il primo vero “carol” della storia: non un salmo liturgico, ma un canto pensato per essere eseguito durante una celebrazione natalizia comunitaria, una forma primitiva di quello che diventerà, nei secoli, il repertorio popolare del Natale.

All’epoca, però, la musica sacra parlava due lingue: il latino e il greco. Lingue sacre, certo, ma anche lingue lontane dalla quotidianità della gente. Per secoli i canti natalizi rimasero prerogativa dei celebranti, dei monaci, dei cori ecclesiastici. L’uomo comune, il contadino, il mercante, la donna che accendeva una candela davanti a un’icona domestica, ascoltava ma non partecipava pienamente. La liturgia apparteneva alla sfera alta della religione.

L’elemento decisivo della trasformazione arriva nel Medioevo. Le tradizioni cambiano, come sempre accade quando la vita quotidiana richiede nuove forme di espressione. Le comunità rurali, soprattutto in Francia e Germania, iniziano a cantare melodie in volgare per accompagnare le celebrazioni del Natale: nascono i Noël francesi, i Weihnachtslieder tedeschi, e in Italia emergono le prime canzoni devozionali in dialetto.

Questo movimento non è casuale. Una figura carismatica, quasi rivoluzionaria per il suo tempo, ne è catalizzatore: Francesco d’Assisi. Il santo non solo inventa il presepe vivente – gesto gigantesco nella storia della religiosità europea – ma incoraggia l’uso di canti semplici, in lingua comprensibile, affinché il mistero cristiano possa essere percepito anche dagli analfabeti. Il Natale smette di essere un affare esclusivo dei chierici e diventa un evento della comunità.

Da quel momento la musica natalizia cambia pelle. Non più soltanto inni liturgici, ma ninne-nanne, danze leggere, melodie che parlano del Bambino come di un figlio avvolto in fasce, di una madre che veglia, di un bue e un asino che scaldano la grotta. È un Natale umanissimo, quello medievale: la teologia entra nella vita quotidiana attraverso il canto.

L’Italia, con la sua frammentazione linguistica, trasforma tutto questo in un mosaico. A nord emergono ninne-nanne bergamasche e veneziane, al sud i canti napoletani, siciliani e sardi modellano il Natale secondo sensibilità locali. Ogni zona ha il suo modo di raccontare la nascita di Gesù. Le melodie sono spesso lente, cullanti; il “Bambinello” diventa protagonista di un affetto tenero e popolare, profondamente umano.

Dentro questa tradizione vasta approda Alfonso Maria de’ Liguori. Avvocato brillante prima di diventare sacerdote, porta nella sua opera musicale una sintesi sorprendente: la raffinatezza della formazione classica e la semplicità della cultura popolare meridionale. Quanno nascette Ninno, la versione dialettale del brano, è già una piccola perla, ma è con Tu scendi dalle stelle che il canto acquisisce la forma che tutti conoscono.

La scena di Deliceto, nella sua apparente quiete, è in realtà un laboratorio culturale. Alfonso vive l’umiltà del paesaggio pugliese come un ritorno all’essenza della fede. Il canto nasce per parlare ai semplici: un Dio che scende “dalle stelle” in una grotta è l’immagine perfetta per chi vive in una terra dove l’inverno può essere duro, e le case spesso non bastano a trattenere il freddo. Il Natale, per la gente di Puglia, non è solo un fatto teologico, ma un’esperienza fisica: stalle, paglia, vento, fuoco, odore di legna arsa. Il canto riesce nella grande impresa di trasfigurare la vita quotidiana in un racconto sacro.

La forza del brano sta tutta in questa tensione: da un lato la teologia dell’incarnazione, dall’altro la povertà dignitosa dei paesi meridionali. I fedeli non vedono in quelle parole un concetto astratto, ma un’immagine familiare: un bambino che soffre il freddo come i loro figli, un Dio che rinuncia a tutto per condividere la fragilità umana.

È anche un canto pedagogico: parla della povertà del Bambino per suscitare compassione e imitazione. È un invito alla semplicità, alla vicinanza, alla fraternità. Questo spiega perché, nel corso dei secoli, Tu scendi dalle stelle sia stato cantato nelle chiese come nelle case, nelle scuole come nelle piazze. È un brano universale perché è umano prima ancora che religioso.

Quando il canto si diffonde, nel Settecento e nell’Ottocento, l’Italia non è ancora unita, ma il Natale sì: il brano diventa rapidamente un simbolo comune, un linguaggio condiviso da nord a sud. È uno dei rari casi in cui una melodia popolare supera i confini regionali senza perdere la sua semplicità originaria. Persino i musicisti colti ne rimangono affascinati. Molti organisti dell’Ottocento inseriscono la melodia come tema nelle loro variazioni; altri la trascrivono per pianoforte. La canzone migra poi nelle prime incisioni discografiche del Novecento, e con esse conquista il mondo.

Le comunità italiane all’estero la adottano come segno identitario: cantare Tu scendi dalle stelle in America, in Argentina, in Australia significava ritrovare, almeno per una sera, il calore perduto della propria terra. Forse anche per questo il brano è rimasto così profondamente radicato nella memoria collettiva: non appartiene solo alla liturgia, ma alla nostalgia.

Oggi, quando risuona nelle chiese o nei mercatini di Natale, il canto conserva intatta quella primitiva capacità di evocare scena e sentimento.

Ogni volta che lo ascoltiamo, senza rendercene conto, attraversiamo secoli di storia, lingue, tradizioni. Le note che scorrono sembrano leggere, ma sono dense di memoria. E quel Bambino che “non trova alloggio” è lo stesso che, secoli prima, un anonimo vescovo romano aveva invocato in un inno lontanissimo nel tempo.

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