di Andrea Romanazzi
In questa terza parte degli alfabeti magici ci avventuriamo in un territorio dove la scrittura smette di essere semplice segno e diventa presenza, talismano, corpo sottile dell’invisibile. Fra i molti sistemi che le culture hanno elaborato per dare forma all’energia spirituale, spicca l’alfabeto delle amulette arabe ed ebraiche, attestato in Marocco agli inizi del XX secolo.
Fra questi sistemi, uno dei più affascinanti è l’alfabeto degli amuleti arabi ed ebraichi, documentato in Marocco agli inizi del XX secolo. Esso traduce in forma grafica l’antica convinzione che la lettera scritta possa contenere la forza del profeta o dello spirito che rappresenta, e che il disegno stesso della parola possieda una virtù attiva e autonoma.
L’alfabeto magico delle amulette

L’immagine presenta un sistema grafico convenzionale impiegato nella scrittura occulta di amuleti arabi ed ebraici, diffuso soprattutto nei contesti magico-religiosi del Nord Africa. Si tratta di un alfabeto magico, o più precisamente di un alfabeto cabalistico grafico, in cui ogni segno possiede un duplice valore: fonetico e simbolico, linguistico e sacrale. In questo tipo di scrittura, il segno non è mai mera notazione: è un’entità dotata di forza propria, un tramite tra l’ordine umano e quello spirituale.
Come testimonia Edmond Doutté nei primi anni del Novecento (La Sorcellerie au Maroc, pp. 208-210), ogni lettera di questo alfabeto rappresenta:
- l’iniziale del nome di un profeta o di un santo;
- un’entità spirituale invocata nel rito;
- oppure una forza benefica alla quale si chiede protezione o guarigione.
Ogni lettera ha poi una funzione triplice:
- Invocatoria, poiché richiama il nome sacro cui si riferisce;
- Protettiva, perché la forma chiusa trattiene la potenza evocata;
- Performativa, giacché la sola presenza del segno, indipendentemente dalla sua lettura, agisce come comando rituale.
La scrittura stessa, dunque, si configura come una forma di invocazione condensata: il semplice tracciato grafico della lettera, o il suo monogramma, contiene in sé il potere evocato. L’amuletta non è più un testo da leggere, ma una costellazione di segni sacri, un linguaggio visivo di potenza, capace di agire per la forma che assume.
Queste lettere venivano incise o tracciate su supporti di natura diversa — fogli, pelli, lastre metalliche di rame o d’argento — e spesso accompagnate da figure schematiche: cammelli, pesci, chiavi, lucchetti. Le immagini servivano a identificare l’oggetto o la realtà su cui si desiderava agire: un bene smarrito, un nemico da allontanare, un desiderio da ottenere.
Il taleb o il mago disegnava l’alfabeto cabalistico davanti al richiedente, pronunciando versetti coranici o formule rituali, così da coniugare parola, segno e intenzione in un unico atto performativo.
Nel linguaggio dell’occultismo arabo-giudaico, ogni grafema è concepito come un canale di intercessione: la linea curva e il punto terminale non sono meri ornamenti calligrafici, ma elementi energetici, destinati a bloccare, trattenere o dirigere la forza evocata.
Alcuni studiosi moderni (Lecouteux, Les grimoires, 1997; Amadou, Introduction à la magie, 1954) hanno riconosciuto in questo alfabeto una forma arcaica di sigillografia magica, affine per struttura ai sigilli angelici dell’Europa rinascimentale.
L’alfabeto illustrato nella tavola comprende ventidue segni principali, ciascuno corrispondente a un suono o a una coppia di suoni arabo-berberi (ab, b, sc, d, g, ḥha, ha, ya, k, l, m, n, oua, p, rr, t, tafort, ssa, z, ch).
La sua cifra stilistica risiede nell’uso sistematico del punto terminale e dell’ansa curva, veri e propri “nodi magici” che funzionano come sigilli o legature. In questa prospettiva, scrivere equivale a legare: l’atto grafico è anche un atto magico di vincolo e di controllo.
Nei manoscritti esoterici del Maghreb questo sistema è noto come ḥurūf al-asrār (“le lettere dei segreti”) e riflette una concezione performativa della scrittura: tracciare un segno significa liberare o imprigionare energie.
In alcune amulette marocchine, le lettere venivano tracciate con inchiostro di zafferano o di sangue animale, poi disciolte in acqua che il malato doveva bere. Il rito — detto ḥijāb šarābī — fondeva così tre piani magici: la parola (formula recitata), la forma (segno scritto) e l’ingestione (atto fisico di incorporazione).
Nel quadro più ampio della stregoneria marocchina, queste lettere costituiscono la base di una vera e propria magia del segno, parallela e in parte derivata dalla tradizione cabalistica ebraica e dai sigilli angelici della mistica islamica (ʿilm al-ḥurūf). In esse si riflette una concezione unitaria della parola, del segno e del gesto: la scrittura non è rappresentazione, ma azione; non descrive, ma produce.




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