di Andrea Romanazzi

L’Irpinia è una terra ricca di storia, mito e magia, dove le tradizioni pagane e cristiane si fondono in un affascinante intreccio di leggende e credenze popolari. Questa regione, situata nell’entroterra campano, è nota per i suoi luoghi sacri e per le storie di stregoneria che hanno alimentato l’immaginario collettivo per secoli. ATTENZIONE VENGONO TRATTATI ARGOMENTI NON ADATTI A PERSONE SENSIBILI

Uno dei luoghi più celebri dell’Irpinia è la montagna sacra di Montevergine, dedicata a Cibele, la grande madre anatolica della natura e della fertilità. Altro centro magico è il paese di Altavilla Irpina, noto per la leggenda del gobbo, raccontata da Pietri Piperno nel 1640. Questa storia, parte integrante del patrimonio folkloristico locale, narra le vicende di un uomo deforme e della sua interazione con le forze magiche della regione. L’Irpinia è anche famosa per i suoi alberi leggendari, sotto i quali si dice si svolgessero i sabba, ovvero i rituali notturni delle streghe. Tra questi, spicca il castagno di Torella, conosciuto anche come Spolecastroleca. Questo albero è legato alla triste storia di una donna accusata di stregoneria e brutalmente uccisa da briganti. La sua vicenda ha conferito al castagno un carattere quasi sacro, rendendolo un simbolo delle antiche credenze magiche della regione. A Montecalvo Irpino, il cui nome potrebbe derivare dal latino “mons calvus” (monte roccioso e privo di alberi) o “mons galbus” (monte giallo, per il colore del tufo o dei fiori di ginestra presenti in zona), le streghe si radunavano di ritorno dai sabba di Benevento, Un altro albero stregato è presente a Montoro, un tiglio ancora oggi esistente nel rione Mercatello. 

L’Irpinia, con i suoi paesaggi suggestivi e le sue antiche leggende, continua ad affascinare chiunque vi si avventuri, offrendo un viaggio nel tempo tra mito, storia e magia. Le storie di streghe, sabba e alberi sacri sono parte integrante di questa terra misteriosa, dove ogni angolo racconta una storia e ogni albero conserva un segreto.

Medicina popolare

In Irpinia, terra di antiche tradizioni e misteri, la medicina popolare ha rivestito un ruolo fondamentale nella vita quotidiana delle comunità agropastorali. Quando la scienza moderna era ancora lontana e i medici scarseggiavano, gli abitanti si affidavano a pratiche ancestrali per trovare sollievo dai loro mali. Queste pratiche, intrise di magia e rituali, riflettono un sapere antico che mescola erboristeria, superstizione e fede. La medicina popolare irpina si divideva in terapie magico-erboristiche, terapie magiche e terapie miste, ciascuna con le sue peculiarità e finalità, ma tutte unite dalla ricerca di equilibrio e guarigione attraverso metodi che combinano natura, rituali pagani e invocazioni religiose. In questo articolo esploreremo le diverse forme di terapia praticate in Irpinia, scoprendo un mondo affascinante dove l’occulto e il divino si intrecciano nella quotidiana lotta contro il malessere. Come detto nella società agropastorale dell’Irpinia, i malati cercavano spesso la causa del loro male in persone, entità soprannaturali o nel mondo dell’occulto. Non è possibile identificare con precisione una malattia specifica, si tratta piuttosto di un’ampia gamma di malesseri generali, spesso attribuiti a potenze malefiche provocate inconsapevolmente (come nel caso dell’itterizia, ritenuta causata da chi urina contro l’arcobaleno). Altre volte, si cercava di scongiurare influssi negativi attribuiti ad altri individui, spinti da invidia, rancore o desiderio di vendetta. Le terapie si suddividono in tre categorie principali:

Terapie magico-erboristiche: basate principalmente sull’uso di erbe medicinali come camomilla, ruta, valeriana, marrubio e papavero. I contadini credevano fermamente che la natura offrisse una cura per ogni malattia: “Pe ogni male r’ cuorpu l’americina è int’a l’uortu” (Per ogni male del corpo, la medicina sta nell’orto). Anche il cibo era considerato una cura efficace: “p’curà ogni mmale: pìnnele r’ addina e sciruppu r’ cantina” (Per curare ogni male: pillole di gallina, le uova, e sciroppo di cantina, il vino). Tuttavia, non bastavano solo le erbe dell’orto per curare tutti i mali.

Terapie magiche: che dipendono fortemente da parole e gesti eseguiti secondo rituali arcaici, sopravvivono tradizioni pagane. Materiali di origine umana come sangue mestruale, capelli, saliva, urina, peli delle ascelle o del pube, placenta, cordone ombelicale e sperma, giocano un ruolo rilevante.

Terapie miste: combinano l’uso delle erbe, formule magiche e forze divine. Durante queste pratiche, i guaritori utilizzano erbe, gesti magici e invocano Dio, la Vergine o i Santi. La medicina popolare irpina conserva evidenti tracce di culti pagani, ma all’interno dei cerimoniali terapeutici, le invocazioni religiose assumono un ruolo significativo.

Tecniche di trasferimento:  “translatio morbi”, ovvero si trasferiva ad altri il male, su una pianta: Incidendo la corteccia del tronco e aspettando che si essiccasse e cadesse, su un passante sconosciuto, con una pignatta depositata in un crocicchio, o con il getto dell’acqua in strada, su un animale.  

Il Legamento

Le fatture erano sortilegi concepiti per legare una persona, impedirne o controllarne l’azione. Le vittime di queste fatture risultavano legate, incapaci di agire liberamente, e per liberarsene dovevano ricorrere a una fattucchiera. Si parlava di “assògli na fattura,” cioè sciogliere un legame magico. 

Per la fattura si usava una polvere ottenuta da ossa di una persona defunta mescolata a quelle di un sacerdote morto. La polvere veniva lasciata riposare per tre giorni e poi gettata sulla vittima mentre si recitava la formula propiziatoria, 

Ti attacco e ti attacco ancora,

Ti lego e torno a legarti,

attacchi la volontà

ti lego alla volontà mia

mia

e farò quello che voglio!

e di te faccio ciò che

voglio io!

“`

Per costringere un altro ad assecondarti, annullando la sua volontà, bastava raccogliere l’erba valeriana alle tre di notte per tre notti consecutive, durante la fase calante della luna. Avvolgere poi l’erba in una pezzuola nera di lana e seppellirla sotto un mucchio di sterco di gallina, lasciandola lì per tre mesi. Ogni giorno, per tre volte, si doveva recitare la formula:

“`

Man’a mmanu ca la luna tramonta,

pure tu vieni meno.

Con valeriana ciascuno pensiero

io ti levo

Con la valeriana ogni pensiero

qualcuno si alzi!

“`

.

La Pedata e le Fatture di Morte

Le fatture di morte sono sortilegi utilizzati per eliminare una persona, spesso per motivi di amore o odio. Nel contesto sentimentale, le passioni possono diventare violente, spingendo a ricorrere a queste pratiche per eliminare una rivale o lo stesso amato. Uno dei metodi più diffusi era la peràta, che prevedeva l’uso della terra calpestata dalla vittima.

Si raccoglieva la terra dall’orma del malcapitato e, a volte, si modellava un fantoccio con quella terra. Mentre il fantoccio si essiccava, le energie vitali della persona affatturata diminuivano. Questo metodo crudele era molto praticato in Alta Irpinia, testimoniato a Bagnoli, Torella e Lioni. Un altro modo era quello di raccogliere la terra sotto i passi del malcapitato per farla poi  essiccare vicino al fuoco, facendolo patire per uno, due o quattro anni ed infine gettarla nel forno acceso recitando “Terra secca, la vita seccagli!” La fattura doveva provocare prima il deperimento fisico e poi, inevitabilmente, la morte. La persona affatturata si contorceva e consumava come un pezzo di cotica sulla brace.”. A Volturara, si seccava la terra dell’orma in una padella sulle fiamme del camino. A Bagnoli, si raccoglieva la terra con una paletta e si formava un pupazzo imbottito con chicchi di granturco e incenso. Questo pupazzo veniva infilzato con una forcina e appeso alla catena del camino o nella cappa, dove il fuoco lo faceva essiccare, causando il deperimento del nemico. Se si voleva interrompere il maleficio, si bagnava la terra con l’acqua.

La fattura della pedata veniva praticata anche contro chi penetrava in una proprietà per furto. Il derubato prelevava l’impronta del ladro e la portava da un fattucchiere, che, tramite l’analisi dell’impronta, risaliva all’autore del furto e praticava un maleficio. I ladri più astuti camminavano ginocchioni per non lasciare tracce. A Montecalvo, si usava la pitàgna, un calco dell’orma del ladro fatto con corteccia fresca di noce, che, con un rituale di morte, provocava il decesso del malfattore.

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