di Andrea Romanazzi

Il nostro viaggio tra le regioni stregate d’Italia ci porta in Toscana, area poco nota dal punto di vista della cultura pagana ma certamente non meno interessante se un importante storico come  Franco Cardini ha curato il saggio Gostanza la strega di San Miniato. Il fatto che qui, più che in altre aree, la stregoneria sia stata spesso sottaciuta o nascosta è legata al fatto che l’area che ci apprestiamo a indagare è stata fortemente influenzata dallo stato pontificio che, attraverso le prediche di san Bernardino da Siena, contribuì a elaborare lo stereotipo tristemente noto della strega cinquecentesca e secentesca.

Questo però non significa che la regione fosse esente dalla tradizione magica come testimoniano le numerose relazioni curiali come quelle del cardinale Federico Borromeo o del vescovo imolese Rodolfo Paleotti. In queste si legge come la magia popolare fosse diffusissima nelle campagne toscane: “… fanno il sortilegio della caraffa per mezzo di putto o di zitella vergine, o di donna gravida, facendole dire “per la divinità che ho nel ventre” alludendo alla creatura, e molte volte queste donne dicono di veder comparire nella caraffa una figura o altri varij aspetti, questi poi interrogano o per trovare cose rubbate, o tesori nascosti, o per sapere le cose future…”.

A Osimo, il sinodo diocesiano del 1593 aveva condannato “talune pratiche comuni, come quelle dei presagi ricavati dal traguardare fiammelle di candele accese attraverso ampolle d’acqua, dall’ispezione di specchi, di unghie e di pieghe palmari”, mentre il vescovo di Imola scriveva  “...Sogliono anco ungere con certa mistura d’olio o di caliggine la palma della mano a dette zitelle o donne gravide, nelle orecchie delle quali prima sussurrano alcune parole incognite e poi le fanno mirare nella mano unta e dire che venga il Re e molte volte dicono di vederlo venire e con cenni rispondere a quello che da esse li vien dimandato…”.

Il 21 marzo del 1626,  Con riferimento alla città di Firenze ed in particolare alla presunta negligenza delle autorità dell’area al controllo della questione stregonesca, il cardinale Giovanni Garcia Millini scriveva “…Sarà di molto tempo pervenuta all’orecchie di V. S. la voce comune che in codesta città et contado sia un numero grande di streghe che ogni giorno guastino molti fanciulli; et insieme l’opinione che il P. Inquisitore, quale in materia molto fallace camma con la maturità che conviene, non applichi l’animo a provedere et castigate con rigore un delitto tanto fre­quente et odioso. Di qui è nato il ricorso riavuto da molti al Tribunale degli Otto, dove il Cospi, giudice incompetente, s’intende che habbi fatto di molte cause contra pretese streghe, riconosciute dopo da lui medesimo innocenti…”. Non meno numerose sono le novelle e i racconti popolari che parlano di streghe e magia.  E’ Poliziano a scrivere “… A me da piccino dicea la nonna di certe streghe che stanno ne boschi a mangiare i bambini che piangono….ancora oggi a Fonte Lucente, come si chiamava vicino la mia villetta di Fiesole un ruscello che in quelle segrete ombre si nasconde, le donnicciuole che vengono per l’acqua dicono esserci un ritrovo di streghe…”. Nel suo Piacevoli notti, Giovan Francesco Straparola da Caravaggio narra di una certa Gabrina Furetta di Firenze, “nell’arte maga più che ogni altra isperimentata, abilissima nel far a cose fuor d’ogni naturai costume”, che attraverso l’uso della magia e di “un suo libretto” evocava i demoni per ottenere da loro favori d’amore. La bella Isabella, innamorata del giovane Ortodosio, entrava nuda in un cerchio magico disegnato dalla maga e “intorniato di certi caratteri e segni” evocava “Astaroth, Farfarello e gli altri princìpi de’ demòni con grandissime strida”. Spesso i rituali magici erano strettamente connessi al mondo pagano. Ad Agazzi, ad esempio, ancora oggi, nel pozzo della chiesa delle Lampade, si recano le donne per ottenere la guarigione o la fertilità del grembo con riti che affondano le loro radici nei culti della Grande Madre. Moltissime sono poi le credenze e tradizioni popolari che parlano di animali e donne che, abbeverandosi o bagnandosi nel vicino torrente Cerfone, ottenessero abbondante latte per la loro prole e felici parti. Anche il nome del torrente rievocherebbe questi antichi dèi. Così Cerfone sembra derivare dall’enigmatica Grande Madre toscana Cernia, preposta alla fertilità degli umani e dei campi. Sul territorio sono così diffuse credenze popolari, rituali magici, scongiuri e segnature. Ne fa un elenco un anonimo poeta toscano del 1400 che, in un suo scritto, elenca una serie di incantesimi che usavano fare le streghe della regione: “ E s’egli stesse pur duro con la mente, malìe, , indovinamenti, arti magiche sa fare, e dan buone paghe onde molte erbe si colgon di notte al lume della luna con man rotte e dicendovi su certe parole. Acqua si colgon anzi levar del sole, e certe gomeraie cavan de’ sepolcri e certi versi cantan non pulcri, e dalla fronte levano a’ puledri quando nascono, uno spoglio e dicon metri che da l’Inferno fanno venir spiriti. E delle loro caratte più non dire, accia filata di man virginile, carta non nata e seta ben sottile, incenso, mirra, cera nuova a spaccio e le penne d’uccelli presi al laccio. De l’uom tolgon ancora camicia e braga e un torsel ne fan con berba traca. Ma quel che soprattutto dispiace, è che Dio a lor frasche soggiace, in ciòusando le sue cose sacre. E nella mente han scienze tante che ànno trovata un’altra teologia E dicon che per fare ogni malìa e ogni altro peccatohanno per certo che in cielos’acquista un glorioso merto per metter messer Maza in Monte Nero. E perchè il lor parlare si creda davvero, dicon che l’ànno da’ loro confessori e fanno cose che non le faria i Mori: qual ne fan morire, quale impazzire.” In questo breve testo si fanno moltissimi riferimenti magici Come ad esempio alla tradizione dell’ippomane che cresceva sulla fronte dei puledri, o alla carta non nata, cioè alle pelli di agnelli uccisi appena dopo la nascita, ingredienti quali così misteriosi e complessi da caratterizzare un’estrema segretezza sulla  ritualistica, come quella che si riscontra nell’area della Garfagnana nota come il rituale della “mano talpata“. Di questa tradizione se ne sa davvero pochissimo tramandata in leggende popolari raccontate anche con un certo terrore. Si tratterebbe di persone che riescono a guarire attraverso il sangue di una talpa uccisa stringendola pian piano con una mano. Il sangue deve essere messo poi in un panno e avvolto intorno alla mano destra per una settimana. Il potere di questi guaritori è molto forte e le persone ricorrono a loro solamente in caso di fallimento degli altri segnatori. A voi eventuali approfondimenti, anche perché anche noi vogliamo mantenere una certa aura di riserbo.

 

Dai Luoghi…

Per quanto riguarda più strettamente le streghe e i luoghi da loro frequentati, la regione Toscana pullula di sinistri conciliaboli. Uno è il sepolcro romano abbandonato sul macabro Colle di Castiglione, sede dei mistici raduni. In provincia di Lucca troviamo il Prato Fiorito sopra Bagni di Lucca e il  “Monte delle streghe”. C’era poi il famoso quercione di san Martino, detto “delle streghe”, e i boschi dei monti Pisani, sulle alture della frazione di Coselli. Sempre in provincia di Lucca, nei pressi di quella che era la Fonte di Masceta, si sarebbero  svolte le vicende della storia popolare nota come “Il coltello del noce”. Tra i secolari alberi di castagno della zona, un uomo del borgo noto come Paolino, che era solito fermarsi a dissetarsi presso la fonte mentre tornava dal suo lavoro, un giorno si sarebbe imbattuto in un falò attorno al quale alcune donne nude danzavano. Avendolo visto iniziarono a gridare “Oh Paolino, ora che ci sei non puoi più andare via!”. Il contadino, terrorizzato, avrebbe così preso il suo coltello a serramanico per conficcarlo in un noce senza sapere che con quel gesto  avrebbe bloccato a quel luogo le stesse streghe. Imprigionate, le streghe lo avrebbero supplicato “Paolino, per carità, lasciaci andare, non ti faremo nulla, lasciaci andare…”. Questa narrazione mostra come anche in Toscana era diffusa la tradizione del “coltello della strega”, messo a difesa delle case che rischiavano di cadere vittime di malefici. Credenze popolare voleva che esso venisse infisso sulla porta dell’abitazione da proteggere in modo che la strega che avesse tentato di entrare sarebbe rimasta infilzata dalla terribile lama. Più in generale,  il racconto testimonia la magia delle punte presente in tutta la pratica stregonica legata ad oggetti di uso comune. Noi stessi abbiamo raccolto interviste dove veniva narrato che ancora oggi per la difesa contro le streghe sono usate forcine, forbici, chiodi, spine, aghi, corni, rami spinosi, spesso posti dai contadini nelle fessure delle porte. Torniamo ai nostri luoghi del sabba e da Lucca ci spostiamo ad Arezzo. Qui moltissimi sarebbero le aree di raduno come le sponde del torrente Vessa, affluente dell’Arno, nella zona del “bosco di Sant’Antonio”. Su queste sponde le tradizioni popolari volevano abitasse un demone-maiale, da cui il riferimento al santo, animale totemico di divinità autoctone dimenticate, a cui si sovrappose il culto del santo che nell’iconografia è guarda caso accompagnato da un maialino. Altre misteriose apparizioni di animali-demoni le troviamo a Falciano di Subbiano o nei pressi del ponte sul fiume Archiano, tra Bibbiena e Sori. Sarebbe qui che, a Piano del Ponte, nei pressi dello stabilimento FIAT, ogni martedì e venerdì si riunirebbero le amanti di Satana per i loro convegni.

…ai Processi

Non potevano mancare i processi, ancora una volta espressione di una misoginia culturale purtroppo molto diffusa. Nel 1250, a Pistoia veniva condannata una certa Melina, rea di aver affatturato il suo padrone, messer Lapo, con la complicità della moglie. In quegli anni, però, la stregoneria era considerata mera superstizione e così la donna fu semplicemente condannata al pagamento di 200 fiorini, pena poi tramutata in esilio dalla città poiché la megera era nullatenente. Nove anni dopo, sempre a Pistoia, tre donne furono condotte davanti all’Inquisizione con l’accusa di stregoneria. Si trattava, in realtà, di tre meretrici accusate da una certa Menichina, anche lei prostituta. Non ci è dato sapere come si concluse il processo ma, come sappiamo, non era difficile confondere le arti magiche con il “lascivo mestiere” di queste donne. Negli stessi anni, a Fiesole, veniva condannata una certa Fresca,  rea di aver ammaliato una tal Margherita, in seguito fuggita dalla casa del marito. Le accuse furono mosse dal padre della ragazza, Betto di Rustico, che considerava il comportamento della giovane conseguenza di un sortilegio. Ancora una volta la ricerca di un capro espiatorio portò alla condanna di una donna inerme, anziana e vedova, e dunque facile bersaglio della comunità. Da Pistoia a Lucca, nel 1346, troviamo inquisita Franceschina di Lippo, colpevole di possedere libri magici con i quali guariva le persone, mentre nel 1370 toccava a Benvenuta Benincasa, anch’ella maliarda, accusata di fatture e legamenti d’amore. Secondo le deposizioni, la donna era guidata dagli angeli inviati da san Geminiano, a cui si rivolgevano le sue orazioni e i suoi incanti. Purtroppo l’inquisitore Tommaso da Camerino trasformò questi “inviati dal Signore” in demoni, e la donna fu condannata ad abiurare il diavolo e a indossare sulle vesti croci gialle, simbolo degli eretici. Continuando a scavare tra i ricordi lucchesi, troviamo Crezia di Agostino Mariani della Pieve di San Paolo, giustiziata nel 1589. Accusata di stregoneria e di accoppiarsi con due succubi sotto sembianze semi-animalesche, la donna fu accusata dalla sua stessa figlia. Sottoposta a tremende torture e rea confessa, morì in carcere ma, l’insano desiderio ginecofobico dell’inquisitore volle che la sentenza di morte fosse comunque eseguita sul suo cadavere. Erano gli anni in cui la pietà non era un valore condiviso. Il processo più famoso del lucchese è però quello contro Polissena da S. Macario. La presunta strega era in realtà una donna che soffriva di epilessia, e fu proprio a causa di questa malattia che fu condannata. Circolava la voce che non volesse essere toccata o destata dal sonno, in particolare durante le sue crisi. Da qui il sospetto: la donna, lasciando il corpo in casa, si recava al Sabba. Del resto, i movimenti contorti e gli scatti improvvisi facevano davvero pensare che la sua anima stesse partecipando a qualche riunione stregonesca. “… essendo appresso a un letto, si lasso’ andare indietro et rimase stesa et agghiacciata sul letto che  ivi era, di modo che pareva morta; et esse donne pensando che li fosse venuto qualche accidente, si li   missero appresso con aceto… et detta Polissena ciò fatto aperse gli ochi et comincò’ a fare un verso,  in modo di mughiare, tanto forte et con stravolgere gl’ occhi, che tutti si misseno a fuggire per paura, lassandola sola, perche’ si haveva sospitione che fosse strega… mia madre mi disse che la detta  Polissena la mattina sequente li disse: quando io sto in quella forma che stavo ier sera, non mi date noia, percè’ mi fate più male che bene…”. La tortura e quindi la confessione: “… venendo io chiamata, et mi dicea: ‘Andiamo’, la qual voce non potea esser intesa se non da me, et così io con l’unguento che era portato mi ungevo … et trasformata in gatta, lassando il corpo a casa me ne scendeva la scala et andavo fuori dell’uscio…”. La triste conclusione: Polissena fu arsa viva sul rogo. Nel ‘600 davanti alla congregazione del S. Uffizio fu trascinata invece una certa Maddalena Serchia di Certaldo, vecchia mendicante di 65 anni sospettata di aver dato la malia ad un bambino. Sotto tortura confessava la “colpa”. Stranamente i giudici la liberarono giudicando “non esservi fondamento alcuno di tal delitto” e addirittura lamentarono come spesso si riducesse troppo facilmente “a maleficio ogni malattia della quale non sia conosciuta subito la causa o trovato efficace il rimedio”. Per fortuna si avvicinava l’epoca dei Lumi.

Le streghe di San Miniato

Come detto in precedenza la stregoneria Toscana  ha il suo massimo palcoscenico in un processo tardo cinquecentesco svoltosi tra Pisa, Firenze e Lucca ed analizzato da Franco Cardini. L’area era da sempre interessata  da narrazioni popolari e leggende. Già nel 1300 alcune streghe furono bruciate con l’accusa di infanticidio. “… dicono che si ungono (le streghe) con grasso umano mescolatevi pela­mi di più sorte, e unte sono  va lo spirito loro trasformato in gatte o altri animali come par a loro, e detto loro spirito va invisibile e va a letto dove sono putti piccini e li soffia in bocca e baciali le poppe e ‘1 bellico dicen­do: “El diavolo mi reca, el dia\ ol mi porta, e tu !e pene ne porta”. E trovasi queste streghe avere guasto in la iurisdizione di San Miniato più che 150 putti…”. Sempre in questa zona si tenne un altro famoso processo, denominato “La rovina delle streghe et maliarde”, “… olim filiam Mei Lussi de Carmignana, habitatem in Villa Santi Laurentii Posterie Sancti Miniatis, strigam, maleficam et puerorum homicidam male conditionis morum et vite et fame”, Dominam Nannam: “… viduam et exorem olim Nencioni mulierem strigam, maleficam et puerorum homicidam male conditionis morum et vite et fame”, Dominam Cecham: “… olim Polloni Merlini de Ponte a Elsaad presene habitatorem eredum ser Alexandri Borromei in villa Ensi maleficam et puerorum homicidam male conditionis morum et vite et fame”, e infine Dominam Diamantem: “Monna Nanna, strega et maliarda et insaziabile di putti … Monna Olivetta, strega et maliarda … Monna Cecha strega et maliarda … Monna Diamante, strega et maliarda … impiccate et abruciata”. E’ questo il seme da cui nascerà la vicenda di Gostanza di Libbiano, sulla cui figura Paolo Benvenuti ha prodotto un film. La strega era in realtà una vedova che viveva facendo la filatrice e la nutrice, nota con il nome legato al toponimo “Libbiano”, dove aveva iniziato la sua attività di guaritrice dopo aver vissuto a Caldera di Piccioli, nella frazione di Guizzano. Era dunque una figura ai margini della società, che viveva in casa con altre donne, sue figlie e nipoti, in una situazione che doveva ben apparire strana in quell’epoca. Domina herbarum di fama, a lei si rivolgevano persone che provenivano anche da terre lontane. Fu proprio questa sua dedizione a far del bene, che le fece guadagnare la condanna da parte di clienti insoddisfatti.  Il primo a incriminare la donna fu Benedetto Lolli, noto come “mastro Pasquino”, che l’accusò di aver provocato infanticidi attraverso strane e inusuali cure. Il 3 novembre del 1594 Gostanza venne così arrestata a Cascina Terme. Durante i primi interrogatori non confessò alcuna magia, era certamente una guaritrice e conosceva il potere delle erbe ma questa per lei non era stregoneria. Fu il tratto di corda che però parlò per lei: legata con le mani dietro la schiena e tirata sul soffitto per poi penzolare scompostamente al crepitio delle ossa, la fattucchiera ammise numerosi malefici e voli notturni al Sabba seguiti da unioni carnali con il demonio. Raccontò di essere stata iniziata alla fattucchieria a soli sette anni da due donne di Pillo di Castelfiorentino, monna Smeralda e monna Giovanna, che le avevano presentato un demone di nome “Polletto”, in groppa al quale ella si sarebbe recata per la prima volta al raduno stregonico. La prima particolarità del racconto risiede proprio nel nome del demonio, che nulla ha a che vedere con quelli descritti dai dotti inquisitori nei loro trattati, ma apre la porta al mondo naturale assimilandolo più a un comune animaletto di campagna che a una creatura orripilante. Tra le numerose confessioni della donna, spiccarono quelle degli accoppiamenti con Satana che, secondo le disquisizioni teologiche, non erano possibili a causa della incorporeità dell’entità maligna. Ed è proprio su questo punto che insistettero i prelati del processo. Gostanza però confermò la sua testimonianza, aggiungendo qualcosa di diverso; lo sperma del demonio non era caldo e vivo come quello del marito, ma una cosa “diaccia e che scivola via senza fecondare”… io ero giovane et mi pareva d’havere l’istesso piacere con il demonio che con mio marito et         perché il demonio mi faceva più carezze che di mio marito et perciò mi pareva d’havere più presto maggiore piacere ad usare con il demonio che con mio marito perché mi faceva più carezze et più forche et baie intorno…et mi maneggiava in tutti i modi, mi saltellava intorno, mi toccava il petto, et insomma mi toccava per tutta la vita et mi pareva d’havere tanto spasso e sollazzo che mi pareva d’essere ad una gran festa…e io vi dico che nell’usare con il diavolo a me mi pareva d’usare veramente con esso lui, se non che mi pareva che quella cosa diaccia, cioè che escie dal membro, et    non si fermava punto nella natura et usciva come acqua semplice fora…”. Nelle descrizioni delle sue partecipazioni al Sabba, non fece mai i nomi degli altri maghi e stregoni con cui era solita incontrarsi, ma si limitò a nominare persone già decedute narrando che che i Sabba si tenevano al pianoro tra Pillo e Castelfiorentino, dove si trovava un noce che ricorda quello beneventano: “… eravamo lagiù in un piano che vi era un noce fra Castelfiorentino e Pillo, et sotto questo noce vi era un’asina che aveva il pelo che mi pareva di lupi…”. La donna descrisse una fantomatica “città del diavolo”, non un antro o un pianoro, ma una vera e propria città dotata di enormi palazzi e illuminazioni, dove le streghe si riunivano per le loro celebrazioni malefiche. Il processo continuò, ma verso fine novembre arrivava la svolta. Gostanza iniziò a dare segni di squilibrio mentale, affermando di essere nata da una famiglia nobile fiorentina di tale Lotto Piccolini, dal quale era stata poi rapita per essere data in sposa al marito Francesco. Era il delirio di una povera torturata o una nuova strategia per coinvolgere nel processo famiglie altolocate e cercare una via di salvezza? I racconti iniziarono infatti a dare i loro frutti, e l’inquisitore Mario Porcacchi ricevette una lettera dall’inquisitore generale che lo invitava a concludere presto il processo; gli venne inoltre chiesto di assolvere subito la malia Gostanza, che fu così riconosciuta insana di mente. La sua unica punizione fu l’estradizione da Bagno e il trasferimento a Rivalto.

Toscana magica dei “nostri giorni”

Quanto narrato finora dimostra quando la regione Toscana sia stata interessata dalla magia e dalla stregoneria Popolare. In realtà tali credenze non sono mai scomparse, dalle pagine di questa stessa rivista riprendiamo un articolo tratto da l’unità del 23 dicembre del 1978, a  firma di Paolo de Simoni Dove si narrano testimonianze magiche tutt’ora attive nella valle del Mugello a nord di Firenze. il giornalista descrive una inchiesta condotta da studenti del liceo di Borgo S. Lorenzo che  attestava ancora l’abitudine nelle campagne di lanciare fatture realizzando feticci delle persone da colpire attraverso la “somiglianza simpatica”. Alcune tradizioni vogliono che tanto più l’oggetto sia somigliante alla persona da affatturare, tanto più grande sarà il suo potere. In alcuni casi, per renderlo quanto più possibile connesso al malcapitato, venivano utilizzati ingredienti provenienti dal suo stesso corpo come, unghie, sangue e capelli, elementi che racchiudono la forza vitale del proprietario, ma anche avanzi di un pasto, capi di abbigliamento o la moderna fotografia. Il testimone veniva così martoriato con chiodi, aghi e spilli fino al raggiungimento dello scopo. Lo spillo, il chiodo, e in generale l’oggetto appuntito, venivano a loro volta investiti di un potere malefico adoperato proprio a tale scopo. Erano utilizzati anche ossa di animali. Un’antica ricetta, per esempio, indicava di uccidere e seccare un topo e, una volta ottenuto il macabro feticcio, usare un suo ossicino come pungolo. Sono attestate anche fatture amorose  che in Toscana prendevano forma attraverso l’utilizzo dei “cornetti di Belzebù”, chiodi provenienti da una bara che, in una notte di luna tra il venerdì e il sabato, rigorosamente a mezzanotte, venivano piantati nel cuore di un piccione ucciso, ripetendo lo scongiuro: “Sette spille siete, sette diavoli diventate, nel cuore di… Andrete, e di me lo innamorate, né pace gli darete, fin che vicino a me non lo portate”.

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