di Andrea Romanazzi

Tra i giocattoli che hanno saputo attraversare i secoli, pochi sono tanto carichi di ambiguità quanto il Jack-in-the-Box. Apparentemente un semplice divertimento per bambini, nasconde dietro la sua molla e la sua musica una genealogia antica, fatta di paure rituali, spiriti ingannatori e simbolismi del contenimento. Come spesso accade nella cultura popolare, ciò che oggi è un oggetto ludico nasce da un’immagine sacra o terrificante: un modo per esorcizzare il caos racchiudendolo in un contenitore e liberarlo solo a comando.

L’origine del nome

L’espressione Jack-in-the-Box compare in Inghilterra attorno alla fine del XVI secolo. “Jack” è un nome comune, usato nel linguaggio popolare per indicare un qualsiasi uomo o servitore, proprio come “Giovannino” o “Tizio” in italiano. Nelle fiabe, nei proverbi e nei canti, Jack è l’eroe scalcinato ma astuto, il contadino che inganna i potenti, il furfante che riesce a sopravvivere grazie alla furbizia. Ma “Jack” è anche un nome che si presta a incarnare l’inganno stesso: Jack-o’-Lantern, Jack Frost, Jack the Giant-Killer, Jack the Ripper. È l’archetipo del trickster, lo spirito dell’imprevisto.

Metterlo “in una scatola” – in the box – equivale, in chiave simbolica, a rinchiudere l’imprevedibile. Il giocattolo, che si apre a scatto liberando un piccolo folletto, diventa così l’immagine perfetta del caos addomesticato.

Dietro l’apparente innocenza del sorriso meccanico, c’è il gesto arcaico di contenere il demone per poi evocarlo, un rituale in miniatura che trasforma l’orrore in sorpresa e il sacro in gioco.

Le prime testimonianze: dal diavolo alla molla

La prima descrizione documentata di un Jack-in-the-Box risale al 1560 circa. In un registro di corte inglese compare la nota di un giocattolo regalato al principe Edoardo: una “scatola che, aperta, mostra una figura saltante, mossa da una molla”. La tradizione artigiana del tempo, specialmente quella tedesca e fiamminga, aveva già sviluppato meccanismi a scatto per piccoli automi religiosi o teatrali, usati nelle sacre rappresentazioni e nei presepi meccanici. Da quei congegni nacque, lentamente, la versione domestica e ludica.

Ma in origine, le figure che scattavano fuori dalla scatola non erano buffi clown: erano diavoletti. Il nome “Jack-in-the-Box” indicava infatti, nel Seicento, un “diavolo nella scatola”, un giocattolo-trappola usato come scherzo crudele. Alcuni documenti del XVII secolo citano giocatori di taverna che vendevano “scatole del diavolo” per spaventare gli ingenui: aprendo il coperchio, un piccolo demone di cartapesta saltava verso il viso del malcapitato.

Il significato simbolico era trasparente. Il demonio, imprigionato e poi liberato, rappresentava l’irruzione improvvisa del male nel quotidiano. Come in molti altri oggetti apotropaici, si cercava di controllare la paura evocandola in forma ridotta, gestibile.

Il giocattolo, insomma, è la versione domestica di un esorcismo.

L’eco del trickster: da Jack-in-the-Box a Jack-o’-Lantern

Il collegamento con altre figure del folklore britannico è immediato. Jack-o’-Lantern, l’uomo condannato a vagare con una lanterna nel buio, e Jack-in-the-Box condividono lo stesso nome e lo stesso destino: l’essere confinati. Il primo è imprigionato in un eterno limbo, il secondo in una scatola. Entrambi emergono solo per un istante, portando disordine o riso, poi scompaiono di nuovo.

È la dinamica del “mostro liberato”, presente in molte leggende nordiche: pensiamo al folletto Puck di Shakespeare, o al diavolo rinchiuso nelle bottiglie delle fiabe contadine.

Nei secoli, il passaggio da oggetto demoniaco a giocattolo per bambini fu lento ma costante. La rivoluzione industriale, con la produzione meccanica di balocchi, eliminò gran parte del riferimento infernale, sostituendo il diavolo con figure più neutre o buffe: pagliacci, arlecchini, buffoni di corte. Ma il meccanismo restò lo stesso: attesa, tensione, scatto, sorpresa.

La risata del bambino sostituiva l’urlo del superstizioso, ma la dinamica emotiva era identica.

Dal folklore al meccanismo: anatomia di una paura addomesticata

Un Jack-in-the-Box tradizionale è composto da una scatola di latta o legno con una manovella laterale. Girandola, una molla interna fa muovere un cilindro sonoro che produce la melodia di Pop Goes the Weasel, canzone popolare vittoriana dal testo ambiguo, forse legato alla povertà e alla follia.

Al termine della melodia, uno scatto fa aprire il coperchio e la figura interna, fissata a una spirale metallica, “esplode” verso l’esterno.

Il gioco è tutto nella tensione dell’attesa. Si sa che qualcosa accadrà, ma non esattamente quando. È la stessa logica psicologica che sta dietro agli scherzi, alle magie, alle comiche slapstick. Ma anche ai rituali religiosi e alle esperienze del sacro: attesa, rivelazione, liberazione.

Il bambino che ride davanti a Jack-in-the-Box ripete inconsciamente il rito dell’uomo primitivo che evoca lo spirito nel tamburo o nel feticcio: un incontro controllato con l’imprevisto.

Jack come archetipo del burlone imprigionato

In molte tradizioni europee, il “folletto imprigionato” è una figura ricorrente. Nelle fiabe tedesche si parla di kobold rinchiusi in fiaschi o botti, pronti a balzare fuori se chiamati. In Irlanda, il leprechaun custodisce il suo tesoro dentro un contenitore chiuso e punisce chi lo libera senza rispetto. Nella mitologia nordica, Loki, dio degli inganni, viene spesso incatenato o imprigionato, ma il suo ritorno è inevitabile.

Il Jack-in-the-Box sembra condensare questi racconti in un oggetto giocattolo: il trickster che ritorna sempre, la forza che non può essere soppressa, solo temporaneamente contenuta.

Il folklore inglese conosceva anche un detto popolare: to pop like Jack-in-the-Box, “spuntare all’improvviso come Jack nella scatola”, usato per descrivere persone imprevedibili o eventi inattesi. Il linguaggio conserva quindi il senso originale: ciò che è nascosto e scatta improvviso, come un pensiero, un fantasma, una rivelazione.

La trasformazione vittoriana

Fu nel periodo vittoriano che il giocattolo assunse la forma che conosciamo oggi. La produzione industriale, specialmente quella tedesca e inglese, rese possibile costruire scatole decorate con immagini colorate e figure di stoffa o cartapesta. Le botteghe di Norimberga, specializzate in automi, furono le prime a esportarle in tutta Europa.

Il diavoletto lasciò il posto al pagliaccio, figura più accettabile ma non meno ambigua. Il clown, con il suo sorriso fisso e inquietante, continuava a incarnare l’ambivalenza tra riso e paura.

Nel tardo Ottocento, in molte case borghesi, il Jack-in-the-Box divenne un simbolo dell’infanzia educata ma controllata: un giocattolo che insegnava a “saper ridere della paura”.

Non a caso, in letteratura e nelle arti visive, il clown-Jack appare spesso come figura perturbante. Nel Novecento, quando il cinema e l’horror iniziano a esplorare il lato oscuro dei giochi infantili, il Jack-in-the-Box diventa un topos visivo del “mostro domestico”: il male che si nasconde nel giocattolo.

Un simbolo psicologico

Da un punto di vista psicanalitico, il Jack-in-the-Box è un perfetto simbolo dell’inconscio rimosso. Ciò che è represso (nascosto nella scatola) ritorna improvvisamente in superficie, provocando stupore o paura. Il meccanismo stesso è una rappresentazione meccanica della rimozione e del ritorno del rimosso.

Freud avrebbe potuto vederci una metafora della pulsione che scatta nonostante i freni del Super-Io. Jung, invece, vi avrebbe riconosciuto l’archetipo dell’Ombra: il lato oscuro della personalità che, una volta liberato, ride o terrorizza.

Non sorprende quindi che il giocattolo compaia spesso nei sogni e nei racconti di paura. Nelle narrazioni moderne, da The Twilight Zone ai film horror contemporanei, il Jack-in-the-Box è diventato un simbolo dell’infanzia violata o del ritorno del trauma. L’innocenza del suono e la brutalità dell’esplosione visiva formano una coppia che parla direttamente all’inconscio.

L’arte di contenere l’imprevisto

Al di là delle letture psicologiche, il successo duraturo del Jack-in-the-Box sta nella sua semplicità rituale. È un piccolo teatro portatile: attesa, musica, rivelazione.

Ogni elemento ha un corrispettivo simbolico.

La scatola: il mondo chiuso, l’ordine.

La molla: la tensione interna, la vita compressa.

Il coperchio: la soglia tra visibile e invisibile.

Il Jack: lo spirito, il caos, l’anima che emerge.

È un racconto cosmologico ridotto a giocattolo.

Non a caso, in molte culture, la scatola o il contenitore magico è una costante: la pithos di Pandora, la lanterna dello spirito, la bottiglia del genio arabo. Tutti custodiscono qualcosa di potente, che può donare o distruggere.

Il Jack-in-the-Box è la versione occidentale, ironica e domestica, di questo archetipo: la paura ridotta a dimensioni giocabili.

Jack nel mondo moderno

Con il Novecento, l’immagine di Jack si è moltiplicata. Oltre al giocattolo, Jack-in-the-Box è divenuto metafora di chi appare e scompare improvvisamente, di un’idea che salta fuori dal nulla, o di un pericolo latente. La cultura pop ne ha fatto un emblema della sorpresa: dai cartoni animati della Warner Bros alle copertine dei dischi psichedelici, fino ai videogiochi e ai film horror.

La catena di fast food americana fondata nel 1951 che porta lo stesso nome non fa che giocare su questo: un clown che spunta dal logo come il giocattolo, trasformando l’elemento inquietante in ironia commerciale.

Nella cultura gotica e nei collezionismi, il Jack-in-the-Box è tornato a essere oggetto da esposizione, talvolta costruito artigianalmente in stile vittoriano, con figure mostruose o demoniache. È un ritorno alle origini, ma con consapevolezza estetica: si celebra la paura domestica come arte.

L’eredità antropologica: dal feticcio al balocco

Considerato nel lungo corso della storia materiale, il Jack-in-the-Box appartiene alla grande famiglia degli oggetti “animati”: statue meccaniche, pupazzi da marionette, feticci da oracolo. Oggetti che simulano la vita, e proprio per questo, generano ambivalenza.

In antropologia si parla di “effetto di animazione”: l’oggetto inanimato che si muove produce un corto circuito percettivo, e quindi, un piccolo spavento.

Il giocattolo sfrutta questo effetto per divertire, ma le sue radici affondano in un tempo in cui animare la materia era prerogativa della magia o della divinità.

Così, la molla che fa scattare Jack non è solo un meccanismo: è il simbolo della forza vitale che preme per uscire. Un’energia che deve essere contenuta e rilasciata nel momento giusto, come il fuoco nel focolare o l’acqua nella diga.

Il bambino che gira la manovella ripete, inconsapevolmente, il gesto rituale di chi invoca e doma la potenza naturale.

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