Il Mistero svelato dell’Homo Selvatico, il Bigfoot italiano

Di Andrea Romanazzi

 

Facea sovente pe’ boschi soggiorno
Inculto sempre rigido in aspetto
E l’volto difendea dal solar raggio
Con ghirlanda di pino o verde faggio.

Così scriveva Poliziano parlando dell’Uomo Selvatico. Chi è costui? La sua figura è effettivamente diffusa in tutto l’arco alpino italiano dove assume differenti nomi. Nel Trentino è detto Om Pelos, in Valtellina Omo Salvadego, per diventare l’Ommo Sarvadzo in Val d’Aosta, l’Om Salvadegh in Val Pusteria, l’Urciat nel biellese e così via. E’ sempre descritto avente tratti umani ma ricoperto di un pelo ispido e irsuto, tranne le mani e il viso, particolare molto importante su cui ci soffermeremo, in alcuni casi vestito d’indumenti rozzi e primitivi, in genere di pelli, armato con un bastone o una clava. Il liber Monstrorum, lo descrive “…pilosum toto corpore quoddam genus hominum didicimus, qui in naturali nuditate, setis tantum more ferino contencti…”.

Se dalla descrizione può apparire un Selvaggio, egli non è un primitivo. In alcune leggende,  questo primo abitatore e colonizzatore delle Alpi, è il Primus tra i pastori, l’iniziatore dell’attività alpestre. Egli infatti è colui che ha insegnato agli uomini a fare il burro e il formaggio, a raccogliere e lavorare il legno, a produrre il miele e far fruttare le miniere.

Alcuni racconti popolari lo legano ad Ercole che, secondo una leggenda settecentesca, sarebbe stato il progenitore dei Salassi, uno dei popoli liguro-celti che popolarono il Piemonte. Per altri invece questa curiosa figura deriverebbe dal culto di Giove, diffuso nei Passi del Piccolo e del Gran San Bernardo, e dunque una forma sincretica del dio romano che si sovrappone a quello preesistente del dio Poenius, il mitico guerriero vestito di pelli di animale, armato di bastone e strettamente legato al mondo agreste.

Il Selvadego sarebbe, dunque, ciò che rimane degli antichi culti arborei neolitici e paleolitici, trasposizione antropomorfa dello spirito vegetazionale, come evidenzia anche la sua capacità di trasformarsi in animale e/o di essere accompagnato da questi. Un’altra sua raffigurazione potrebbe essere il “Maometto”, un’edicola rupestre presente a Borgone di Susa scolpita a bassorilievo sulla parete rocciosa, con all’interno raffigurato un personaggio che la tradizione popolare ha voluto identificare con Maometto, ma che altro non sarebbe che la raffigurazione di un antichissimo dio vegetazionale

Il “Maometto” di Borgone di Susa

 

Successivamente l’Uomo Selvatico subirà da parte della religione dominante, il Cristianesimo, una vera e propria operazione sincretica, che lo trasformerà in vari e disparati santi come san Silvestro, Sant’Orso o san Rocco, quest’ultimo ha così il suo patronato sul mondo contadino e sugli animali, è invocato nelle campagne contro le malattie del bestiame e le catastrofi naturali.

Ad Aosta troviamo il Selvadego nelle forme di San Grato, protettore dei campi e invocato per favorire l’agricoltura, domare e rendere inermi gli animali nocivi. Sempre nella stessa area troviamo il culto di Sant’Orso tradizionalmente raffigurato proprio come un uomo ricoperto di peli.

Confronto iconografico tra San Rocco e il Selvadego nelle sembianze di un dio vegetazionale

 

Ovviamente esiste una Donna “Selvadega”, la  Salvaria, anch’ella espressione degli antichi culti delle divinità femminili pre-cristiane dei culti di fertilità e delle acque come Morrigan, o l’ancor più antica Mongruad, e successivamente associata dal Cristianesimo a figure sacre come la Maddalena. Possono, il Selvadego e la sua Compagna, però essere solo figure mitologiche?

 

Il Selvadego e la Metereologia

Una seconda ipotesi che cerca di spiegare l’identità del Selvadego è quella che lo accosta ad altre figure animalesche del calendario pagano, ovvero all’Orso/a, e al il suo legame con le previsioni metereologiche. Nel Dittamondo di Fazio degli Uberti del XI secolo si legge “…Come si allegra e canta l’uom salvatico quando il maltempo e tempestoso vede, sperando nello buono, ond’egli è pratico…”.

In alcune tradizioni popolari il Selvadego si trasforma, o è sostituito, nell’orso-dendrofago, simbolo della fertilità e dei riti agricoli e metereologici. Infatti l’orso ci segnala il tempo e ci rimette in connessione con esso. Egli è Annus, o Anus, il dio della Candelora, che si sveglierebbe dal letargo e uscirebbe fuori dalla sua tana per vedere come è il tempo per valutare se sia o meno il caso di mettere il naso fuori. Un proverbio piemontese in questo senso recita:

“se l’ouers fai sechasoun ni, per carantogiouern a sort papì”

Ovvero, se l’orso fa asciugare il suo giaciglio (cosa che starebbe a indicare tempo bello per quel giorno) per quaranta giorni non esce più.

Un altro proverbio recita

Se l’ors a la Siriola la paia al fa soà ant l’invern tornom a antrà

ovvero se l’orso alla Candelora fa saltare la paglia (il giaciglio) si rientra nell’inverno.

Universalmente presente nelle tradizioni popolari europee è appunto la favola dell’orso che, affacciatosi alla propria tana nel giorno della Candelora pronostica le condizioni metereologiche. Se fuori vi è caldo e sole l’animale rientrerà nella sua tana perché ci saranno altri 40  giorni freddi, se invece il tempo è plumbeo e nuvolo essa uscirà in attesa del miglioramento delle condizioni climatiche. in Val di Susa si dice che “Se feit cllier lo dzor de saint Ors, l’ors baille lo tor et dor pe quarenta dzor” e cioè “Se fa bel tempo il giorno di sant’Orso l’orso si gira, cioè rivolta il pagliericcio su cui dorme, e ricade in letargo: l’inverno durerà ancora quaranta giorni”.

Queste tradizioni metereologiche ricordano molto quelle del Selvadego. In tempi più remoti nei giorni di festa legati al periodo di Febbraio, un vero orso era portato in giro da un montanaro/domatore che andava da un paese all’altro facendo ballare l’orso nelle piazze

 L’orso di Segale maschera tipica dei carnevali alpini

In seguito questo uso scomparve e in alcuni paesi, per mantenere la tradizione, l’orso fu sostituito da una persona appositamente mascherata che ripeteva la stessa pantomima.  Al termine di una caccia simulata, l’orso veniva catturato e portato all’interno del paese dove era fatto oggetto di dileggi e di scherzi. L’epilogo può variare dall'”uccisione” dell’orso alla sua liberazione/fuga e ritorno alla natura. In alcune versioni l’orso, prima di essere ucciso, entra nella casa di una certa Rosetta e con lei cerca il coito, ma prima di commettere l’atto viene appunto ucciso dai cacciatori. Sono i segni di rituali propiziatori. È l’idea del dio vegetazionale, pronto a morire per poi risorgere e assicurare la fertilità dei campi. Tra le alpi svizzere, ad esempio, l’orso-selvadego, coperto di peli o fogliame, cammina per le strade con in mano rami di pino distribuendo frustate qui e lì. Sono i rituali  di Februa, cui protagonista è proprio il dio silvano nelle sue mutevoli forme ed associazioni. Siamo però sicuri che tra tutte queste sue espressioni, Santo, Animale, Eremita, essere antropomorfo non nasconda davvero qualcosa di reale? Nei tempi passati c’era chi giurava di averlo davvero incontrato.

 

Il Selvadego nel Territorio

Testimonianze della presenza dell’Uomo Selvatico e dei suoi avvistamenti le ritroviamo un pò lungo tutto l’arco alpino, dalla  Valle d’Aosta al Trentino, fino all’Appennino. Focalizzandoci solo sul territorio piemontese, leggende su questo essere le troviamo sul Col di Sestriere e a Lajetto. Nella Val Guichard, una valle laterale che si trova in Val Pellice, si racconta che, un tempo, in una grotta in mezzo al bosco dei Berna, vivesse una specie di eremita, basso, peloso e forte come venti uomini noto come “LouSarvagge”.

A Rueglio, località canavesana, si narra, nel folklore, della figura dell’Urciat, un uomo selvaggio che ha insegnato all’uomo le differenti tecniche agricole nonché l’arte casearia, l’apicultura, l’allevamento e l’arte mineraria. A Cantalupo, sito già abitato dai Liguri, doveva esistere un santuario tra i boschi dedicato a questa figura, un po’ sulla stregua del Maometto di Borgone di Susa. A Bele, nel biellese, esisterebbe proprio la grotta dove dimorava l’Om Salvei, e un’altra grotta da lui abitata si trova non lontano dal Lago della Vecchia nella valle d’Andorno. A Zubiena si trova una caverna dell’Uomo selvatico descritto, secondo la leggenda, come un burbero solitario che consigliava ai margari le tecniche per la produzione delle tome anche attraverso l’utilizzo di erbe locali fino a quando un ubriaco, per errore diede fuoco alla sua barba facendolo fuggire. Può essere solo il ricordo degli antichi culti pagani? Se ci si reca al museo del Territorio Biellese, nella città di Biella, appunto, si è accolti da una teca nella quale viene presentato al pubblico il vascapum o guascapo una sorta di mantello utilizzato dai pastori alpini fin dalla notte dei tempi e confezionato con tessuti o con erbe, come suggerisce il termine stesso che deriverebbe da vascapina, la pianta i cui rami secchi costituivano il capo di abbigliamento. Il prefisso, poi, richiama il termine germanico wass, ovvero acqua, ed infatti il vascapum sarebbe un mantello impermeabile all’acqua. Ed ecco un’intrigante ipotesi. Se i peli del Selvadego o i capelli della Maddalena non fossero altro che la trasposizione in leggenda del già citato vascapum con cui gli antichi pastori alpini si riparavano dalle intemperie? Immaginate, nelle freddi notti alpine, un pastore aggirarsi nel buio, ricoperto dal folto della sua veste, divenire il nuovo “selvaggio”, colui che, al gentile del villaggio, poteva davvero insegnare l’arte casearia della montagna, le tecniche di conservazione, le lavorazioni del miele. Forse c’è meno sacralità in questa ipotesi ma….quanta Magia alpina!

 Il Guascapo presente nel museo del Territorio Biellese, al lato raffigurazione della “Maddalena” rappresentata come “Salvaria”.

 

E’ curioso, e torniamo al punto iniziale, che il Selvadego non avesse le mani pelose. Forse perché i “peli” non erano altro che un costume? Effettivamente anche le sue raffigurazioni sembrano suggerirlo.

Raffigurazioni storiche del Selvadego

 

Il Selvadego, dunque, al di là del mito e delle spiegazioni pagano religiose, potrebbe in realtà essere davvero il ricordo di uomini che, secoli fa, vivevano davvero sulle montagne dedicandosi all’allevamento e all’apicoltura. Bisognerebbe però trovare delle “prove” anche fuori dal Piemonte, vista la diffusione del mito. Ecco che ci viene in soccorso Oetzi.

 

L’uomo dei ghiacci: il Selvadego primordiale

Nel 1991 venne ritrovato casualmente,  in Val Senales, a 3210 m di altitudine, il corpo mummificato di un uomo. Sul luogo vennero alla luce numerosi resti di pelle e pelliccia, cordini e ciuffi d’erba.  Oggi l’’“Uomo venuto dal ghiaccio” è esposto nel Museo Archeologico dell’Alto Adige a Bolzano. Il nome,  “Ötzi” deriva dal luogo di ritrovamento nelle Alpi della Ötztal. Ci sarebbero moltissime cose da dire su Otzi, ma non è questa la sede. Certamente molto interessanti sono i sedici tatuaggi di colore nero-blu, piccole linee sia parallele che cruciformi, la pietra amuleto bianca che portava al collo e una piccola borsa di cuoio contenente oggetti affilati di selce. E’ però l’abbigliamento il punto su cui soffermarci, realizzato con pelliccia ed erbe intrecciate. Una ricostruzione lo rappresenterebbe come in figura.

Ricostruzione di Otzi, l’uomo dei ghiacci. Museo Archeologico dell’Alto Adige a Bolzano

La giacca, di erbe intrecciate, permetteva, di ripararsi dalla pioggia, mimetizzarsi e isolarsi dal terreno umido. L’indumento di Otzi ricorda molto da vicino le raffigurazioni, certamente poi mitizzate, della Maddalena e del Selvadego. Anche il particolare che vuole le mani non pelose, appunto, suggerisce che più che di elementi piliferi si tratti di vestiario. Ecco dunque che potrebbe svelato il mistero dell’ Uomo Selvaggio alpino, mito e credenza, espressione di antichissimi culti pagani, forse però anche reale  pastore alpino, mastro caseario ed apicoltore probabilmente abitante delle alpi sino al secolo scorso, ovvero fino a quando il vascapo non fu sostituito dal più comune kway.

 

Per Approfondire:

Il saggio CULTI PAGANI IN PIEMONTE E VALLE d’AOSTA, scritto da Andrea Romanazzi, al suo decimo lavoro, nasce dall’esigenza dell’Autore di studiare il territorio nord-occidentale dell’Italia. Il Piemonte e la Val d’Aosta, come tutte le regioni di “confine”, conservano, più di altri territori, un Animus ed un’Anima pagana che sono la struttura portante delle leggende, dei miti e del folklore locale e che non sono mai state cancellate.  La matrice contadina e montanara ha conservato pratiche che, seppur adorne degli orpelli cristiani, affondano le loro radici nei culti pagani. Queste reviviscenze però non sono solo patrimonio locale, ma ciò che super-est di un mondo arcaico ed archetipico che è sempre stato humus per il pensiero religioso dell’Uomo. In questo saggio c’è la voglia di scoprire e far ri-scoprire, ciò che rimasto sul territorio dell’antico Pagus, il desiderio di ri-tornare e far ri-tornare il lettore, attraverso indicazioni dettagliate, tra le braccia delle Madri e degli Antenati, alla ricerca delle ataviche origini magiche dei luoghi, ove sentire ancora oggi pulsare gli antichi fulgori di vetuste energie ed oltrepassare quel velo del quotidiano che ci separa dalle divine ed eterne vie sacre. Seguendo il percorso religioso delle popolazioni autoctone prima, dei Celti e dei Romani poi, l’Autore esamina i culti animistici dei boschi, delle fonti e dei fiumi. Da Belenos ad Albiorix, da Lug a Vosegus, fino a giungere al cospetto dell’arcaico culto delle Matrone, trasformate, dal cristianesimo, nelle numerose Madonne nere presenti nelle due regioni. Viaggiando per la val di Susa l’Autore ci mostrerà chi è il dio Silvano, confuso e scambiato per il Maometto, o ancora, muovendosi per il biellese, il Selvadego. Per quest’ultimo, in particolare, viene esposta una nuova ipotesi che, partendo dal Museo del Territorio di Biella, tenta di fare luce sul mistero dell’Uomo Selvatico, appunto, l’Urciat che abita, secondo le narrazioni popolari le aree alpine. Sono poi descritti i luoghi e i rituali legati al culto degli Antenati, partendo dalle stele antropomorfe del sacro sito di  Saint-Martin-de-Corléans, ad Aosta, sino a giungere ai più vari culti litici presente nell’area, dai circoli come quello di Cavaglià alle “pietre fitte” e alle rocce coppellate. Vengono così esaminati tutti quei massi erratici che caratterizzano il territorio e su cui l’uomo ha realizzato “coppelle” o disegni circolari espressione dei culti di fertilità e procreazione legati alla Grande Madre. Ecco così che il lettore si trova al cospetto della roccia di Santa Brigida, del masso di Varena, della pietra della “Pancia” o della “vasca della Regina”, solo per citarne alcune. Le coppelle, però, non sono l’unico indizio di siti sacri e di culti millenari che si svolgevano nell’area. Ecco così che vengono esaminate le incisioni rupestri presenti dalla Val Pellice al Verbano, in alcuni casi chiari riferimenti alpini a culti sciamanici, come nel caso di quelle presenti sul Gran Faetto, a simboli stellari o solari che indicano una religiosità strettamente connessa ai cicli naturali, sino alla “barca dei defunti” che testimonia il culto degli Antenati presente a Bard o in Valchiusella. Non mancano poi Santi “Pagani”, venuti da lontano, spesso nemici dei Serpenti come nel caso di quelli presenti a Bastià, Novalesa od Arona. Troviamo poi la Maddalena, tramutata in orsa o Salvaria, espressione della Morrigan, re Artù e le numerosissime lance e spade spezzate gettate come offerta alle divinità dei fiumi, Lancillotto e la Dama del Lago di Candia canavese, Ypa. Quest’ultima è solo uno dei tanti esempi di culto delle acque presente da Almese alle grotte di Ara dove, ancora fino al secolo scorso, si svolgevano arcane pratiche magico-rituali, come quella di raccogliere i sass bianc, ovvero le quarziti del torrente Magiaiga, per trarre da queste pietre energia e benessere o per accrescere la fertilità e richiamare la guarigione per sé e per i propri bambini. Da cornice a tutto questo, fonti della giovinezza, ponti del Diavolo, luoghi del sabba dove le streghe locali, le Masche, solevano riunirsi, processi inquisitori e formule di guarigione. Un viaggio nel Piemonte e nella Valle d’Aosta magica e misteriosa ancora oggi visibile al viandante che vuole percorrere sentieri mai dimenticati.

 

 

 

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