Anonimo

Ci sono storie che non appartengono ai libri, ma alla voce. Storie sussurrate vicino al focolare, mentre fuori la neve cadeva silenziosa e il vento si infilava tra i vicoli deserti dei piccoli paesi. Storie che non chiedevano di essere credute, perché non erano semplici leggende: erano vissuti, memorie, paure antiche. Erano, per chi le raccontava e per chi le ascoltava, verità.

In un tempo non così lontano, in un Molise intimo e profondo, la presenza delle streghe non era fantasia. Era certezza. Le madri mettevano la scopa dietro la porta per impedire loro di entrare; i bambini venivano protetti con gesti rituali e preghiere sussurrate; i giovani tendevano tranelli nella notte di Natale per smascherarle. Ogni scricchiolio, ogni luce lontana, ogni gatto nero apparso dal nulla portava con sé un mondo invisibile che si intrecciava a quello quotidiano.

Ma il Molise non è solo terra di mistero. È anche terra di riti antichi che uniscono, come quello della festa dell’Annunziata: giovani che si prendevano per mano e, con un dito mignolo intrecciato, giravano tre volte attorno all’altare per diventare “commare” o “compare” per la vita. O come il gesto, pieno di simbolismo, di “passare la vita” a un ragazzo o una ragazza, camminando attorno alla chiesa, tracciando un legame che andava oltre il sangue e il tempo.

Oggi, questi racconti sopravvivono nel ricordo di chi li ha vissuti, in quel confine sottile tra ciò che era creduto e ciò che ancora resiste. Non importa se siano veri o immaginati: appartengono a una tradizione viva, che pulsa ancora sotto le pietre dei vicoli e nel cuore di chi ascolta.

Sono storie che mi riportano lontano, nel tempo incantato della mia fanciullezza vissuta a Casalciprano, il mio amato e indimenticabile paesello natio. Ricordo le sere d’inverno, quando la gente del vicinato si riuniva intorno al focolare: si gustavano lupini, nocciole, olive nere, fichi secchi, formaggio di pecora e salsiccia stagionata, il tutto accompagnato da un bicchiere di vino rosso e pane di casa appena sfornato. Tutto era genuino, frutto delle mani sapienti e operose della nostra terra.

Noi ragazzi, seduti tra gli adulti, ascoltavamo in silenzio, con gli occhi spalancati e il cuore che batteva forte, le storie di streghe e magie che si tramandavano da generazioni. A notte fonda, andavamo a dormire con la paura che quelle streghe potessero davvero venire a prenderci.

Ma anche di giorno non era facile dimenticare: bastava un fruscio nel vento o un’ombra fugace per farci voltare di scatto, con il timore che qualche strega ci stesse osservando o, peggio, seguendo. Quanta paura… ma anche quanta meraviglia, in quei racconti che hanno scolpito per sempre la mia infanzia.

Mio nonno raccontava che una notte, di ritorno da Campobasso a cavallo, vide in lontananza una strana luce nel buio della campagna. Incuriosito, decise di avvicinarsi. Man mano che si avvicinava, quella luce si trasformava in un bagliore sempre più intenso, fino a rivelarsi un grande fuoco.

Quando fu abbastanza vicino, riconobbe, con stupore, due donne del paese intente attorno a quel fuoco. Non appena lo videro, cercarono subito di spegnerlo in fretta. Una di loro, con uno sguardo duro e colmo di rabbia, gli gridò:
«Ma tu non ti puoi fare i fatti tuoi?»

In quel momento, nonno udì un lamento, simile a quello di un neonato. Ma il fuoco ormai quasi spento e l’oscurità della notte non gli permisero di capire se davvero ci fosse un bambino.

La mattina seguente, quando andò a prendere il cavallo nella stalla, trovò una delle due donne appostata lì, ad aspettarlo. Con tono deciso e senza lasciargli scampo, gli sussurrò:
«Peppino, bada bene… stanotte non hai visto niente. Mi raccomando.»

Secondo racconto – La notte in cui intrappolarono le streghe

Durante le festività natalizie, si racconta che i giovani del paese decisero di tendere una trappola alle streghe, proprio nella notte della Vigilia di Natale. Era una tradizione antica credere che, durante la Messa di mezzanotte, le streghe si mescolassero tra i fedeli, nascondendosi sotto abiti comuni per poi uscire indisturbate.

Ma quella notte fu diversa.

Alla fine della Messa, i giovani rimasero appostati vicino alle due porte della chiesa madre. Sotto i loro mantelli — o mantelline, come si chiamavano nel dialetto del paese — nascondevano delle falci. Non per fare del male, ma perché, secondo la credenza, la falce era lo strumento capace di impedire alle streghe di oltrepassare una soglia.

E così fu.

Tutti i fedeli uscirono tranquillamente… tranne loro. Le streghe cercarono di passare, prima da un lato, poi dall’altro, ma ogni volta i giovani si spostavano, bloccando ogni via di fuga con fermezza e coraggio. Alla fine, furono riconosciute.

I giovani, fieri e soddisfatti, uscirono dalla chiesa con passo deciso, orgogliosi di aver smascherato le streghe del paese nella notte più santa dell’anno.

Terzo racconto – Il gatto nero e la strega dal braccio fasciato

Era una sera d’inverno, nevicava forte, e mia madre tornava da Campobasso portando in braccio il mio piccolo cuginetto. La madre del bambino, malata, non era in grado di occuparsene, e così mia mamma si era presa cura di lui. Quando scese dalla corriera, stringendolo al petto per ripararlo dal freddo, non c’era anima viva in strada: tutto era silenzio e neve.

Durante la notte, accadde qualcosa di inspiegabile. Nella stanza dove il bambino dormiva apparve un gatto nero. Mamma si spaventò: non lo riconobbe, non era nostro, e soprattutto… come aveva fatto a entrare se la porta era chiusa?

Cercò di cacciarlo, ma il gatto rimaneva immobile, con gli occhi fissi sul bambino. Allora, prese la scopa — che teneva sempre dietro la porta, come da tradizione, per impedire alle streghe di entrare senza prima contare uno a uno i fili — e, con pazienza, cercò di spingerlo fuori sul balcone. Una volta riuscita, chiuse rapidamente la porta. Il povero animale rimase lì, al freddo, ma dentro casa si sentivano finalmente al sicuro.

La mattina dopo, il gatto era sparito. La porta era chiusa, il balcone ben chiuso, nessuna traccia. Mamma guardò giù dal secondo piano per vedere se fosse caduto… ma niente. Scese in strada, aprì il portone, cercò intorno: nessuno lo vide mai più. E nessuno, nei giorni successivi, venne mai a cercarlo.

Il giorno seguente, mentre camminava verso la masseria per prendere il latte, incontrò una donna del paese. Quella la guardò con uno strano sorriso e le disse:
«Ma perché hai portato tuo nipote da Campobasso con questa neve?»

Mamma si fermò di colpo.
«E tu come lo sai?» chiese, sorpresa.

Notò subito che la donna portava una sciarpa avvolta stretta intorno al viso e teneva un braccio fasciato. Sotto la sciarpa, un graffio rosso le solcava la guancia.

«Sono caduta dalla scalinata,» rispose la donna con voce bassa, «mi sono fatta male al braccio.»

Mamma tornò a casa e raccontò l’episodio a una vicina. Ma quella, sgranando gli occhi, le disse sottovoce:
«Quale scalinata? Quella non ha scale in casa… È caduta dal tuo balcone, quella stregaccia!»

Il bambino rimase a casa nostra per più di un mese. E io ricordo bene le precauzioni che mamma prendeva ogni sera: la scopa dietro la porta, il sale sul davanzale, l’acqua santa sugli stipiti. Voleva essere certa che quella strega non sarebbe più tornata.

Quarto racconto – Il neonato davanti al focolare

Una donna del paese raccontava spesso un fatto che le accadde in una gelida notte d’inverno, e che mai più riuscì a dimenticare.

Dormiva profondamente nel suo letto, con accanto il marito, mentre il loro neonato riposava al caldo, tra di loro, protetto dall’abbraccio del sonno e delle coperte. Fu svegliata da un rumore improvviso. Proveniva dal piano di sotto, dalla cucina: sembrava un bussare lieve, ma insistente, come se qualcuno battesse piano contro la porta o i vetri della finestra. Si sollevò nel letto, trattenendo il fiato per ascoltare meglio. Tutto sembrava immobile, eppure quel suono c’era stato.

Pensò a un sogno, a un rumore del vento, e cercò di riaddormentarsi. Ma quando si voltò verso il piccolo… il bambino non c’era più.

Con il cuore in gola si alzò di scatto, gridando il nome del marito che ancora dormiva. Corse per la casa cercando il figlioletto, finché, con sgomento, lo trovò giù in cucina, adagiato nella culla che avevano posizionato settimane prima davanti al focolare, ormai spento. Dormiva tranquillo, come se nulla fosse accaduto.

Chiamò subito il marito, che accorse ancora mezzo assopito. Alla vista del bambino, sbiancò. Giurò e spergiurò che lui non si era alzato, che non lo aveva toccato, che non sapeva come fosse finito lì.

La donna, presa da un’inquietudine profonda, vegliò quella notte accanto al figlio, senza mai chiudere occhio. Il giorno seguente si recò dal parroco del paese e, tra lacrime e tremori, gli raccontò tutto. Il sacerdote, dopo aver ascoltato con attenzione, decise di recarsi in casa loro per benedire ogni stanza.

Da quella notte in poi, non si sentirono più bussare e il bambino non scomparve più dal letto. Ma la donna, ogni sera, prima di coricarsi, segnava la porta con l’acqua santa e accendeva una piccola candela alla Madonna, per tenere lontano ogni presenza oscura.

Ogni racconto raccolto in queste pagine è un frammento di memoria, un sussurro che viene da lontano. Non importa se oggi li chiamiamo leggende, superstizioni o semplici ricordi d’infanzia: ciò che conta è che queste storie hanno formato l’anima di un popolo, hanno custodito il mistero, la fede, la paura e la meraviglia di chi le ha tramandate.

Lascia un commento

In voga