di Andrea Romanazzi
Nel panorama italiano della magia popolare, la Calabria si distingue per un patrimonio immaginifico e rituale profondamente connesso alla terra, alla memoria e al sacro. La stregoneria calabrese non nasce come deviazione criminale da reprimere, ma come espressione antichissima di un sapere femminile arcaico, un retaggio di culti precristiani sopravvissuti nel sottosuolo culturale della regione.
La figura della strega, spesso guaritrice e detentrice di conoscenze erboristiche, si lega alla dimensione del “numinoso” e del “selvaggio”; vive ai margini del villaggio, ma anche al centro simbolico della coscienza collettiva. Anche in Calabria la stregoneria ha come substrato l’atavico ricordo di culti pagani mai scomparsi. Ninfe e sibille dimorano in provincia di Cosenza e in particolare a Cerchiara, dove troviamo un loro antro. Una leggenda dell’Aspromonte ci riporta ad Alcina e al culto del serpente, narrando di sibille, castelli e antri stregati che rievocano i culti femminili del mondo antico e sovrappongono figure pagane e cristiane. Vi rinveniamo perfino piccoli suggerimenti per individuare luoghi da sempre sacri e avvolti dalla magia:
“Nel tempo dei tempi fra le aspre rocce dell’Aspromonte s’ergeva un castello. Negli antri misteriosi, che si prolungavano nella viscere dei monti, si eternavano gli echi fragorosi delle acque precipitanti nella notte degli abissi. In questo castello viveva una bellissima donna, la donna più sapiente dei tempi, detta Sibilla Cumana. […] Passarono i secoli … più giù, nella Valle dei Polsi sorse un santuario, dedicato alla Madonna … tra i piccoli ed aspri sentieri il popolo porta in trionfo il simulacro di Maria ma, allorché la statua dovrebbe esser rivolta verso levante, in direzione del luogo ove un tempo fu il castello della Sibilla, con rapido giro voltano la “bara”, in modo che volti il tergo alla grotta … solo un cancello di ferro, tra gli sterpi secolari, attesta il passato…”
Questa narrazione stratifica il mito e ne fa archetipo: la Sibilla, figura liminale tra divinità e strega, è sapiente e ribelle, custode di una sapienza originaria poi condannata all’oblio.
La strega calabrese, in quanto tale, è spesso una “sage femme”, donna saggia e ostetrica, l’unico vero medico del popolo. In questo contesto, i segni di una vera e propria caccia alle streghe sono scarsamente documentabili: i processi furono rari e, quando presenti, si trattò più spesso di esecuzioni sommarie che di tribunali inquisitoriali nel senso canonico del termine.
Alcuni luoghi della Calabria appaiono costantemente associati alla presenza di streghe, sabba e incantesimi, formando una vera e propria mappa invisibile del sacro e del magico popolare. Ogni borgo conserva nel suo toponimo o nelle sue leggende la memoria di un incontro con l’ignoto, di un confine sottile tra il visibile e l’invisibile.
Melissa, piccolo centro della provincia di Crotone, sorge su un’altura che domina la valle del torrente Lipuda. Il nome stesso potrebbe rimandare a significati legati al miele e alle api, creature sacre in molte tradizioni pagane e spesso associate a figure sacerdotali femminili. Melissa viene ricordata come una delle sedi privilegiate dei sabba notturni: si racconta che sulle sue colline le “magare” si riunissero sotto la luna per evocare spiriti, scambiare formule e stringere alleanze. Non si trattava solo di stregoneria distruttiva, ma anche di rituali di guarigione e pratiche ancestrali legate alla fertilità dei campi e alla protezione delle comunità.
Allo stesso modo, Buonvicino, incastonato nel Parco Nazionale del Pollino, è avvolto da una nebbia di racconti popolari che parlano di fatture, incantamenti e malocchi. Le sue grotte e i suoi boschi, come il vicino Monte Mula, sembrano trattenere un’energia antica, ancora oggi oggetto di narrazioni tramandate tra generazioni. Le “fattucchiere” di Buonvicino erano donne temute e rispettate: si diceva che potessero legare l’amore, spezzare maledizioni o provocare rovesci economici, utilizzando capelli, cera e parole sussurrate nel vento.
Più a sud, Scilla, mitico approdo dell’Odissea e luogo leggendario della ninfa trasformata in mostro marino, non solo conserva il fascino del mito greco, ma è anche considerato uno dei luoghi calabresi dove le donne erano ritenute dotate di un dominio assoluto sul corpo. Secondo la tradizione, esse erano capaci di fermare le mestruazioni, provocare la sterilità o rendere impotenti gli uomini solo con lo sguardo o con un tocco. Anche Melito Porto Salvo, affacciato sullo Jonio, con il suo paesaggio aspro e luminoso, era noto per la presenza di donne ritenute in grado di controllare non solo il proprio corpo, ma anche quello degli altri. Si tramanda che alcune di loro sapessero partorire senza dolore o che potessero trasmettere malanni semplicemente fissando qualcuno negli occhi.
Firmo, piccolo comune di origine arbëreshe in provincia di Cosenza, è invece teatro di raduni notturni nella notte di San Giovanni, data già carica di potenza magica in tutta l’area mediterranea. Qui si credeva che le streghe si incontrassero per celebrare riti legati al fuoco, all’acqua e alla rugiada, ingredienti sacri per preparare filtri e unguenti. Il legame con la cultura arbëreshe – che ha mantenuto vivi simbolismi precristiani di matrice balcanica – rende ancora più suggestiva l’interpretazione di queste riunioni, probabilmente retaggio di riti propiziatori agrari o di antiche forme di culto lunare.
A Cropani, in località Anitonimina, si trova uno dei luoghi più enigmatici della Calabria: la pietra “U Denti da Magara”. Questo monolite, visitato secondo la leggenda da una strega in determinate notti dell’anno, è parte di quel vasto repertorio di culti betilici – ovvero incentrati su pietre sacre – connessi alla Grande Madre. Simbolicamente, queste pietre rappresentano il grembo, il fulcro della fertilità, la memoria di una divinità tellurica che precede ogni patriarcato. La pietra della Magara, con il suo nome così evocativo e corporeo, sembra quasi mordere il tempo, trattenendo dentro di sé la memoria di gesti rituali ormai perduti.
Sulla Grande Sila, la vasta altopiano di boschi, laghi e vento, si trova la località chiamata Croce di Magara. Il toponimo stesso non lascia spazio all’equivoco: qui si incrociano, nella geografia e nel simbolismo, il cristianesimo della croce e il paganesimo della strega (“magara”). Questo luogo potrebbe rappresentare un antico crocevia di pellegrinaggi e riti, dove la donna saggia – la magara – assumeva la funzione di guida, mediatrice tra i mondi, levatrice spirituale e fisica. Il paesaggio silano, con i suoi silenzi e la sua vegetazione fitta, è spesso stato letto come “anima verde” della Calabria magica, spazio ideale per l’apparizione di spettri, fate e spiriti.
Nei boschi attorno ad Acquaformosa, altro comune arbëresh, si narra della presenza di fantasmi e apparizioni. Anche qui la cultura arbëreshe si intreccia con la spiritualità naturale di origine orientale, facendo di queste montagne un luogo dove il cristianesimo greco e le memorie pagane convivono. I racconti parlano di anime che vagano in cerca di giustizia, di streghe che si tramutano in animali e di fonti dalle acque incantate, capaci di rivelare il futuro.
Infine, non si può non menzionare San Fili, chiamato “il paese delle streghe”, e la frazione Pittarella di Pedivigliano. A San Fili viveva una domina herbarum, che conosceva le virtù di tutte le piante e si diceva frequentasse il leggendario noce di Benevento. A Pittarella, invece, si raccontava che le streghe partissero ogni venerdì notte in volo per raggiungere il sabba pronunciando la formula:
“Supr’acqua e supra vientu, alla nuce de Bonavientu”.
Arrivate al Sabba, si circondavano di animali bizzarri, pronunciavano oscuri scongiuri e brandivano bacchette magiche, rievocando antichi riti di metamorfosi e potere.
Tra le poche vicende di stregoneria calabrese giunte fino a noi con una documentazione concreta, spicca per valore simbolico e forza narrativa il processo a Cecilia Faragò, avvenuto nel marzo del 1770 nel villaggio di Soneria, oggi località quasi dimenticata del territorio di Catanzaro, ma un tempo cuore pulsante di credenze, rivalità e tensioni religiose. Il suo caso non rappresenta solo un episodio giudiziario, ma diventa una vera e propria chiave interpretativa della transizione storica tra l’età della superstizione e quella della ragione, tra l’ombra dell’Inquisizione e i primi bagliori dell’Illuminismo.
Cecilia Faragò era una donna istruita e fiera, appartenente a una famiglia stimata ma caduta in disgrazia. Aveva sposato Lorenzo Gareri, uomo noto per la sua fragilità fisica ma di profonda devozione religiosa. Sul letto di morte, Gareri decise di lasciare la quasi totalità dei propri beni alla Chiesa, nel tentativo – secondo la mentalità del tempo – di “comprare il paradiso” attraverso l’elemosina e la carità testamentaria. Ma alla morte del marito, Cecilia si ritrovò spogliata di tutto. In un contesto sociale dove la vedova era spesso figura marginale e sospetta, la sua posizione divenne rapidamente precaria.
Il pretesto per colpirla giunse con la morte improvvisa del canonico don Antonio Ferraiolo, figura influente del clero locale, che Cecilia aveva più volte apertamente criticato. La voce che circolava era che la donna, esasperata dai continui soprusi clericali, avesse acquistato una “polvere magica” da una magara di Catanzaro e l’avesse usata per provocare la morte del sacerdote e, secondo ulteriori accuse, anche quella del figlio Andrea, erede del marito. Si trattava di accuse infamanti, ma non insolite in un’epoca in cui bastava una parola, uno sguardo o un’erba essiccata in casa per essere marchiati come streghe.
Il clima a Soneria, come in molte realtà rurali del Mezzogiorno del Settecento, era dominato da un dualismo costante tra fede e paura, tra sacro e demoniaco. Il paese si trovava in un’area collinare, immersa in boschi e terreni difficili, dove le superstizioni attecchivano con facilità, e dove ogni malanno, morte improvvisa o carestia poteva essere letta come effetto di malocchio, fattura o rito oscuro.
Ma ciò che distingue il caso Faragò da tanti altri simili fu l’intervento dell’avvocato Giuseppe Raffaelli, figura di spicco del foro napoletano, noto per il suo acume giuridico e per una visione apertamente illuminista. Fu lui a trasformare un processo di stregoneria in una battaglia simbolica contro l’arbitrio, la superstizione e la vendetta religiosa. Davanti al tribunale, Raffaelli smontò punto per punto l’impianto accusatorio: dimostrò che le ossa ritrovate nella casa di Cecilia appartenevano ad animali e che la morte del canonico era imputabile a cure mediche errate, e non certo a un maleficio.
Il processo si concluse con l’assoluzione piena della Faragò, creando una pietra miliare nella lotta calabrese contro la stregoneria. Era il tempo in cui iniziava a sorgere quell’Età dei Lumi che, anche se a suo modo, gettò le basi per la fine di una tragedia che ancora oggi fa sentire il suo grido di dolore.
La storia di Cecilia si fa così emblema di una trasformazione profonda: da una Calabria ancora incatenata ai riti arcaici e ai poteri occulti, a una terra che, seppure lentamente, cominciava a riconoscere l’importanza della giustizia, della prova, della ragione. Ma la memoria delle streghe calabresi non si è mai del tutto spenta: sopravvive nei racconti delle nonne, nelle preghiere sussurrate contro il malocchio, nei boschi e nei borghi abbandonati dove le pietre sembrano trattenere parole antiche.
È nel vento che accarezza le rocce dell’Aspromonte, nei boschi nebbiosi della Sila, nelle gole oscure del Pollino, nei vicoli di San Fili o presso la pietra sacra di Cropani, che si sente ancora l’eco di queste voci. È nei luoghi come Melissa, Buonvicino, Firmo, Scilla o Melito Porto Salvo, che la figura della magara, della domina herbarum, della guaritrice e visionaria, ancora danza nella notte, fra sogno e veglia.
La Calabria delle streghe è una Calabria dei confini, dove il diritto e il sortilegio si sono a lungo fronteggiati. E Cecilia Faragò, con il suo processo e la sua assoluzione, rappresenta non solo la rivendicazione di una donna contro l’oppressione, ma anche l’inizio di un risveglio collettivo. Un risveglio che ancora oggi ci invita a rileggere questi luoghi non come semplici scenari folklorici, ma come palinsesti sacri, testimoni silenziosi di una storia sommersa che merita d’essere ascoltata.
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