di Andrea Romanazzi
Tra i paesaggi silenziosi della Valle Telesina, si nasconde un’eredità che non appartiene solo alla storia, ma anche al mito. È l’eco delle Janare, le streghe del Sannio, donne misteriose capaci di volare a Benevento per danzare sotto l’ombra del leggendario Noce, ma anche dell’uva della Vergine Maria. Vi presentiamo un viaggio a Solopaca, meraviglioso borgo del Sannio.
Come detto Solopaca si trova nella Valle Telesina, un territorio abitato sin dall’antichità, grazie alla fertilità delle sue terre e alla presenza di vie di comunicazione naturali che collegavano l’area interna del Sannio con le pianure campane. In epoca preromana la zona era popolata dai Sanniti, popolo fiero e guerriero che oppose strenua resistenza all’espansione di Roma. Le tracce della loro presenza sono ravvisabili nei resti di fortificazioni, necropoli e manufatti rinvenuti nei dintorni. Con l’arrivo dei Romani, il territorio fu integrato nella rete delle centuriazioni agricole: vigne e campi coltivati segnarono l’economia, mentre la vicina Telesia (oggi Telese Terme) divenne un importante centro urbano. Già allora la vocazione agricola di Solopaca si affermava, favorita dal clima e dal terreno. Il nome Solopaca appare per la prima volta in documenti medievali, quando il territorio entrò a far parte del Ducato di Benevento, quindi passò ai Normanni, agli Svevi e infine agli Angioini, seguendo le alterne vicende del Mezzogiorno. Tra Cinque e Seicento Solopaca consolidò la sua identità agricola e vitivinicola. Documenti dell’epoca testimoniano la presenza di vigneti pregiati, da cui provenivano vini esportati nei territori vicini. mSolopaca, oggi borgo celebre per la sua viticoltura e per la festa dell’uva, custodisce anche un patrimonio immateriale che affonda le radici nel mito e nella leggenda. In questa terra le tradizioni popolari non si esprimono soltanto attraverso riti legati ai cicli agricoli e religiosi, ma anche attraverso la memoria di figure liminali, al confine tra il sacro e il demoniaco: le Janare.
Le Streghe di Solopaca
Le janare nell’immaginario folklorico campano rappresentano essenzialmente le streghe del Sannio beneventano, protagoniste di innumerevoli racconti contadini. Secondo la tradizione, di giorno le janare appaiono come donne comuni, spesso solitarie e talora con conoscenze di erbe e rimedi popolari; di notte invece rivelano la loro natura malefica. Si tramanda infatti che al calare delle tenebre queste streghe abbandonassero le sembianze umane per trasformarsi: i capelli sciolti e arruffati, gli occhi spiritati, il volto solcato da rughe, i piedi nudi e le unghie lunghissime. Prima di compiere i loro voli notturni, si cospargerebbero il corpo nudo con un unguento magico e, pronunciando formule come “Unguento, unguento, portami al Noce di Benevento!”,prenderebbero quindi il volo a cavallo di una scopa di saggina dirigendosi al grande Noce sulle sponde del Sabato per partecipare al sabba, il convegno con il Diavolo. Si diceva che volassero anche dalla provincia: “Da Solopaca, le Janare… spiccavano il volo a bordo delle loro scope alla volta di Benevento”, ricorda un’antica cronaca locale. In questo contesto di stregoneria generale, le janare beneventane avevano però alcune caratteristiche particolari. Innanzitutto, secondo la credenza popolare, nascevano tutte nella notte della Vigilia di Natale. Far coincidere la propria nascita con quella di Gesù Bambino era visto come un affronto: per tale motivo, le leggende dicevano che quelle donne fossero destinate a diventare streghe, acquisite i loro poteri malefici al compimento del settimo anno d’età. Un’altra versione sosteneva addirittura che chi nasceva la notte di Natale (specie se settimo figlio) sarebbe stato colpito dal “mal di luna” – i maschi destinati a tramutarsi in licantropi nelle notti di plenilunio, le femmine in janare. In ogni caso, il legame tra le janare e il periodo natalizio ricorre spesso: da un lato è la data “magica” della loro nascita, dall’altro è il momento in cui i rituali cristiani più sacri (come la Messa di Mezzanotte) cozzano con credenze pagane ancora vive – e infatti si narrava che proprio alla Messa della Notte di Natale si potessero riconoscere le janare in sembianze umane osservando quali fossero le ultime donne ad uscire di chiesa dopo la funzione. Le janare vengono descritte come fattucchiere esperte di incantesimi e malefici. Potevano lanciare il malocchio e maledizioni tremende: aborti provocati, infertilità delle donne, morte di bambini in culla, malattie del bestiame e sciagure nei campi erano spesso attribuiti al loro operato demoniaco. In particolare erano temute per gli assalti notturni ai neonati: “si intrufolano al buio nelle case dove ci sono bambini, li afferrano per i capelli e li trascinano per terra per tutta la casa…”, rendendoli deboli e malati, finché alcuni morivano. I bimbi durante queste aggressioni restavano in uno stato di paralisi spaventata, incapaci di piangere o reagire (il classico “peso sul petto” attribuito all’assalto di una janara, analogo al fenomeno della paralisi del sonno o “pandafeche” in altre tradizioni).
Un’altra peculiarità attribuita alle janare è di cavalcare i cavalli di notte. Molte leggende narrano che queste streghe fossero solite introdursi nelle stalle buie per cavalcare sfrenatamente le giumente fino all’alba che così venivano ritrovati stremati, sudati fradici e con le criniere stranamente intrecciate in fitte treccine. Quei nodi nei crini – ‘nzegnature in dialetto – erano considerati il marchio tangibile del passaggio delle janare. La Janara non era però l’unica strega presente nell’area. Si parlava ad esempio della Zucculara, una strega zoppa (colpita da deformità) che infestava i vicoli dei borghi battendo rumorosamente i suoi zoccoli – il nome deriva appunto dagli “zoccoli” o della Manalonga, lo “spiritello dal braccio lungo” che abitava nei pozzi. Appena un malcapitato si avvicinava all’orlo, la Manalonga lo afferrava con il suo arto mostruosamente esteso trascinandolo giù nell’acqua. Questa figura richiama e giustificava la diffusa paura dei pozzi e dei burroni presenti nelle campagne beneventane dove spesso bambini e contadini perdevano la vita.
Queste tradizioni locali sono certamente da mettere in relazione con la città di Benevento, da secoli associata al mito delle streghe. Si narra infatti che il duca longobardo Romualdo I tollerasse rituali pagani nei pressi del fiume Sabato: donne urlanti che saltavano intorno a un enorme albero di noce da cui pendevano serpenti, e guerrieri a cavallo che galoppavano in cerchio attorno allo stesso albero sacro con una pelle di caprone appesa, colpendola con le lance e divorandone brandelli in onore del dio Wotan. La reazione della Chiesa non tardò ad arrivare: la tradizione racconta che il vescovo Barbato, deciso a sradicare il paganesimo, abbatté il noce “maledetto” – considerato il fulcro delle stregonerie – estirpandone persino le radici, e fece edificare sul luogo una chiesa consacrata.
Nonostante ciò, le credenze sulle streghe di Benevento sopravvissero. Già nel XIII secolo circolavano nuovamente racconti di riunioni notturne di streghe sotto un noce lungo il Sabato Si credeva che quel noce fosse ricresciuto per opera del diavolo, riportando in vita il sabba stregonesco interrotto da San Barbato. Nel 1428, durante un celebre processo per stregoneria, la fattucchiera umbra Matteuccia da Todi confessò sotto tortura di recarsi proprio “al noce di Benevento” per partecipare ai raduni notturni con altre streghe, a riprova di quanto la fama di Benevento fosse diffusa anche altrove. Dal lato storico, sappiamo che il fenomeno ebbe anche un risvolto tragico: l’Inquisizione raccolse numerosi verbali di processi per stregoneria nel Beneventano. Lo storico locale Abele De Blasio riportò che nell’Archivio Arcivescovile di Benevento si conservavano circa 200 verbali di processi a presunte streghe. Ciò nonostante, il ricordo delle streghe di Benevento rimase vivido nella memoria popolare e letteraria: basti pensare che nel dopoguerra il famoso liquore Strega di Benevento – lanciato dall’industriale Guido Alberti o il prestigioso Premio Strega letterario (fondato nel 1947 da Maria Bellonci e dallo stesso Alberti).

A Solopaca, però, vi era una tradizione del tutto particolare. Nel periodo natalizio la Pro Loco, ispirandosi ai racconti popolari del paese, organizza una Caccia alla Janara, una sorta di grande caccia al tesoro a squadre che viene organizzata solitamente nel periodo natalizio dalla locale. Questa tradizione ludica, che coinvolge giovani e famiglie e culmina spesso con racconti attorno al fuoco o visite teatralizzate nei luoghi “stregati” del borgo, trae origine da antiche credenze che vogliono il borgo dia i natali a famosi cacciatori di streghe. Un esempio è Jennaro ’u Serparo, che leggenda colloca la sua vicenda probabilmente nell’Ottocento. Nella notte di Natale, momento in cui le janare, secondo le credenze, sono in piena attività, si appostava di nascosto fuori dalla chiesa, subito dopo la Messa di mezzanotte, armato solo di una falce affilata e di un rametto di agrifoglio benedetto che fungeva da talismano contro le forze maligne. Immobilizzava la strega e, messa alle strette, prometteva di non nuocere più alle famiglie del borgo. Ancora oggi si narrano una serie di usanze apotropaiche – cioè pratiche per difendersi dalle janare e neutralizzarne i sortilegi. Una delle più note consisteva nel proteggere la casa lasciando una scopa di saggina o un sacchetto di sale sull’uscio durante la notte o il capovolgere le sedie o i mobili prima di dormire. Non mancano scongiuri religiosi. La fede cattolica offriva svariati antidoti spirituali: portare addosso un rosario benedetto o una medaglietta sacra, tracciare segni di croce agli angoli delle stanze, recitare il Credo o salmi specifici prima di coricarsi erano tutti modi per tenere lontani gli spiriti maligni. Altri metodi erano l’appendere all’uscio una palma benedetta (quella della Domenica delle Palme) o un rametto di ulivo benedetto (della Pasqua) come protezione. Il già citato agrifoglio era ritenuto efficace perché pianta consacrata al Natale e dunque odiata dalle streghe nate in quel giorno sacro. Oggi il mito delle janare è ben lungi dall’essere dimenticato: al contrario, è diventato parte integrante dell’identità locale sannita, celebrato attraverso eventi, pubblicazioni e manifestazioni culturali. In diversi comuni si organizzano rievocazioni e feste a tema stregoneria.
Solopaca e la Festa dell’Uva: un borgo, una tradizione secolare
Sacro e Profano. Solopaca deve oggi però la sua fama al vino e alla sua storica vocazione agricola. È in questo contesto che nasce una delle feste più sentite della comunità: la Festa dell’Uva, che si tiene la seconda domenica di settembre e che oggi rappresenta non solo un momento di devozione e ringraziamento per il raccolto, ma anche un’occasione di incontro e di identità collettiva. Le radici della festa affondano nel XVII secolo, quando le vie di Solopaca erano animate da carri trainati da buoi, carichi di doni agricoli: uva, granturco, polli e altri prodotti della terra. Questi doni venivano offerti alla Madonna Addolorata come segno di riconoscenza per la vendemmia e il raccolto. La processione non era soltanto spettacolo, ma aveva un significato religioso e propiziatorio. A organizzare il rito era una confraternita locale che raccoglieva le offerte durante la vendemmia. I cesti e i carri, giunti in piazza Vittoria, venivano messi all’asta: il ricavato serviva a finanziare le attività religiose della confraternita. Con il tempo, per cause non del tutto chiare, la tradizione cadde in disuso e nell’Ottocento se ne persero le tracce, lasciando alla memoria popolare soltanto il ricordo di un rito di ringraziamento che univa sacro e profano, religiosità e lavoro dei campi. Bisognerà attendere il 1979 perché la Festa dell’Uva torni a colorare le strade di Solopaca. Un comitato cittadino, poi confluito nella Pro Loco, decise di recuperare quell’antica consuetudine, trasformandola in un evento capace di coniugare spiritualità, tradizione e spettacolo. La Festa dell’Uva di Solopaca non è soltanto un tributo al vino e alla viticoltura, ma un vero patrimonio identitario. È la dimostrazione di come una comunità sappia conservare e reinventare le proprie radici, trasformando un’antica devozione religiosa in una manifestazione moderna e partecipata.
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