di Andrea Romanazzi
La tarantella è una danza tradizionale italiana che ha trovato una particolare espressione nella regione Campania. Con un ritmo vivace e incalzante, accompagnato da strumenti come tamburelli e chitarre, la tarantella campana è non solo una forma di intrattenimento, ma anche un veicolo per pratiche rituali e magiche. I testi spesso contengono invocazioni, preghiere e formule magiche, progettati per invocare protezione e guarigione, mentre i movimenti ripetitivi e frenetici della danza richiamano le tradizioni estatiche sciamaniche. Questo approfondimento vuole soffermarsi sulle tarantelle orgiastico-rituali che si tenevano in passato a Napoli e in Campania in particolare durante la notte di san Giovanni.
La Tarantella orgiastica dell’Imbrecciata
Nel folklore e nei racconti popolari napoletani si parla spesso delle Tarantelle di san Giovanni. Lungo la spiaggia di Chiaia, presso la chiesa di San Giovanni a Mare, uomini e donne si denudavano e si bagnavano nel mare per poi ballare fino all’alba. Questi festeggiamenti, aboliti già dai viceré spagnoli, sopravvissero in forma nascosta. Scrive il De Blasio “La tarantella è un ballo erotico, che ci richiama il ricordo delle orgie di alcuni popoli selvaggi. Essa si ballava fino a due anni or so no nell’ “Imbrecciata”, dove il piccone del risanamento non ha fatto altro che abbattere alcune case, che facevano parte di quel fomite d’immoralità, lasciando però incolume la casta che da secoli vi st stabili.”. Aggiunge che esistono due tipi di tarantella, “…si divide in “semprice” (semplice) e “cumpricata” (complicata); nella prima prendevano parte soltanto e donne e nella seconda uomint e donne“.
Le tarantelle complicate meritano per loro natura una analisi approfondita perchè tipiche di un quartiere napoletano, l’Imbrecciata, noto per le sue condizioni precarie e per essere un centro di attività marginali e criminali. Situato nella parte più antica della città, questo quartiere era caratterizzato da strade strette e case fatiscenti, rappresentando uno dei simboli delle condizioni difficili di una parte della popolazione napoletana alla fine del XIX secolo. Il termine “Imbrecciata” deriva probabilmente dall’uso del brecciame (piccole pietre) nelle strade e nelle costruzioni del quartiere. Tra il XV e il XIX secolo, divenne un luogo di ritrovo per taverne, prostitute, clienti, ladri e balordi. Gustave Flaubert, autore di Madame Bovary, visitò Napoli nel 1851 e descrisse il quartiere delle prostitute come una suburra, affascinato dalla quantità di donne che vi abitavano. Racconta di prostitute che, davanti alle loro porte, sollevavano le vesti per mostrare il corpo e guadagnare qualche soldo. Anche Alexandre Dumas padre scrisse di Napoli, descrivendo il quartiere come un luogo dove donne di ogni età, bellezza e condizione erano ammassate e sorvegliate come criminali, paragonate a un gregge o a bestie braccate. Fu Ferdinando I di Borbone, a fine ‘700, a sancire la zona come centro del meretricio con un editto che autorizzava e concentrava la prostituzione in quell’area. Nel 1855, Ferdinando II eresse un muro per isolare i clienti in cerca di piacere sessuale ma anche emozionale. Erano presenti anche vicoli come Vico Femminelle, ora Via Pietro Antonio Lettieri, frequentato da omosessuali e travestiti. Questa zona era anche famosa anche per la presenza di luoghi di ritrovo e di spettacoli clandestini, dove si esibivano balli come la tarantella, sotto pagamento, in un’esibizione più complessa e carica di significati erotici. Gli spettatori, guidati da anziane donne del quartiere, si ritrovavano in ambienti intimi e soffusi, dove le danzatrici iniziavano la loro esibizione.
“Questa danza cominciava per far ridere, poi per stordire, e alla fine faceva spavento: dico faceva, perché credo che ora sia stato per risanamento, abbattuto l’infame quartiere, smarrita la sciagurata adizione, e sulle zolle tristi del peccato e del dolore vadano sor ndo le case linde e pure santificate dal lavoro. Si andava laggiù in recchi, e si diceva a qualche vecchia strega, orribile ammasso di nei e di rughe, di voler assistere alla danza. La vecchia si dava da e, correva in giro per le bottegucce e poco dopo si vedevano sgu are dalle medesime, ombre di femmine avvoltolate negli scialletti, passo frettoloso, battendo il legno dello zoccolo sulla pietra della via…i curiosi restavano in piedi in un cantuccio, mai sospettando ciò che sarebbe seguito, con tutti gli sforzi della più volgare fanta sia. E allora si slanciavano di donne, che si abbandonavano, urlando, picchiandosi, strappan mezzo al camerone, nudi, laidi corpi dosi i capelli, rotolandosi per terra, tra le bestemmie e i ritornelli da taverna. Ballavano, saltavano: le capriole, il chiasso, il tanfo dei lu cignoli di sego e delle grommate mura le stordiva, le esasperava, e il saturnale orrendo alla fine faceva scappare inorriditi…La briaca schiera volteggiava furibonda, e il lurido carcame bacchicamente fremeva. Il fracasso era assordante: urli, parolacce, canzonacce che mandavano alle labbra accenti di disgusto e faceva no vnire agli occhi lagrime di pietà. Le sciagurate erano giunte ala parossismo, e la tregenda da sabato tumultuava strenatamente furi bonda.”.
Il de Blasio continua “La sala da ballo, dove presenziai alla tarantella “cumpricata” era contemporaneamente adibita cucina, per dormitorio, per sala di compagnia, per nido d’amore e per… latrina; era sottoposta ala piano stradale per circa mezzo metro. Una lurida tendina, fissata da un muro all’altro, mediante una cordicella divideva la sala dal dormitorio. Il mobilio di casa si com poneva di un vecchio “canape”, di tre sedie e di un cassettone, sul quale vedevasi esposto un quadro della Madonna di Pompei, innanzi al quale ardeva una lampada ad olio…La vecchia spense la lampada, pose il quadro alla rovescia, forse per non far presenziare la Madre di Cristo alle scene di immoralità che si stavano preparando. Le ballerine e í loro amanti, dopo un “permettete!”, andarono a svestirsi dietro “o sipario” La vecchia diè di piglio ad un vecchio tamburo e principiò a sonar. Le ballerine si fornirono di nacchere, e, affatto ignude, incominciarono a ballare imitando coi loro movimenti gli atti dell’amplesso. La vecchia intanto intonò una nenia oscena e quando arrivò al: Figliò, figliò, ballate…Guagliù, guagliù c… (chiavàte)”.
Le danze erotiche che si svolgevano nel quartiere dell’Imbrecciata a Napoli hanno radici profonde che affondano nelle tradizioni antiche e nei rituali pagani. Queste danze, tra cui la particolare tarantella erotica, possono essere comprese meglio se esaminate in relazione ai riti orgiastici delle antiche civiltà mediterranee e possono essere ricondotte ai riti orgiastici delle feste dionisiache, celebrazioni in onore di Dionisio, il dio greco del vino, della fertilità e della frenesia rituale. I Baccanali erano caratterizzati da danze sfrenate, consumo eccessivo di vino e comportamenti licenziosi, che servivano a onorare il dio e a promuovere la fertilità e la rigenerazione. In realtà ancor prima erano collegate ai riti agrari, celebrati per assicurare buoni raccolti e la fertilità della terra. I balli sfrenati simboleggiavano l’energia vitale della natura e il ciclo della vita e della morte, e erano spesso accompagnate da miti e leggende che celebravano l’unione sacra tra divinità maschili e femminili, rappresentando l’atto sessuale come un rito sacro che assicurava la continuità della vita. Nonostante le repressioni, le danze erotiche continuarono a sopravvivere sotto forme diverse, mantenendo vivo il legame con le loro origini rituali. La tarantella erotica dell’Imbrecciata rappresenta un esempio di come tradizioni antiche possano adattarsi e trasformarsi, mantenendo il loro significato profondo.
La Tarantella di san Giovanni
Una delle date in cui maggiormente si svolgevano queste danze era la notte di San Giovanni. Storicamente, le danze si svolgevano lungo la spiaggia di Chiaia, presso la chiesa di San Giovanni a Mare, una delle poche chiese di Napoli che conserva elementi dell’architettura romanica, risalente al XII secolo e legata all’ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Sconsacrata e difficilmente apertal, oggi l’ingresso è sotto il livello stradale.
Come detto, la Chiesa di San Giovanni a Mare era nota per i rituali magici che vi si svolgevano, particolarmente legati alla festa di San Giovanni Battista il 24 giugno. Questi rituali includevano pratiche pagane come l’accensione di fuochi e il bagno rituale nelle acque del mare per ottenere purificazione e fertilità. Durante la notte, uomini e donne si denudavano e si bagnavano nelle acque del mare, per poi ballare fino all’alba. Questa celebrazione era tanto sfrenata e licenziosa che nel 1653 il viceré spagnolo Garcia de Haro Sotomayor, conte di Castrillo, proibì sia i balli che il bagno nudo comune a causa della promiscuità che suscitava molto scalpore. Velardiniello, poeta napoletano del Cinquecento, descrive vividamente la festa di San Giovanni a Mare nei suoi versi. La festa era caratterizzata da donne che, durante la notte di San Giovanni, si recavano in spiaggia senza vestiti e cantavano e ballavano per celebrare l’evento. Questa tradizione, con i suoi forti richiami sessuali e la sua componente ritualistica, testimonia la profonda connessione tra la cultura popolare napoletana e le sue antiche radici pagane.
Li femmene la sera di san Gianne
Jevane tutte ‘nchietta a la marina
Allere se ne jeano senza panne,
cantanno sempe maie la romanzina.
E la luna e la luna
Tutt’ ‘e femmene stanno annura.
All’annura e senza panne
Mo’ ch’è ‘a festa e san Giuvanne.
San Giuvanne san Giuvanne
E’ ‘na crapa ca se scanna
E’ nu cuollo senza capa
E’ nu cuollo è nu cuollo,
primma è tuosto e doppo è muollo
Primma è tuosto primma è tuosto
Comm’ abballa ‘o sango nuosto.
Questi versi evocano la scena delle donne che, durante la notte di San Giovanni, si recano alla spiaggia senza vestiti, cantando e ballando in un’atmosfera di gioia e libertà, caratterizzata da forti richiami sessuali e rituali. La festa è descritta come un momento di trasgressione e celebrazione collettiva, che affonda le sue radici nelle antiche tradizioni popolari napoletane.
In passato, le danze e i bagni rituali presso la Chiesa di San Giovanni a Mare erano probabilmente legati alla figura di Partenope, la sirena fondatrice di Napoli secondo la mitologia greca. Partenope è una delle sirene che cercarono di sedurre Ulisse con il loro canto. Dopo il fallimento, si gettò in mare e il suo corpo fu trasportato fino alle coste di Napoli, dove fu venerata come divinità protettrice della città. Non è un caso che proprio qui sia presente la “Testa di Donna Marianna” o “‘a capa e Napule”. Questa scultura ellenica, la cui copia si trova all’ingresso mentre l’originale è conservato a Palazzo San Giacomo, è circondata da numerose leggende. La sua collocazione riflette il profondo legame tra Napoli e le sue radici mitologiche, come la figura di Partenope, sottolineando l’importanza del mito e della storia nella cultura napoletana.





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