di Andrea Romanazzi
Nel cuore pulsante del Messico, dove il vento porta ancora le voci degli antenati e la giungla custodisce misteri millenari, si snoda un viaggio che è al tempo stesso esplorazione geografica e immersione interiore. Dalle alture del Chiapas alle pianure dello Yucatán, il cammino incontra curanderos, temazcal, visioni sacre e riti ancestrali: frammenti vivi di uno sciamanesimo sincretico che fonde cosmologie indigene e influenze cristiane, nella continua danza tra mondo visibile e invisibile.
In questo reportage, seguiremo le tracce lasciate dai sacerdoti del maïs, dalle sacerdotesse del jaguar e dai popoli che ancora oggi mantengono vivo il calendario sacro, le cerimonie della Terra, il contatto diretto con il “nahual” – l’animale guida. Ma sarà soprattutto un incontro con una visione del mondo in cui la natura è anima, la malattia è disarmonia e la guarigione passa per il sogno, il canto e il fuoco. Un viaggio per chi ha il coraggio di farsi attraversare.
Il multiverso Maya e l’albero cosmico
La religiosità mesoamericana si sviluppa come un arcipelago di credenze interconnesse, che affondano le proprie radici in tempi remoti, ben oltre la nascita delle civiltà classiche. Le sue prime forme si fanno risalire all’arrivo delle popolazioni paleoindiane — migranti dell’Asia nord-orientale — che tra i 50.000 e i 15.000 anni fa attraversarono lo stretto di Bering, portando con sé un bagaglio di simboli e pratiche sciamaniche: il culto degli antenati, la centralità degli spiriti guida e la visione cosmologica di un universo stratificato.
Questo reportage, frutto di due mesi di ricerca etnografica sul campo tra Messico meridionale, Chiapas e Yucatán, si propone di esplorare le profonde radici religiose e simboliche della visione maya del mondo, mettendo in dialogo fonti archeologiche, testimonianze locali, riti ancora vivi e pratiche sciamaniche ancestrali.
Al centro di questa cosmologia si erge un simbolo potente e universale: l’albero sacro, la Ceiba, che rappresenta l’asse del mondo, l’axis mundi, lungo cui scorrono energie e spiriti tra i tre piani della realtà. Come un organismo vivente, l’universo maya si suddivide in radici (il Mondo Inferiore), tronco (il Mondo Mediano, abitato dagli uomini), e rami (il Mondo Superiore, dimora degli dèi e degli spiriti celesti). Tuttavia, ogni piano è anch’esso articolato in più livelli: il Xibalbá, l’inframondo, consta di nove strati, mentre l’Empireo ne conta tredici. I defunti, secondo la tradizione, dovevano attraversare questi passaggi per compiere il loro cammino spirituale post mortem, un viaggio iniziatico nel cuore stesso del cosmo.
Tra le rappresentazioni più emblematiche di questa visione cosmica, vi è la celebre lastra tombale del re Pakal, custodita nel Tempio delle Iscrizioni a Palenque, sito archeologico maya nel cuore del Chiapas. Il pannello, spesso travisato dalla cultura pop come la raffigurazione di un “astronauta antico”, mostra in realtà una figura umana – probabilmente uno sciamano o lo stesso sovrano divinizzato – nell’atto di ascendere (o discendere) lungo l’albero cosmico. La sua base è costituita dalle fauci di un essere infernale, il serpente d’osso, simbolo delle forze ctonie, mentre alla sommità si staglia Itzam-Yeh, l’uccello celeste, portatore di magia e incarnazione delle potenze sovrannaturali.
Questa rappresentazione non è solo artistica, ma rituale: l’albero cosmico è un ponte tra i mondi, uno strumento di connessione tra umano e divino. Le “camere delle visioni” all’interno delle piramidi – come quella di Palenque – erano vere e proprie soglie liminali dove, in stati alterati di coscienza indotti da privazioni, piante sacre o digiuni, i re-sciamani entravano in contatto con i loro nahual, spiriti-guida totemici capaci di assumere forma animale e trasmettere conoscenza.
Nel sincretismo tra simbolismo cosmico e ritualità corporale si inserisce anche il celebre rituale dei voladores dei Totonachi. Cinque uomini, vestiti in abiti tradizionali, salgono su un altissimo palo sacro. Uno resta in cima a suonare tamburo e flauto – richiamando le forze divine – mentre gli altri quattro si gettano nel vuoto legati con corde, girando simbolicamente verso i quattro punti cardinali. Questo volo rituale può essere letto come una rievocazione degli dèi che scendono dal cielo, ma anche come metafora della discesa dell’energia vitale verso la Terra per fecondarla.
L’associazione tra verticalità e fertilità, tra ascesa e rinascita, è evidente anche nei culti agricoli. A Uxmal, per esempio, si trova un elemento fallico infisso nel suolo, testimone di antichi riti propiziatori. A Chichén Itzá, invece, il pozzo sacro (cenote) dedicato al dio della pioggia Chac, accoglieva sacrifici votivi – anche umani – per favorire la fertilità della terra. La figura del serpente piumato, Quetzalcóatl/Kukulkán, che scende lungo i gradoni del tempio durante gli equinozi, testimonia questa unione tra cosmologia, astronomia e sacro.
Le pratiche di autosacrificio, come il salasso fallico, avevano anch’esse una funzione sacrale profonda: il sangue era concepito come veicolo dell’energia vitale (itz), capace di nutrire gli dèi e assicurare il ciclo della vita. In questa chiave si spiegano anche le iconografie di decapitazioni rituali, in cui dal corpo dei sacrificati emergono creature divine o vegetali: il dio-mais, ad esempio, muore e rinasce ciclicamente, in un parallelismo tra raccolto e rigenerazione spirituale.
Il simbolismo fallico, il sangue, il serpente che muta pelle, l’albero che collega i mondi, non sono elementi sparsi, ma parti di un’unica grande visione del mondo in cui vita, morte e rinascita si intrecciano in un ciclo eterno. Una cosmologia dove lo sciamano è colui che attraversa i mondi per restaurare l’equilibrio, dialogando con spiriti e potenze per il bene della comunità.
Ancora oggi, nelle pieghe del folklore rurale messicano, questa visione del mondo non è scomparsa. Sopravvive nei riti, nelle danze, nei racconti orali e nei sogni di chi, salendo sull’albero o gettandosi nel vuoto, cerca un contatto con l’invisibile.
più noto per l’ipotesi extraterrestre, ovvero come la raffigurazione di un astronauta alla guida di un razzo ante litteram con tanto di respiratori e comandi manuali. In realtà tale disegno raffigura un uomo, o molto più probabilmente uno sciamano, intento a scalare l’albero universale, che si estende dalle profondità dell’Oltremondo, raffigurato dalle fauci aperte di un mostro infernale, il serpente di osso, per giungere sino ai mondi ultrafanici raffigurati dal magico uccello piumato, Itzam-Yeh, ovvero “l’apportatore di magia” che raffigura le imponenti forze naturali nonché l’unione estatica degli sciamani con il divino.
Sarà questo albero universale a trasformarsi, successivamente, nella più nota “croce maya”, espressione, per i missionari cristiani che approdavano nel Nuovo Mondo, della rivelazione del Cristo anche tra gli “infedeli” .
Il ricordo del sacro culto dell’albero da cui discendono gli Dei sulla terra e su cui si sviluppa l’Universo è presente ancora oggi nel folklore locale come nel rituale “dei volatori” Totonachi. Durante questa cerimonia, cinque uomini, vestiti con gli abiti tradizionali si arrampicano su di un palo altissimo. Raggiunta la cima quattro di questi sistemano delle corse attorno al corpo preparandosi ad una sorta di bungeejumping mentre il quinto suona i sacri strumenti. Terminata la musica i “volatori” si gettano giù dall’albero verso i quattro angoli del globo. Per alcuni si tratterebbe di un rituale di fertilità, per altri potrebbe essere la simulazione degli dei che ridiscendono sulla Terra. Effettivamente rituali di fertilità erano svolti presso i Maya. AUxmal è presente un elemento betilico fallico infisso nella terra e strettamente connesso ai culti di procreazione. Culti di fertilità sono poi presenti a Chichèn Itza, letteralmente “bocca del pozzo dei maghi”, ove si venerava il sacro crotalo che, mutando pelle, diviene simbolo della vita oltre la morte e della rinascita e rigenerazione universale. Ecco così che il serpente nell’atto di cibarsi dell’umano che gli spunta dalla testa, altro non è invece che il simbolo di una eiaculazione dell’uomo che fuoriesce dal corpo del rettile a novella vita.
Anche il “salasso fallico” e la decapitazione rituale che venivano praticate dai Maya riportano direttamente al culto fallico e dell’estasi orgasmica del Dio. Troncare il capo di un uomo garantiva l’apertura di un passaggio per il Signore del “Mondo di Sotto” che, attraverso tale foro, poteva ritornare sulla Terra con la propria energia divina o itz. Questa la motivazione dei bassorilievi raffiguranti mostruose creature che fuoriescono dal corpo decollato del sacrificato, mentre gli schizzi di sangue diventavano eiaculazioni energetiche in grado di ridare fertilità alla terra. Espressione di un credo di fertilità vegetazionale, il rituale era sicuramente mutuato dalle credenze sacro-vegetazionali ove il dio del granturco era “sacrificato”, con il taglio della mietitura, per poter assicurare novella vita. Egli rinasce dalle proprie ceneri e inonda di fertilità il suolo con il suo “sangue”.
Lo sciamanesimo messicano e l’uso rituale delle sostanze psicotrope: porte per il contatto col divino
Nell’universo religioso mesoamericano, come in molte culture indigene del continente americano, il rapporto con il sacro non è fine a sé stesso, ma risponde a esigenze pratiche e comunitarie: il divino si manifesta come forza attiva, utile a garantire equilibrio, guarigione, fertilità e orientamento spirituale. Gli dèi non sono entità astratte o metafisiche nel senso occidentale, ma energie vitali, agenti del mondo naturale, che prendono forma in animali, elementi atmosferici, fenomeni geologici. Montagne, fiumi, foreste, il fulmine e la pioggia: tutto è espressione del ch’ulel, la forza vitale o energia sacra che permea l’universo.
Questo principio, centrale nelle cosmovisioni dei Maya e di altri popoli mesoamericani, trova manifestazione in divinità antropo-zoomorfe come Kauil (o Cauac), dio del fulmine e della trasformazione, o Quetzalcóatl, il “serpente piumato”, figura ambivalente legata alla rigenerazione, alla morte iniziatica e alla rinascita. Tali divinità, oggi apparentemente scomparse, vivono ancora sotto spoglie nuove: sincretizzate nei santi del cristianesimo popolare portato dai missionari tra XVI e XVII secolo, esse sopravvivono in una forma “ibrida” che mescola riti antichi e simboli cattolici.
Nonostante la diffusione ufficiale della religione cattolica (oltre il 90% della popolazione dell’area si dichiara cristiana), è lo sciamano – e non il sacerdote – il vero intermediario tra il mondo umano e quello invisibile. Lo curandero è figura liminale: guaritore, mistico, psicopompo. Egli è chiamato a ripristinare l’armonia laddove questa sia stata infranta, riportando l’individuo e la comunità al giusto equilibrio energetico con l’universo. In questa ottica, la malattia non è mai solo fisica, ma spirituale, generata da uno squilibrio o da un’intrusione soprannaturale.
L’accesso al divino e le sostanze enteogene
Una delle caratteristiche distintive dello sciamanesimo mesoamericano – e in particolare messicano – è l’uso rituale delle piante e sostanze psicotrope, chiamate oggi enteogeni (“che generano il dio dentro”). Questi elementi non vengono consumati a fini ludici o ricreativi, ma come strumenti sacri, porte verso stati alterati di coscienza nei quali lo sciamano può viaggiare tra i mondi, entrare in contatto con entità spirituali, ricevere visioni, diagnosi e prescrizioni terapeutiche.
Tra le sostanze più diffuse:
- I funghi allucinogeni (Psilocybe spp., Panaeolus), conosciuti dagli Aztechi come teonanácatl (“carne degli dèi”) e venerati dai Mazatechi come entità viventi, dotate di volontà e coscienza. L’assunzione avveniva in notti rituali, con canti, fumo sacro e digiuno, e trasformava lo sciamano in un canale tra i mondi.
- La datura (Datura innoxia, Brugmansia), usata per le sue proprietà visionarie e narcotiche, in grado di provocare transiti onirici e stati di trance profonda. I suoi effetti sono più pericolosi e venivano impiegati con estrema cautela.
- Il Bufo alvarius, un rospo del deserto di Sonora, la cui secrezione cutanea contiene 5-MeO-DMT, una potente molecola psichedelica. L’inalazione del suo veleno produce una “esplosione” dell’identità, un annullamento del sé che può essere interpretato come morte simbolica e rinascita spirituale.
- Lo yagé o ayahuasca, diffuso soprattutto tra le popolazioni amazzoniche ma utilizzato anche in contesti messicani sincretici, è una decozione di Banisteriopsis caapi e Psychotria viridis, preparata in modo rituale per purificare il corpo e aprire il cuore agli spiriti. Prima della somministrazione, lo sciamano si assicura di “scacciare i demoni” dalla bevanda, rendendola adatta al consumo sacro.
- Il peyote (Lophophora williamsii), piccolo cactus psicoattivo venerato dai popoli Huichol e Tarahumara. La raccolta avviene ancora oggi attraverso pellegrinaggi rituali nel deserto di Wirikuta, considerato luogo di nascita del sole e sede del sacro. Qui il hikuri (peyote) diventa parte di una “trinità naturale” insieme al mais (cibo dell’anima) e al cervo (messaggero degli dèi). L’assunzione avviene in contesti ritualizzati, guidata dallo sciamano e accompagnata da canti, offerte e narrazioni mitiche.
Il sincretismo: santi cristiani, dèi ancestrali e spiriti defunti
In molti rituali odierni, le divinità indigene sono state sostituite formalmente da figure cristiane, ma la struttura simbolica rimane invariata. Così, ad esempio, il culto per la Vergine di Guadalupe assume tratti della dea Tonantzin, e il contatto con i morti durante la celebrazione del Día de los Muertos rispecchia pratiche ancestrali mesoamericane di comunicazione con gli spiriti degli antenati.
Nella trance indotta dagli enteogeni, lo sciamano si svuota del proprio ego per permettere l’accesso a spiriti-guida, santi, dèi sincretici o anime dei defunti, che possono offrire indicazioni di guarigione, risposte oracolari o messaggi per la comunità. È un’esperienza totalizzante, che ribalta la percezione ordinaria e apre alla consapevolezza del multiverso, ovvero di una realtà stratificata, vibrante, popolata da entità in continua interazione.
Il Wixarika e la Via del Peyote: lo Sciamanesimo Huichol tra estasi, pellegrinaggi e spiriti guida
Nel cuore della Sierra Madre Occidentale, tra gli altopiani aridi e le vallate mistiche del Messico centrale, sopravvive una delle più autentiche espressioni dello sciamanesimo mesoamericano: quello degli Huichol (o Wixárika), eredi diretti dei popoli Chichimechi. In questa cultura, fortemente legata al mito, alla natura e alla trasmissione orale, lo sciamano è figura centrale non solo sul piano rituale, ma anche cosmologico. Egli è detto Wixarika, termine che si traduce poeticamente come “colui che onora gli antenati” – un appellativo che definisce l’essenza stessa del suo ruolo: ponte vivente tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti.
La vocazione sciamanica, presso gli Huichol, non si sceglie: viene “chiamata”. Molto spesso essa si manifesta attraverso una lunga malattia – una crisi fisica e spirituale interpretata non come patologia, ma come segno dell’intervento divino. Questo periodo liminale rappresenta la morte simbolica dell’individuo profano e l’inizio del cammino di formazione. Segue un intenso apprendistato della durata di circa cinque anni, durante il quale il futuro sciamano impara a leggere i segni, a conoscere i rituali, le offerte, il linguaggio sacro degli dèi e a stabilire alleanze con gli anima, gli spiriti guida animali, spesso evocati mediante il sacrificio del sangue, simbolo di scambio e potenza.
Tra gli strumenti più sacri a disposizione dello Wixarika c’è il peyote (Lophophora williamsii), considerato non solo pianta sacra, ma vera e propria divinità vegetale. Attraverso il suo consumo controllato in cerimonie notturne, lo sciamano entra in uno stato di estasi visionaria che gli consente di dialogare con le potenze dell’universo, ottenere risposte divinatorie e indicazioni terapeutiche. La raccolta del peyote avviene in luoghi lontani e desertici, nel corso di pellegrinaggi rituali verso il Wirikuta, l’ancestrale Deserto Sacro, situato nel San Luis Potosí. Questo viaggio non è solo geografico, ma mitico: ripercorre la rotta originaria dei primi dèi, dalla costa del Pacifico alle cime luminose, dove il sole nacque per la prima volta.
Durante questi pellegrinaggi, il Wixarika raccoglie oggetti di potere, che diventeranno parte integrante dei suoi riti: bacchette piumate per fumigazioni, piante sacre, pietre-cariche (tekari), amuleti e talismani parlanti. Riti simili sono osservabili anche tra gli Owirùame, gli sciamani della cultura Tarahumara, altra popolazione autoctona della Sierra, che condivide con gli Huichol il culto della corsa, del sacrificio e dell’estasi come mezzi per raggiungere il soprannaturale.
Sciamani e sciamane: una sacra complementarità
La visione sciamanica mesoamericana è sorprendentemente inclusiva sul piano del genere: non esiste una rigida separazione tra uomo e donna nel ruolo dello sciamano. Entrambi i sessi possono essere chiamati dal divino e intraprendere il cammino spirituale. Le sciamane, in particolare, sono documentate in diverse tradizioni: tra i Maya, ad esempio, la potente figura di Yaxchilan, sacerdotessa e visionaria, dimostra la centralità femminile nella comunicazione col divino. Anche presso gli Olmechi e i Mazatechi si conservano testimonianze di donne sciamane dotate di poteri divinatori e terapeutici.
Se una differenza vi è, essa risiede nelle sfere di influenza: gli uomini sono spesso attivi nella ritualità pubblica e comunitaria, mentre le donne agiscono prevalentemente nello spazio domestico o familiare, con funzioni legate alla fertilità, alla nascita, alla cura e alla protezione spirituale dei bambini. In entrambi i casi, lo sciamano è responsabile delle diagnosi spirituali, delle pratiche oracolari e della guarigione tramite erbe, parole sacre, trance e manipolazioni energetiche.
Il Curanderismo: la medicina dell’anima tra erbe e santi
Accanto alla figura tradizionale dello sciamano si è sviluppata, nei secoli, una forma di guarigione sincretica nota come Curanderismo. Oggi questa pratica è diffusa in tutto il Messico e in buona parte dell’America Latina, e può essere definita una vera e propria disciplina olistica che combina medicina popolare, spiritualismo, erboristeria e devozione cristiana.
Il Curandero (o Curandera), a differenza dello sciamano, non sempre ha una vocazione mistica. Il suo sapere si trasmette per via esperienziale, attraverso un apprendistato presso un maestro esperto, e non necessariamente per “chiamata divina”. Non vi è un testo sacro, né una dottrina unificata: ogni curandero sviluppa un proprio stile, una metodologia personale che unisce pratiche di pulizia spirituale (limpias), uso delle erbe, preghiere, e riti appresi per imitazione.
Molti ricevono i pazienti a casa, in stanze predisposte chiamate templos, dove un piccolo altare mescola elementi cristiani – statue della Vergine, crocifissi, immagini dei santi – con oggetti preispanici: teschi, pietre, piume, candele votive, conchiglie. L’altare stesso è una rappresentazione del sincretismo religioso latinoamericano: un punto di convergenza tra il mondo degli spiriti indigeni e quello delle potenze cattoliche.
Nel curanderismo moderno si assiste a un interessante fenomeno di ritorno: in molti casi, le nuove generazioni stanno riscoprendo le pratiche ancestrali, riappropriandosi di un’identità spirituale frammentata ma ancora viva. Così, accanto al rosario e alla Bibbia, ricompaiono le preghiere in lingua nativa, le offerte alla terra, e le invocazioni agli antichi spiriti della montagna.
Il Curanderismo in Messico: tra medicina popolare, spiritualità ancestrale e rituali sincretici
Nel vasto mosaico della medicina tradizionale messicana, il curanderismo si presenta come una forma di guarigione integrata, in cui si intrecciano elementi erboristici, simbolismi cristiani, pratiche magico-rituali e residui di antiche cosmologie indigene. Sebbene esistano curanderi che, come gli sciamani, utilizzano sostanze psicotrope per entrare in contatto con forze invisibili capaci di svelare le cause profonde della malattia, questa pratica rimane marginale nel panorama più ampio del curanderismo, la cui funzione primaria è ben più pragmatica: quella di essere “i medici dei poveri”.
Il curandero è una figura eclettica e comunitaria, spesso dotata di specializzazioni che riflettono un sapere medico trasmesso oralmente e radicato in una lunga esperienza empatica con il corpo, la natura e lo spirito. Alcune figure ricorrenti all’interno di questo sistema includono:
- La partera, equivalente alla “mammana” italiana, è la levatrice tradizionale. Assiste le donne in gravidanza e durante il parto, svolgendo anche funzioni di protezione spirituale del neonato e della madre attraverso l’uso di amuleti e preghiere.
- Le hermanitas (“sorelline”) sono guaritrici-visionarie, spesso di età avanzata, dotate di una particolare sensibilità per diagnosticare malattie spirituali. Sono esperte nelle cerimonie di purificazione dette limpias, in cui erbe (come il pirul o il laurel), talvolta ardenti, vengono strofinate sul corpo del paziente mentre si recitano orazioni e scongiuri. Talvolta, durante il rito, viene spruzzato alcol dalla bocca sulle zone dolenti per “scacciare” le entità negative.
- I vendedores de hierbas (venditori di erbe), che oltre a commerciare in piante officinali, spesso operano anche come guaritori popolari, esperti in tisane, cataplasmi e preparati digestivi o purificatori.
- Lo huesero, figura tradizionale preposta alla cura delle fratture, dislocazioni e dolori ossei o articolari. A volte utilizza il temazcal, la capanna sudatoria mesoamericana, per rilassare i muscoli, disintossicare il corpo e liberare blocchi energetici. Il vapore e le erbe aromatiche accompagnano canti, massaggi e manipolazioni osteopatiche.
I Graniceros: i signori del fulmine e degli spiriti dell’aria
Una delle figure più affascinanti del curanderismo messicano è senza dubbio quella dei graniceros, letteralmente “uomini del temporale”. Essi non apprendono il mestiere in senso tradizionale, ma vengono “chiamati” dagli elementi stessi, in particolare dal fulmine, che li colpisce o li sfiora senza ucciderli, segnandoli per sempre come individui destinati al dialogo con gli aire, spiriti del vento e delle intemperie. Secondo la cosmologia che li circonda, il corpo colpito dal fulmine diventa contenitore vivente per lo spirito atmosferico, che, in cambio dell’ospitalità, dona poteri oracolari e terapeutici.
I graniceros sono specialisti nel trattare le malattie causate dagli aire, entità invisibili che si manifestano come soffi, turbinii o correnti fredde, e che entrano nel corpo quando l’anima (la sombra) si allontana o si indebolisce. Il compito del guaritore è quindi quello di recuperare la sombra e reinsufflarla nel corpo del paziente, restituendogli vitalità ed equilibrio.
La diagnosi viene generalmente avviata tramite una limpia con rami di ruta e pirul. Se, dopo essere stati strofinati sul corpo del malato, questi rami posti sul fuoco iniziano a crepitare rumorosamente, è segno che un aire è presente. Segue quindi un rito di estrazione dell’entità negativa, che può avvalersi di uova o, nei casi più gravi, di polli neri.
Nel rito dell’uovo, esso viene fatto rotolare lungo tutto il corpo del paziente, dalla testa ai piedi, assorbendo l’energia perturbante. Viene poi rotto in un bicchiere d’acqua per leggere eventuali anomalie nella forma del tuorlo o della chiara – segni di intrusione spirituale. Se l’uovo si presenta torbido, con filamenti o bolle, è segno della presenza dell’aire. Quando la guarigione è più complessa, viene impiegato un pollo nero come corpo di transfert: passato anch’esso sul malato, il volatile viene poi liberato in luoghi isolati, dove andrà a “portare via” lo spirito infestante.
Le malattie dell’anima e le brujas
Nella visione autoctona mesoamericana, la malattia è spesso frutto di una rottura tra l’uomo e il mondo invisibile, ma non di rado è provocata da un’azione esterna deliberata, compiuta da una bruja (strega) o uno stregone malevolo. In questo caso si parla di daño (danno), e la diagnosi spirituale cerca oggetti estranei che sarebbero stati “iniettati” nel corpo della vittima: pietre, spine, insetti simbolici, talvolta ritrovati nei rigurgiti, nei sogni o nelle offerte rituali. Il compito del curandero è quello di riconoscere l’origine del maleficio e neutralizzarne gli effetti.
Uno dei luoghi più noti in cui osservare dal vivo queste pratiche è la comunità Tzotzil di San Juan Chamula, nel Chiapas. All’interno della sua chiesa, formalmente cristiana, ma interamente ripensata secondo i codici rituali indigeni, si svolgono cerimonie di guarigione con uova, candele colorate, erbe, bibite zuccherate, incenso e sacrifici di galline, in un ambiente sacro dove il confine tra visibile e invisibile è palpabile. Le panche sono assenti, il pavimento è cosparso di aghi di pino, e ogni gesto rituale – persino l’ordine delle candele – ha un significato simbolico preciso. Fare foto o riprese è severamente proibito: i custodi, muniti di manganelli, intervengono duramente per preservare la sacralità del luogo.
Rituali di purificazione e spiritualità popolare: la Limpia con albahaca e l’uovo nel curanderismo messicano
Nel ricco panorama dei riti curanderistici messicani, la Limpia – la purificazione – è probabilmente la pratica più iconica e diffusa, espressione di una medicina popolare che fonde simbologie cristiane, cosmologie indigene e ritualità magico-naturalistiche. Tra le molte varianti della Limpia, spicca quella realizzata con l’albahaca – il basilico – pianta sacra per le sue proprietà purificatrici e protettive.
Il rituale ha inizio con la diagnosi: il curandero accerta che il malessere sia di origine spirituale, e non fisiologica. In tal caso, prepara una lozione a base di basilico e alcol con cui viene frizionato il corpo del paziente, immerso in un’atmosfera rituale densa di simboli: candele dai colori differenti, petali di rosa, fumi d’incenso, e immagini sacre. Seguono picchiettamenti rituali con un mazzetto fresco di basilico, che ha la funzione di “scacciare” le negatività, quasi fosse un pennello sacro atto a ripulire l’aura.
Una volta terminata la fase di contatto diretto, il paziente viene invitato a pestare con i piedi il mazzo già utilizzato, imprimendo fisicamente e simbolicamente il proprio intento di purificazione. A suggello del rito, il basilico viene cosparso di alcol o benzina e bruciato, in un atto catartico di combustione delle energie negative. Il tutto si svolge in un ambiente simbolico molto articolato, dove ogni elemento ha una funzione precisa: le candele colorate seguono combinazioni note solo al curandero, mentre le bottiglie di bevande gassate (in particolare Coca-Cola) vengono offerte o consumate per facilitare l’espulsione dei mali attraverso l’eruttazione, segno tangibile dell’avvenuta liberazione.
Un’altra tecnica assai diffusa, con radici nelle credenze mesoamericane, è quella che prevede l’utilizzo dell’uovo come oggetto di transfert simbolico, particolarmente nel trattamento del mal de ojo (malocchio), spesso accusato di provocare sintomi come insonnia, febbre, vomito o diarrea, specialmente in bambini e donne. Il curandero fa rotolare un uovo crudo su tutto il corpo del paziente, recitando orazioni e invocazioni. L’uovo, simbolo di vita e contenitore energetico, dovrebbe assorbire il male. Successivamente viene rotto in un bicchiere d’acqua e interpretato: filamenti, bolle, macchie o opacità sono letti come segni della presenza di entità perturbatrici. In molti casi, l’uovo viene poi gettato a un crocicchio, luogo liminale per eccellenza, dove le energie possono disperdersi.
Il potere del rituale risiede, ancora una volta, non tanto nell’oggetto quanto nel detentore del sapere: solo il curandero, in quanto intermediario tra i mondi, può attuare e interpretare questi gesti, inscrivendoli in un sistema simbolico coerente e condiviso dalla comunità.
Il culto della Santa Muerte: tra sincretismo, marginalità e potere spirituale
Chiudendo il nostro viaggio tra le forme di religiosità popolare messicana, non si può non menzionare uno dei culti più controversi e in rapida espansione del panorama spirituale contemporaneo: quello della Santa Muerte, la “Santissima” adorata come figura di protezione, vendetta e giustizia tra milioni di fedeli, soprattutto tra i più marginalizzati della società.
Sebbene il culto sia divenuto pubblico solo dagli anni ’60, quando una “Madonna della Morte” sarebbe apparsa a un contadino di Veracruz, chiedendo di diffonderne il culto, le sue radici affondano nel pantheon precolombiano, in particolare nella figura di Mictecacihuatl, la “Signora della Morte” azteca. Con l’arrivo degli spagnoli, questa antica dea fu inglobata nel processo di evangelizzazione, sopravvivendo in forma sincretica sotto le spoglie della Vergine di Guadalupe, generando la figura ibrida della “Santissima”.
Secondo l’antropologa Ortíz Echeniz, il culto si è ulteriormente arricchito grazie all’influenza di altre religioni sincretiche come la Santería cubana e la religione yoruba, generando una spiritualità popolare, fluida e potente, capace di rispondere alle domande esistenziali di chi è escluso dalle strutture religiose tradizionali. Questo alone di segretezza e proibizione ha generato anche leggende nere, che identificano la Santa Muerte come patrona dei criminali, dei narcos e degli emarginati.
Il santuario più importante si trova oggi a Tepito, quartiere popolare e pericoloso di Città del Messico, dove la “Santissima” è venerata come protettrice degli oppressi, custode dei carcerati, madre delle prostitute, ma anche come icona di riscatto per le classi subalterne. La sua iconografia – uno scheletro avvolto in un mantello, spesso ornato di fiori o dorato – richiama quella della falce e della giustizia implacabile, ma anche della misericordia assoluta.
Chi riceve una grazia dalla Santa Muerte è tenuto a erigerle un altare domestico, la ofrenda, in cui sono posti oggetti di devozione: gioielli, denaro, sigarette, birra, caramelle e frutti. Il rapporto è bilaterale e vincolante: la protezione ricevuta deve essere ricambiata con costanti offerte.
Va sottolineato che il culto della Santa Muerte non va confuso con le celebrazioni più tradizionali del Día de Muertos, che si tengono tra il 28 ottobre e il 2 novembre. Sebbene entrambe le pratiche condividano un’attenzione verso i defunti e il mondo ultraterreno, la figura popolarizzata della “Catrina” – lo scheletro di donna in abiti eleganti – rappresenta un simbolo secolarizzato e spesso ironico della morte, ben lontano dalla sacralità temibile e misericordiosa della Santa Muerte.
Oggi, anche grazie alla diffusione sui social media e alla diaspora latina negli Stati Uniti, il culto della Santissima è diventato un fenomeno transnazionale: si stima che coinvolga oltre 10 milioni di devoti, distribuiti tra Messico, Stati Uniti e altri paesi latinoamericani.





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