di Andrea Romanazzi
La Lombardia è una delle regioni ove il fenomeno stregonesco è più documentato attraverso il furore inquisitorio e la conseguente persecuzione nei confronti delle strie.
Le cause di questo violento attacco sono davvero molteplici, da una parte tutta le regione era intrisa dai ricordi delle antiche credenze popolari sopravvissute all’era del paganesimo e che dovevano essere cancellati: reminiscenze di antichi culti ove le divinità si sposavano con le forme naturali generando la credenza in spiriti, folletti ed altri esseri fatati, genì locali che dimoravano monti, boschi, fonti e fiumi. Ecco così che tra la gente del popolo non mancavano di circolare storie sullo spiritello che spegneva di continuo la candela del prete Ciroli di Albosaggia intento nelle sue preghiere, antica leggenda raccolta da un antico manoscritto del ‘700, o ancora il genio che slegava i fasci di legna che l’alpino portava sulle sue spalle[1]. Sono sicuramente il ricordo di un uomo che viveva a stretto contatto con la natura e le sue divinità che facevano così sentire la loro presenza. Numerose erano poi le creature capaci di assumere le sembianze di uccello e rapace del tutto simile alla strix latina, la dona del gioc di Albosaggia, Morbegno, e di molti altri paesi della valle è una donna che può, e ancora la cabra besola, anima dannata costretta a cantare tutta la notte.
Dall’altra la forte persecuzione religiosa posta in essere da preti, papi ed inquisitori aveva il fine di cancellare tracce di ogni tipo di “pensiero distorto” e dell’eresia della Riforma Luterana geograficamente davvero molto vicina. Così Milano e la regione diventavano rifugio di ogni specie di eretici, e ancora oggi magisti e uomini dall’oscuro destino abitano la città. E’ fervido, ad esempio, il ricordo del Pret de Ratanà, il prete di Ratenate, morto nel 1941, che esercitò a Milano prima in piazza Fontana e poi a Baggio. Il sacerdote, il cui carisma era fortemente conosciuto, praticava magia naturale ed effettuava rituali dal forte sapore magico. La fama iniziò ad ampliarsi, il parroco guariva non solo semplici malattie, ma anche mali cronici ed inguaribili. Così alla sua morte numerosi furono i “seguaci” che, ancora oggi, si raccolgono attorno al busto bronzeo presente al Cimitero Comunale di Milano.
Questa Aura magica mai cessata obbligò i Domenicani appunto ad insidiarsi prima a Como, poi a Morbegno, per poter in qualche modo bloccare il moltiplicarsi delle eresie.
Omphalos dei rituali stregoni lombardi era il Tonale, l’infernale passo delle ridde ove ancora oggi si annidano leggende narrate dai più anziani. E’ in questi misteriosi luoghi che dimoravano le Zobie, termine locale che indicava appunto le streghe. Sembrerebbe che tale etimologia derivasse dal termine “giobbia” e cioè giovedì, il giorno in cui si teneva il sabba, ricordo che è ancora forte in quel di Brescia ove si viveva, in alcuni borghi il “gioedè de le bele”, cioè un “giovedì delle belle”, una festa collettiva a cui partecipavano tutti gli abitanti. Vari sono anche i luoghi ove si tenevano i sabba delle zobie, così in val Corteo, le streghe si radunavano presso il Corticello, al monte Galleno, proprio ove la strada si biforca per Sintit[2], o ancora nei dintorni di Brescia in località Fornace, insieme a al monte di Conche vicino a Nave, nel bosco vicino Gardone e sul Gaver[3].
Numerosi sono i processi uinquisitoriali tra le cui carte si narra come, ogni giovedì, le streghe si recassero al sabba presso il Mella o appunto sul Tonale. E’ qui che incontrano la Signora del Zuogo, una bellissima donna vestita di velluto nero con una croce in mano che poi sarà calpestata dai suoi seguaci.
Dappertutto, in una visione apotropaica del gesto e del segno, vengono realizzate ed incise croci e altre simbologie cristiane proprio ad esorcizzare quei tremendi luoghi del diavolo, in una fenomenologia che si ripeterà e che ritroveremo in molte altre regioni italiane ove fioriscono leggende su Santi che sconfiggono il demonio proprio in questi particolari luoghi. Così cappellette ed edicole votive vengono alzate nei crocicchi, su fienili e stalle vengono incise croci proprio per allontanare le streghe.
Molti altri però erano i “luoghi del sabba” come ad esempio il Painale e la valle di Togno. A Ponchiera, piccolo borgo a tre chilometri da Sondrio sul fiume Mallero, si narra la storia di Lucia Bettini, una giovane ragazza del paese che, muovendosi di notte verso Sondrio, al passare del dosso di Moncucco, nei pressi delle rovine del l’omonimo castello ancora oggi ricco di leggende, vide della gente danzare e partecipò anch’ella alla festosa ridda. Terminate le danze, ricevette da un bellissimo giovane una candela per illuminare il suo rientro a casa, e una volta giunta, ripose in un baule. Il mattino dopo aprì lo scrigno e con suo sommo stupore vi trovò un bambino morto.
Da quel momento il Moncucco divenne luogo degli scambi con il diavolo. Numerose leggende vogliono che sia il demonio in persona ad offrire alle donne che partecipano al suo sabba delle fiaccole fatte con le ossa dei defunti, come descritto anche dal Michelet e dal Del Rio.
Tra i boschi attorno alle cascate della Troggia, sopra Inobbio, si narrava la presenza di streghe e stessa cosa, come può facilmente appoggiare la toponomastica avveniva nel “bosco delle streghe” a Perledo[4].
Importante luogo legato ad una tradizione stregone è Sostila, in val Fabiolo, nel sondriese.
Sostila è collocata sul fianco di una montagna domina un’ampia sella erbosa, nella più ampia Val di Tartano.
Era qui che la tradizione vuole si radunassero per il loro sabba le stereghe che, sempre la tradizione, vuole abitassero proprio nel borgo. Tra le numerose storie vi è quella di un giovane di Sostila, che aveva iniziò a frequentare una famiglia costituita da una vedova e da tre figlie graziose, che viveva alla contrada dell’Era. La trattazione avveniva di buon grado ogni giorno della settimana tranne che il giovedì. Il ragazzo si incuriosì per gli strani appuntamenti delle donne, così decisa di nascondersi nell’orto e aspettare la sera. Ecco apparire la prima sorella, la più giovane, e poi le altre due, ed infine la madre in preda ad una frenetica eccitazione.
A ciascuna delle quattro donne cominciò a torcersi il collo ed il capo facendo delle rotazioni di 360°. Fino a staccarsi con il busto che continuava però a muoversi come pieno di novella vita. Le donne si stavano facendo belle e dedicavano le loro cure ai capelli, passandosi a turno una spazzola, con la quale se li rassettavano ed acconciavano con grande attenzione. Le quattro altri non erano che streghe che si preparavano al sabba sulla sommità piana del Crap del Mezzodì, appena sopra Sostìla, oppure nei boschi del Culmine di Dazio
Ancora il sabba si teneva nel più profondo burrone del torrente Rogna[5], nei pressi del comune di Teglio. Il luogo è meglio noto come Valle Magada, cioè Valle della strega, da Magada, tipico nome dato ad Albosaggia alle strie, incastonata fra Castionetto di Chiuro e Teglio perché è qui infatti che ogni primo giorno dell’anno si radunano le streghe per cibarsi delle interiora dei bambini rapiti durante la notte. Per alcuni il vicino borgo di Tresenda prenderebbe il nome proprio da Tregenda.
Pur essendo di tono inferiore dei luoghi fin ora citati, altri posti erano considerati un ricettacolo di streghe e demoni. Così il prato di Gambaro, i castelli di Moncucco e Grumello, il monte Camino vicino a Sondrio, il prato di Privilasco sopra Poschiavo e alcune porzioni delle rive l’Adda, erano considerati luoghi demoniaci.
A darne notizia fu padre Bernardo Rategno da Como (attivo come inquisitore all’inizio del XVIsecolo) “un tale fu per caso visto e riconosciuto poco prima del sorgere del giorno in un certo luogo da due persone fededegne, nei pressi di alcuni vigneti non lontani da Ponte, verso l’Adda, partecipare “al gioco delle streghe”.
La “signora del gioco” è un’immagine ricorrente nelle confessioni che le donne accusate di stregoneria, alla fine del XIV secolo, rilasciavano nei processi inquisitoriali.
La Dea-Strega, era nota con molteplici nomi domina, Erodiade, matrona, madonna Oriente un po’ in tutta l’area italiana Settentrionale. Sicuramente si tratta di una rivisitazione di culti pagani dell’Europa centrale e nordica legati ai rituali di fertilità e procreazione e che adoravano una figura femminile poi trasformata prima in “Grande Maestra” e dunque in strega.
Nel bergamasco è nota come Dona del Zoch, essa dimorava il monte Tesoro e il Pralongone. Ancora luoghi del Sabba lombardo erano il Crappo del Castello, il Castello di Moncucco e di Grumello, il prato di Gombaro, citati nei processi del 1634. Ancora nel 1646 Val Mazzone, Campedello, Scatono, Forato, e le vigne del già citato Ponte[6]. Era invece sul Monte Camino che, secondo la tradizione, si vedevano “…un gran focho sortito et non simile al nostro…” ove streghe e stregoni si univano carnalmente con il diavolo dopo aver danzato forsennatamente.
Per descrivere in maniera esauriente il fenomeno della stregoneria in Lombardia non ci si può esimere dall’esaminare i processi, in realtà, documenti fortemente curvati nell’ottica inquisitoria che, se non altro, ci possono dare un’indicazioni di luoghi, date e nomi che hanno caratterizzato le streghe lombarde.
Anche in questo caso sarà la Valtellina centro nevralgico delle manovre inquisitorie atte a cancellare ogni traccia della stregoneria locale.
Basta così spostarsi a Sondrio per trovare documenti che testimoniano il timore verso la strega nel luogo come nei registri mortuari della città. Si narra come nel palazzo Pretorio di Sondrio esisteva una prigione chiamata “delle streghe” “la quale era una buca del tutto cieca”[7].
Ad opera del temibile fra Modesto Scrofeo l’8 Ottobre 1634 si segnala la morte sotto tortura di Domenica Volarda di Torre S.Maria “Die 8 octobris Dominica Volarda in carcere demortua Antequam sententiam mortis executionis demanderetur ad mateficiorum imputationem“, mentre una certa Maria Salvadora si ucciderà nelle prigioni mentre Margherita di Albosaggia morirà di parto in carcere. Un’altra Margherita, accusata di partecipare a diabolici sabba “nel loco dicto del Tonale” sarà condannata a morte nel 1523 dal già citato Fra Modesto, “da poij la dicta Catelina monta a cavallo sopra uno bastone unto de un certo unguento che la dicta Margherita non sapeva da qual compositione fusse facto, supra il qual bastone la dicta Catelina fece anchora montare dreto de leij la soprascritta Margarita, et cossì tutte doij furno portate nel loco del Tonale, dove se faceva el zogo del barilotto”[8].
Nel 1518 si parla di un processo a Pedrina Ghera, sospettata di eresia e per lo stesso motivo sarà inquisito anche Bartolomeo de Scarpatetti o Scartapegio, “Bartolomeo Scarpatetto, de sette anni, fu condocto parte per man et in parte in brazo per la dicta Iohannina sua amita al zogo del bariloto che se faceva in Tonal”[9] e qui che il giovane, che aveva l’età di sette anni, portava le ostie rubate durante i riti sacri “…si trasse di bocca l’ostia e la portò al barilotto del Tonale, ove la schiacciò con i piedi, la sputacchiò e scompisciò a vituperio…”[10]. L’uomo, ritenuto potente stregone fin da piccolo viene arso sul rogo il 28 settembre 1523, nella Piazza Campello di Sondrio.
Era invece del comune di Chiavenna Margherita Tognona, inquisita per aver partecipato al barilot e per aver stregato bambini e uomini. Secondo le storie che gitravano sul suo conto, ella, a cavallo di una volpe, si recava al cospetto del diavolo. Dopo che lla donne fu “…raso et tagliato i capelli per tutto il corpo et così tutte le ongie…”, spogliata per verificare che non nascondesse amuleti, fu sottoposta a tortura della corda dopo la quale in “confessioni spontanee”, descrisse come il diavolo era Lucifero e che aveva negato Dio e la Vergine. Messa al bando “…fu condotta sino alla Riva di Chiavenna, fatta imbarcare sino alla volta dell’Archetto, dove sbarcata, fu vista gagliardamente camminare alla volta delle tre Pievi del lago di Como…”[11].
Altro luogo stregone era, e per alcuni versi èconsiderato anche oggi, Lezzeno il paese delle streghe, da sempre infestato da quella che veniva considerata la “mala compagnia”. Qui, come descrive il Cantù, ogni anno 1000 donne venivano suppliziate e fino al 1764 si usò ardere, davanti al convento di San Giovanni in Pedemonte, una strega.
Molteplici erano, e in realtà ancora oggi sono, i luoghi magici e stregoni di Lezzeno.
Ecco così che l’Antro del Pipistrello, presso Cascino d’Erba, testimonierebbe, fino a tempi recenti, il suo essere centrum per riti magici, stesso destino poi accomuna Magreglio nel Büs de la Stria, la Grotta del Fao a Barni, quelle del Bisbino o in Tremezzina e il gigantesco faggio di Pissalonga ove, secondo la tradizione, si radunavano le streghe nelle notti di plenilumio per le tragende.
Altro luogo stregato è il Büs de le Strie, presso Costa-Mignone in Valvestino, un pozzo di 15 metri particolarmente temuto dagli abitanti della zona convinti che sia ancora abitato dalle streghe.
Altro legato ala tradizione stregone è Ponte in Valtellina. E’ qui che, al cospetto di Fra Bernardo “…venne condotta dai genitori una ragazzina dagli otto anni ai dieci di nome Atonia, la quale in presenza di essi e di altri gli narrò che una notte, tormentata da sua zia Maddalena, s’alzò dal leto e fu portata insieme ad essa in un luogo distante molto da Ponte, dove vide e conobbe più persone che danzavano in un prato con la zia…”[12] Simili descrizioni sono presenti in racconti diffusi a Berbenno e Chiavenna e Mendrisio.
Molteplici sono ancora le tracce della stregoneria riscoperte attraverso le testimonianze inquisitoriali, una lettera del cardinale Carlo Borromeo, datata 1569, avverte la Santa Inquisizione romana di aver imprigionato a Lecco “…alcune femine per strie e farsi hora quatro hano confessato d’esser stato a quel ballo o gioco diabolico et confessano d’haver maleficiato et fato morire creature et bestiame et molte altre scelleragini…”[13].
Stessa sorte subirono altre donne della Brianza ed in particolare dei borghi di Olginate, Galbiate, Incino di Erba, ed Oggiono[14], in quest’ultimo luogo ad essere inquisito è un uomo accusato di incantesimi e stregonerie. Ancora nel 1646 a Piuro vennero giustiziate 5 streghe, Giacomina Riveda, Orsola Rogantina, Orsola Tignola, Anna Ponchina, e Orsina Gino, mentre l’anno seguente Margherita Violanta e Giovannina Comarina[15]. Nel 1796 avvenne il processo a Margherita Lazzari.
A Porlezza nel 1464 i cittadini si rivolsero al duca Francesco I Sforza affinché li liberasse dalle streghe mentre a Bellano, nel 1457, la popolazione convocò Bartolomeo da omate per debellare le cattive donne che uccidevano i bambini e facevano “…altre brutte cose…”.
Nel Lecchese si dice che la prima strega bruciata sul rogo fu tale Stefania da Badia e sempre nella cittadina nel 1568 si verificano atti di stregoneria, che portarono alla condanna di Caterina Galoppa reputata una fattucchiera.
Sarebbe impossibile riuscire ad elencare tutte le donne accusate o giustiziate per stregoneria, solo a Livigno saranno giustiziate Barna Motta, una certa Caterina, Caterina Zanardi, Cristina Motta, Cristoforo Rampa, Domenica Motta, Giacoma di Dosso Bonadei, Margherita moglie di Bernardo Giordani, Margherita moglie di Giovanni Motta[16], mentre a Molina viene condannata la madre di Giacomo Bonzi.
Continuando il nostro breve excursus a Poschiavo troviamo una certa Caterina Rossi, ritenuta eretica e strega. La donna affermava di essersi cibata per ben 12 anni solo di ostie consacrate e di parlare direttamente con Cristo e con la Madonna. Il Vescovo non diede molta importanza al caso tanto che, dopo esser stata rinchiusa nella Torre della Pallata di Brescia, sarà condannata, nel 1643, soltanto a dieci anni di carcere[17].
Successivamente, nel 1697, stessa sorte toccherà a Caterina Semaden moglie di Giovan Antonio Lardelli. A Semogo, località che esamineremo più dettagliatamente in seguito troviamo una certa Domenica Mottisella, e ancora Domenica Pradella, detta Castelera, Maddalena moglie di Donato della Sciagona, Margherita moglie di Cristoforo Ponti, Tommaso Bormolini di Trepalle e Vitale di Filippo Casteleir[18].
Ed ancora ecco che nel 1523 vengono bruciate in piazza Campello ben trenta donne e altre otto seguiranno stessa sorte nel 1634, Salvadora di Mossini, Margarita di Albosaggia, Domenica Volardi di Torre e Maria Giovanna di Piateda. A Faido nel 1432 una vedova confesserà davanti a fra Giovanni da Abbiategrasso di chiamare con formule magiche, insegnatele dal padre, il diavolo, mentre a Chiuro viene condannata la filatrice Marcolfa, rea di aver lavorato di Domenica, giorno consacrato al Signore e per questo irrispettosa della religione, mentre ancora ad Albosaggia la strega di turno si chiama Magada. Centro importante dal punto di vista inquisitoriale è invece Morbegno, ove già nel 1432 è segnalata la presenza di fra Ubertino da Vercelli[19]. In questi anni sarà condannato così un certo Baldassarre Pestazzolla, accusato a sua volta da una certa “Bira”, inquisita, che fece il suo nome in quanto assicurata da Giovandolo Peverelli di essere aiutata nella scarcerazione se avesse tirato nel processo anche il pover’uomo. Il 24 Marzo 1438 viene arsa Ganzina detta Barzia di Gerla “combusta pro crimine heretice pravitatis…in Serta apud locum iustitiae”[20].
Insieme a lei, il domenicano fra Cristofora da Luino fa inquisire altre 13 donne, accusate di “indovinationis et alterius malefitii” e “cuiusdam suspectationis conversationis bone societatis seu diaboli”, tutte successivamente rilasciate, ed anche un ecclesiastico, Gapare di Parazo[21], parroco di S. Pietro a Dubino, figure non esenti, come vedremo anche in altre regioni, dalle accuse di stregoneria. Il prete sarà invece allontanato dal paese per 10 anni. In ricordo dell’esecuzione di Ganzina, in contrada Serta vi è un’antica casa nota popolarmente con il nome di casa di Stria de Serta, sopra la quale ancora oggi è ben visibile una croce[22].
A Lecco solo nel 1569 sono otto le streghe bruciate, su richiesta dell’Inquisitore Rattizzi, che le accusava di radunarsi per i loro sabba demoniaci nel borgo di Versario ove esisteva un edificio noto come “Cà de strii”. Le donne, tra cui una certa Bissaga, cioè signora dei serpenti, furono successivamente condotte a Milano e arse sul rogo nel 1589.
Anche Varese non rimane indifferente al dilagare della stregoneria bruciando nel 1579 Marta d’Albiolo e nel 1588 Lucia di Azzate, mentre fu Mantova, sotto Vincenzo Gonzaga, ad evere nei primi anni del 160 il triste primato di perseguitare le streghe come testimonia la lettera del senatore Teodoro Pendasi al Duca:
Diedi già comto a V. A. S. con un’altra mia di Paolo Bellaroba che haveva confessato di haver fatto molte stregane, homicidi col mezzo di fatture diabolìche et altri enormìssimi delitti. Hora parimente con la dovuta humiltà et riverenza vengo a darle conto d’un’altra compagna detta Paola nominata Anna Cantalona, la quale ha confessato di essere anch’essa da molti anni in qua andata al ballo diabolico portata dal diavolo et d’havere fatto delle stregherie, guastando alcune creature e altre sanandole per arte del demonio, et tale arte ha anco insegnato a due sue figlie havendo promesso al demonio di dargliele et anco ad altre donne sue compagne. Ne sono poi carcerate altre dodici de quali alcune sono più, altre meno inditiate et perché si è atteso a formar il processo informativo che è assai grande per li molti capi di maleficii che si scoprono sopra de quali sono stati esaminati molti testimoni et tuttavia se ne esaminano, non ho potuto venire ancora alla totale spedìtìone delle sodette carcerate ben spero di farlo in breve. Non ho fatto ancora carcerare le figlie della detta Anna, né altre inditiate perché non vi è,, luogo in priggione da potervi mettere tante persone et perché credo sia bene spedire prima quelle che vi sono et intanto tenere la cosa con secretezza. Stando lì novi inditii, che sopravennero contro Vittoria Oliva, de quali diedi conto a V. A., fu di novo essaminata essa Oliva con rigoroso esame ma non si è potuto cavarne altro da lei.
Sarà sempre nella città che viene bruciata, sulla piazza del Duomo, Jonadith Fraschetta[23], strega et maliarda di 77 anni, forse accusata, più che per stregoneria, per il suo esser ebrea” mentre qualche decennio prima lo stesso luogo fu teatro del processo contro Giuliano Verdena, abile tessitore accusato di compiere arti magiche. Dagli atti processuali sembrava usasse i bambini per portare a termine le sue diaboliche operazioni, così si narra che costringendoli a vedere in un vaso ricolmo d’acqua, questi erano testimoni della processione dei morti, per poi scorgere una figura isolata che avrebbe rivelato all’uomo “…il potere delle erbe e la natura degli animali…”[24]. Era sicuramente la Signora del buon gioco
E’ però tra le mura della Biblioteca Civica di Bormio, in Palazzo de Simoni che, tra le impolverate carte, troviamo gli atti di processi delle streghe “quaternum inquistitorum”.
Sarà infatti in questo bellissimo paese che saranno condannate moltissime persone in particolare tra il 1483 e il 1485, il 1630-31 e il 1672-77. Il 22 agosto 1485 vengono bruciate cinque donne ree di stregoneria “…De anno MCCCCLXXXV, die lune XXII augusti combuste fuerunt ad locum iustitie quinque malefice sue strie, quorum nomina sunt hec, videlicet: Agnes olim uxor condam ser azii Parolai de Grassunt hec, que striavit Ypolitam filiam meam in eius balneo, Antoniola olim uxor Iohannini Zanni Marioli, Dorotea olim uxor dominaci Roxi, Patarina uxor nunc condam Iohannis del Caprino et Iohann filia dominaci Careti Groxina, que erat iuvenis et pulcra…”[25]
Nel 1629 a Bormio imperversava la peste, era espressamente vietato che stranieri giungessero nel contado pena la morte, in questo lugubre scenario un contadino la cui moglie era gravemente ammalata accusa di stregoneria tre donne tra cui una certa domenica la Chierica. Sotto tortura ecco che le accuse si spandono a macchia d’olio, alla fine più di trenta persone saranno giustiziate nel tristemente famoso Pra della Giustizia. Il fosso ove furono deposti i cadaveri, la cui area oggi è trasformata in campi coltivati, è ancora oggi ben visibile, vicinissimo all’ex polveriera. Altre trentasei persone, perirono nell’ultima ondata, ma non si sa bene quante furono le singole condanne. E’ proprio in questo periodo che perirà Giovanni Marendin la cui storia merita una più dettagliata trattazione.
Come nel caso di molti altri processi come quello di Nogaredo, anche questo processo nasce da liti e battibecchi. Lo scenario si svolge a Pedenosso, il 12 Febbraio 1673 Giovanni Merenda, detto Marendin, si reca a casa della sua amata Maddalena Giordani. In realtà il ragazzo non è ben visto dalla di lei famiglia, qualche mese prima la madre del giovane è stata accusata di stregoneria e condotta sul rogo. Ecco così che la sorella maggiore di Maddalena, Maria Giordani, vedendo in casa sua il ragazzo, lo intima ad allontanarsi additandolo come figlio di strega. “…il diavolo ti haverà menato qui. Li miei defunti non hanno a caro che la mia famiglia si intrighi con una sorte di gente in sospetto di stregoneria come la tua…”[26]
Marendin si allontana subito rassicurando la donna ma ecco che questa inizia a sentirsi male, provando “un conturbamento per tutta la vita et uno stordimento che quasi non sapeva dove fosse”[27]. Si insinua il sospetto di stregoneria, la donna crede che sia stato Giovanni, attraverso il tocco, a stregarla e maledirla.
In realtà la ragazza è molto apprensiva a potremmo dire ipocondriaca, anche lo stesso malanno dura pochissimo, ma non è questa la “verità” che può colpire gli uomini del tempo, ed ecco che l’accaduto è raccontato subito al medico e al parroco del paese. La donna in ogni caso si fa benedire per allontanare da lei gli spettri e il demonio
“…ti impartirò una o due benedizioni con i rituali dell’esorcizzazione e tu prega e abbi molta fiducia nel Signore…”[28].
La notizia dei tocchi stregati di Marendin circola molto rapidamente nel paese, la stessa Maria Giordani inizia a pensare di aver esagerato e voleva chiudere il discorso sull’accaduto ma in lei si insinua un nuovo pensiero. Dure erano le pene per chi conosceva od individuava una strega e non la denunciava. Il timore di esser lei stessa inquisita la fa tremare, il dramma si sta per consumare, su consiglio di Giacomo Romani, Consigliere presso il Magnifico Consiglio di Bormio e in qualche modo imparentato con la famiglia, la donna denuncia Marendin. il 2 Marzo 1673 un drappello di uomini giunge a Semogo, ove in via Runi si trova la casa di Giovanni, e lo arresta.
Inizia il processo ed ecco che le reali motivazioni di tanto subbuglio vengon subito fuori
“Sino a quest’estate cercai per moglie una figliola di Giordan del Paolin per nome Maddalena. Allora tutti erano contenti ma poi mi successe quel flagello per la carcerazione et susseguente condanna a morte di mia madre et io vedevo che li parenti andavano cercando di disaminare queste cose. Poi suo padre et il signor curato facevano fracasso che non volevano che succedesse questo matrimonio. Io dissi a loro che se non volevano per quanto stava in me, lasciassero pure stare e che pensassero loro a persuadere la Maddalena…Dopo tanti rumori una sua sorella, la Maria, è andata sparlando di me molte cose dicendo che le ho fatto male, che l’ho toccata come dice lei. Tutti sanno che donna è questa, come piglia la rabbia, che cosa fa. Ha fatto persino citare suo padre in pretura…”[29]
Ecco il reale motivo, ecco la cagione di questo tributo di sangue che colpirà Pedenosso.
Durante l’interrogatorio l’imputato più volte nega sia il “tocco” a Maria, sia qualunque altro maleficio ma anche in questo caso la confessione non aspetterà molto ad arrivare, la corda farà sentir presto i suoi effetti. Tirato su per le ossa ecco che subito tra i dolori si scioglie la lingua e così ecco che dichiara “…l’ho toccata con l’intenzione che le venisse il male…”[30] usando un’erba che gli aveva consigliato un pastore “…tocca chi vuoi o chi puoi con quest’erba che lì verrà male…”[31]. Marendin narra dei suoi incontri con il Diavolo “…Mi è comparso et grande era, più grande che non è un homo più grande che mai sia et pareva che lo conoscessi…”, delle sue partecipazioni ai sabba tra le Torri di Fraele le cui rovine sono ancora oggi visibili e di tutti i mali fatti.
“…Una volta andai giù per una costa di Nicolò Scalotta per pigliar torte (piccoli arbusti). Pigliai una di quelle torte et ,diedi forte in terra con il calcino pronunciando le parole solite con l’intenzione che venisse giù una rovina. Da lì a pochi giorni la rovina cadde infatti nello stesso preciso luogo. Erano però luoghi di pascoli dove ne cadevano anche altre volte…”
“…Ho fatto maleficio a Giovanni Dossi: gli gettai ad- dosso polvere dicendo che potesse morire in nome del Diavolo. Credo sia morto…”
“…Andai da Abbondío de Baron per farmi dare un paio ,di cospi e siccome lui non li aveva fatti, li buttai polvere giù per la schiena et dissi che in nome del Diavolo non potesse mai più far cospi. Da li a non ‘so che di venne da me, ma non disse niente; non so che li accadesse. Non riesce tutte le volte…” [32]
Il 5 Dicembre 1673 viene emanata la sentenza
Essendo stati necessitati il nostro Ill.mo Sig. Podestà meritatissimo di Bormio et Signori Reggenti di procedere contro Giovanni Marenda detto Marendin per lamenti et indizi risultanti contro di lui di molto grave delitto commesso a Pedenosso et essendo egli stato capturato d’ordine del consiglio, come presunto reo di tale delitto et avendo, nelli tormenti come fuori, giuridicamente confessato di essere stregone et malefico. Idem di avere ampiamente con il sedere conculcata la SS. Croce, rinnegato Dio Nostro Signore et in suo loco chiamato et adorato il diavolo per suo Patrono et Signore. Pertanto esso Motto Ill.mo Signor Podestà, Signori Reggenti et Magnifico Consiglio, considerato il processo, la gravità dei delitti commessi per esso Marendin, in sprezzo alla giustizia, contro l’onore di Dio, della SS. Madre et suoi Santi et pregiudizio della vita di tante persone innocenti et loro beni, aderendo a quello che dispongono le leggi divine et umane; invocato il nome Santissimo di Dio, dal quale dipende ogni retto giudizio, hanno per definitiva sentenza, sentenziato, decretato, concluso et pro- nunciato et in vigore della presente sentenza, sentenziano et decretano che detto Giovanni Marenda, come pubblico stregone, apostata et malefico, reo di tanti delitti, sia condotto nelle pubbliche piazze et letta la presente sentenza alla presenza del popolo. ivi congregato al suono delle campane, sia consegnato al carnefice et condotto al luogo Santo della Giustizia, ivi sia decapitato in tal modo cbe il capo si separi dal busto et cbe muora et il suo corpo incenerito et li suoi beni confiscati et applicati alla comunità”[33]“letto l’intiero processo della sua causa et li delitti da lui commessi et altre cose, come al processo, degne della cognizione del Magnifico Consiglio, ha pronunciato la sentenza di morte contro Giovanni Merenda, detto Marendin di Semogo et distesa nel libro sentenze”[34].
Come in tutti gli altri casi la sentenza viene eseguita al Pra della Giustizia, una località isolata a due chilometri da Bormio, non lontano dalla Chiesa di San Gallo. Ricostruita nel 1400, l’edificio è ben visibile a causa dell’alto campanile ottagonale che si staglia verso il cielo. E’ qui che, in un locale adiacente alla chiesa venivano fatti soggiornare gli imputati che sarebbero stati giustiziati a morte il giorno seguente e qui soggiornerà anche Marendin. Altro luogo tristemente famoso nel contado era il sasso del rogo, un grosso sasso vicino Bagni Nuovi a tre chilometri dal monte Bormio. Sarà questa la sede di più di una quarantina di esecuzioni di un proceso svoltosi tra il 1485 e il 1486 nella Arcidiocesi di Como da Nicolò da Castello. Come sempre gli accusati erano colpevoli di aver adorato il diavolo ed effettuato malefici e stregonerie. il posto era troppo scomodo per i carnefici e alla fine pochi furono i giustiziati tra queste rocce. Oggi il masso e i muretti sopra realizzati non esistono più causa l’alluvione del 1962. Ma torniamo a Marendin. Il 20 dicembre 1673 Giovanni Marenda sarà giustiziato, ad un anno giusto dalla morte sul patibolo della di lui madre. Secondo Bartolomeo Spina, nella sola diocesi di Como, poi, superava ogni anno i mille, e molti di questi finivano sul rogo “…millenarium saepe numerum excedit multitudo valium, qui unius anni decersu in sola Comesi Diocesi ad Inquisitore, qui pro tempre est, eiusque Vicariis, qui octo vel decem aut plures sempre sunt inquiruntur et axaminatur, et annis poene singulis plusquam centum incinerantur…”
E’ in questo borgo che si svolgerà il famoso processo a Benvenuta detta Pincinella[35]. I Diari riportano che Benvenuta era una donna di circa sessant’anni, già conosciuta come maliarda per attività precedente al suo arresto e già condannata a rimaner inginocchiata sul sagrato del duomo del paese pere numerose domeniche in modo da scontare i suoi crimini.
Fu accusata di professare le arti magiche, ma soprattutto di partecipare al famoso Sabba sul Tonale ove veniva trasportata grazie all’uso di un magico unguento “…col qual subito onzevo il bastone el diventa una capra o un cavallo, o qualche altra sorte di animali, et se leva in aire con tanta prestezza che per el vento che me da in el petto qualche volta non posso piliar fià…”[36] La strega era già stata arrestata in passato e se l’era cavata abiurando il rituale satanico, fu arrestata a Navi il 24 Giugno 1518 e condotta dall’inquisitore Piero Albanese a Brescia “…ne le persone di eretici et strige…”.
Catturata, depilata e accuratamente perlustrata per individuare il marchio satanico, per evitare la tortura confessò che a 24 anni andò con una amica, una certa Fiore, a rubare un pò d’uva, fu lungo la strada che si imbattettero in due uomini “…con vesti longhe come monaci…” il primo, Martino, si unì a Fiore, il secondo, Giuliano, a Pincinella. Le donne furono portate sulle rive del Mella e lì parteciparono al sabba.
“…et quando azonsero al ditto luogo sentirno una grande moltitudine de sonatori e zente che balavano lì al calchario over torchio. Allora ditta Maria disse a questa dal Fior e a Benvegnuda queste parole – Vaga de sopra via – …et sì le consegnò a doi demoni…li quali demoni tenendole per le man, le menò attraverso di terra in tera, tanto che le condussero a la riva d’un fiume, il qual se adimanda la Mella et lì ebeno da far con essi carnalmente…”[37].
Da allora Pincinella si recava al Sabba ogni giovedì, ove “…se danno la mano et fanno un ballo tondo el quale se adimanda un rigoleto et le pive et altri strumenti sonano che mai fo aldito il meglio…”[38]. Giuliano le diede anche un unguento magico che avrebbe trasformato qualunque bastone in un capro che l’avrebbe condotta al barilotto sul Tonale e che le avrebbe permesso di aprire qualunque porta per rapire i fanciulli che, arrostiti, sarebbero serviti per i banchetti.
Confessò che per fare incantesimi amorosi utilizzava arroventare un chiodo nuovo sul quale poneva dei ramoscelli di olivo intrecciati e benedetti, pronunciando parole magiche.
Pincinela fu condannata al rogo “…questo è il processo di Benvegnuda detta Pincinella, di terra di Navi di Valcamonica, striga, qual fo brusata…”.
La magia, come vedremo nel Friuli, non era estranea, poi, all’area ecclesiastica. In quest’aree di confine, infatti, spesso la linea di separazione tra religione, superstizione e paganesimo è davvero molto sottile, ed ecco così che il parroco di Olate, Martino Longo[39], nel 1569, chiedeva il permesso di sottoporre un suo parrocchiano alle cure di un guaritore di Vercurago. Spesso, poi, sono gli stessi sacerdoti a diventare “stregoni”, e così a Nibionno, il curato Antonio Nobile[40], per esorcizzare temporali usa benedire le nuvole o suonare le campane della chiesa “sunà ‘l temp”[41], mentre padre Simone di Valmadendra[42] era stato accusato di eresia.
Come accennato all’inizio, poi, Streghe sono presenti anche nel capoluogo lombardo. Ancora oggi storie e piccoli aneddoti ricordano il tempo in cui Milano era una delle “capitali” dell’Inquisizione. Così si narra che la casa in Via Laghetto, al civico 2, denominata “cà Tencitt”, nome che deriva dai facchini trasportatori di carbone che, a causa del loro volto sporco, erano chiamati appunto “tencitt”, fosse dimora di una grande fattucchiera[43], mentre la zona detta del Verziere sede del mercato ortofrutticolo era dimora di “malie” e fattucchiere. Sicuramente la credenza era legata al fatto che in questo quartiere era molto diffusa la prostituzione, “mestiere” spesso legato alla stregoneria “streghe eran considerate anche quelle che si dedicavan alla scellerata professione di meretrice e che comunque non conducevan certo vita morigerata”[44]. Sarà proprio per esorcizzare questo luogo che sarà collocata, in Piazza del Verziere, un’alta colonna, ancora oggi visibile, con in cima una statua di Cristo Redentore. Molti erano poi, come vedremo, i luoghi di torture “coram populo”, come piazza dei Mercati, il Vigentino, San Crustoforo, il Carrobio, la Rocchetta, e ancora porta Vercellina, Piazza Castello, Santo Stefano in Bolio, piazza Duomo e quello che è conosciuto con il nome di Bordello, tra il Verziere e San Zeno, ove appunto prima si trovavano le carceri. Le streghe venivano normalmente messe al rogo in piazza Vetra come nel caso di Elisabetta d’Arienti, detta “fa bene” condotta nel 1603 al rogo in questo luogo “seco la Montina ancor lei strega”[45], o in Piazza Sant’Eustorgio. E’ proprio questa piazza che “vede” il rogo della strega “Giovannina” nel 1515, di Simona Ostera di Porta Com’asina 1519 e nel 1542 di Lucia da Lissono. Nel 1563 Filippo II introduce l’Inquisizione spagnola nello Stato di Milano e i processi diventano molto più aspri e tremendi. Piazza Vetra inizia a concorrere, con la già citata Sant’Eustorgio per il macabro scettro di luogo di condanna, oltre la già citata Isabella Arienti nel 1611 viene arsa sul rogo Doralice de’ Volpi e Antonia de’ Santini, Giacomo Guglielmotto, Angela dell’Acqua e Maria de’ Restelli, e Gian Giacomo Mora. Quest’ultima è la classica vicenda dell’untore. Durante l’ondata di peste del 1630 Guglielmo Piazza, commissario di sanità per la zona di Porta Ticinese, circolava furtivamente per la città controllando gli appestati per trasferirli, nel caso, nel lazzaretto. Durante queste sue camminate fu notato da una donna, Caterina Trocazzani che, il 21 giugno 1630, pensando si trattasse di un untore, lo denuncia alla gendarmeria. L’uomo viene subito inquisito ed accusato di diffondere la peste per poi lucrare sulla vendita di medicinali. Sotto gli effetti letali della carrucola il Piazza confessa le orribili azioni in realtà mai commesse e chiama in causa come suo complice Giangiacomo Mora, un barbiere che aveva la sua bottega alla “punta della Vetra” e che, per arrotondare i guadagni, vendeva degli unguenti da lui preparati contro la peste. Anche quest’ultimo sotto tortura confessa di “avere fornito al piazza un unguento fatto di sterco umano e di bava di appestati”[46]. Il 2 agosto lasciato il palazzo di Giustizia, oggi occupato dal comando dei vigili urbani di Piazza Fontana, i due vengono portati in piazza Vetra e vengono arsi nel punto ove oggi sorge la statua di S. Lazzaro : “posti sovra un alto carro vennero tanagliati lungo tutta la via che è dal Palazzo di Giustizia al Carrobbio e quivi si recisero loro le destre. Poi giunti in Piazza Vetra, luogo dei supplizi, ad una ad una frente le ossa. Ed intrecciati alla ruota stessa, poi innalzati, rimasero vi sei ore…infine scannati e bruciati ne furono buttate le ceneri nel vicino rivo[ si tratterebbe del canale della Vettabia, tutt’otra esistente N.d.A][47]”. La casa del Mora fu poi rasa al suolo e al suo posto edificata una colonna “infame” con la seguente iscrizione “dov’è questa piazza sorgeva la barberia di Giangiacomo Mora che congiunto con Guglielmo piazza commissaria di pubblica sanità e con altri quando peste era più atroce, sparsi mortali unguenti molti a cruda morte trasse”[48]. la storia di questa colonna sarà poi narrata da Alessandro Manzoni nella sua “Storia della Colonna Infame” ove posiziona la casa del Mora allo sbocco di via della Vetra con corso di Porta Ticinese. Solo il 1641 vedrà il termine dei roghi, le ultime streghe bruciate a Milano, Anna Maria Pamolea e Margarita Martignona verseranno il loro ultimo tributo di sangue al genio della città, solo due freddi nomi ricordano il tragico evento mentre il registro delle sentenze capitali di Milano si sofferma su un altro evento molto più rilevante, la lite tra il boia e un cavaliere della Confraternita di San Giovanni Decollato che aveva fatto accuse in merito alla scarsa “professionalità” del giustiziere dato che la corda con la quale fu impiccata Maria Pamolea si spezzò ben due volte.
Non possiamo, però, non soffermarci su due dei più antichi processi per stregoneria, svoltisi a Milano tra il 1385 e il 1390, e che videro come imputate Sibilla Zanni e Pierina Bugatis, condannate da Fra Bellarmino da Cernuscullo per aver partecipato ai sabba diabolici che si tenevano, secondo la tradizione, nella zona del Quadronno.
La tradizione vuole che in area selvaggia ove esisteva prima una intricata foresta, ed oggi sorge la chiesa di San Calimero, ancora oggi in via Quadronno la vigilia del 1° maggio le streghe si riuniscano per festeggiare il sabba.
Le streghe furono accusate di far parte della “società di Diana” e di partecipare al Sabba, il “gioco di Diana, che chiamano Erodiade”[49] come loro stesse confermarono sotto tortura come leggiamo negli atti del processo. La confessione, che ben rientra nel tipico schema dell’epoca, narra che la giovane, fin da bambina si recava tra la notte del giovedì e il venerdì di ogni settimana, alla società del buon gioco. Era qui che incontrava la Signora d’Horiente che le accoglieva con le parole “Benvenute figlie mie”. Confessione simile è quella di Pierina, moglie di Pietro de Bripio, nei cui atti processuali si parla di una “madona d’Horiente” dalla quale la donna si recava fin dall’età di sedici anni. Era durante questi convegni notturni che la donna si diede ad un diavolo che ivi presenziava, Lucifello, non prima di avergli donato un cucchiaio del suo sangue come ratifica del patto stretto tra i due.
“…Ogni volta che aveva intenzione di andare al gioco, chiamava lo spirito Lucifello il quale veniva sempre da lei in forma d’uomo e parlava con lei e l’istruiva su qualsiasi cosa l’interrogasse…Dicesti poi che voi di questa compagnia non nominate Dio quando vi trovate insieme né quando decidete di recarvi alle riunioni. Dicesti poi che la Signora non vuole che facciate sapere in giro niente di queste cose… Interrogata se lei Pierina si fosse data al demonio risponde affermativamente e che in premio e segno di sé gli diede un po’ di sangue della propria mano destra, un cucchiaio circa e con questo sangue il demonio scrisse che Pierina si dava interamente a lui. Interrogata sull’epoca in cui ciò avvenne risponde che fu quando aveva trent’anni, ma al gioco lei aveva cominciato ad andare che aveva sedici anni circa, quando sua zia Anexina ce la mandò al suo posto, non potendo altrimenti morire…”[50] E’ qui presente, poi, la testimonianza di una antica credenza, una strega non sarebbe potuta morire se non avesse tramandato, in punto di morte la sua conoscenza ad altre donne.
Tornando al nostro processo, la storia in realtà si svolge in due momenti differenti, all’inizio le donne furono condannate semplicemente al pubblico pentimento. Indossato i un abito con due croci gialle, dovevano percorrere parte della città fermandosi davanti la chiesa di San Francesco, San Marco per raggiungere infine Piazza Sant’Eustorgio. A sei anni di distanza da questi avvenimenti le donne furono nuovamente inquisite, sotto tortura confessarono nuovamente i loro “peccati”, la loro sentenza sarà letta dal Potestà in persona dal balcone della Loggia degli Osii e successivamente bruciate a Sant’Eustorgio nel 1390. E’ invece a Cantù che nel 1453 fu bruciato nella piazza municipale un certo Pellegrino Gualtiero di Balassina[51] che confessò di aver avuto rapporti sessuali con la Maestra del gioco. Sicuramente però, la condanna di stregoneria più famosa di Milano è quella di Caterina dei Medici.
La storia di Caterina de Medici è uguale a tante altre. Nascere a Broni da una famiglia contadina, impara a leggere e scrivere, una capacità che sarà anche la sua condanna: troppa paura facevano a quel tempo le “serve” istruite. Si sposa all’età di 14 anni ma rimane presto vedova, un’altra caratteristica di molte sedicenti “streghe”. Inizia così a lavorava come serva
a Pavia, a Casale Monferrato, presso il capitano Vacallo e Milano. Qui va al servizio del senatore Luigi Melzi. E’ in questa dimora che si svolgerà lo scenario dell’accusa. Il padrone, infatti, inizia ad accusare strani ed enigmatici dolori, si pensa subito ad una stregheria, ma è lo stesso capitano Vacillo che, in visita al senatore, riconosce Caterina e la addita come strega. Inizia così il processo che non lascerà via di scampo alla donna, inutile è anche il suo tentativo di confessare in modo da aver salva la vita: il 4 marzo 1617 sarà bruciata sul rogo in piazza Vestia.
“1617 Addì 4 Marzo. Giustizia fatta alla Vetra: fu abbrugiata una Cattarina de Medici, presunta strega, la quale aveva malefiziato il Senatore Melzi et fu fatta una Baldresca sopra la casotta: fu strangolata su la detta Baldresca all’atto che ognuno poteva vedere et prima fu menata sopra un carro et tanagliata…” [52]
[1] Spinetti Vittorio, Le streghe in Valtellina, Arnaldo Forni Editore, 1994
[2] Spada D., Gnomi, fate, folletti ed altri esseri fatati in Italia, SugarCo, 1989
[3] Spada D., Gnomi, fate, folletti ed altri esseri fatati in Italia, SugarCo, 1989
[4] Paola Sandionigi, Le Signore del Buon Gioco
[5] Spinetti Vittorio, Le streghe in Valtellina, Arnaldo Forni Editore, 1994
[6] Spinetti Vittorio, Le streghe in Valtellina, Arnaldo Forni Editore, 1994
[7] Spinetti Vittorio, Le streghe in Valtellina, Arnaldo Forni Editore, 1994
[8] Spinetti V., Op. Cit.
[9] Odorici F., Storie bresciane, Brescia 1860, vol. IX
[10] Nulli S. A., Op. Cit.
[11] Spinetti Vittorio, Le streghe in Valtellina, Arnaldo Forni Editore, 1994
[12] Spinetti Vittorio, Le streghe in Valtellina, Arnaldo Forni Editore, 1994
[13] Perego N., La stregoneria come esasperazione di credenze religiose a Lecco e nella Brianza del Cinque Seicento, in “streghe diavoli e sibille, atti del convegno Como 2001, nodo libri
[14] Perego N., Op. Cit.
[15] Spinetti Vittorio, Le streghe in Valtellina, Arnaldo Forni Editore, 1994
[16] Archivio del Comune di Bormio, Quaterni receptorum, 1483
[17] Prevideprato M., Tu hai renegà la fede, EDIT.TE, Nadro, 1992
[18] Archivio del Comune di Bormio, Quaterni receptorum, 1483
[19] Giorgetta G., I Processi dell’Inquisizione in Valtellina e Valchiavenna nel XV secolo, in “streghe diavoli e sibille, atti del convegno Como 2001, nodo libri
[20] Giorgetta G., Op. Cit.
[21] Ibidem.
[22] Spada D., Gnomi, fate, folletti ed altri esseri fatati in Italia, SugarCo, 1989
[23] Bolzoni F., Le Streghe in Italia, Rocca San Casciano, Cappelli Editore, 1963
[24] Ginzburg C., Storia Notturna, una decifrazione del Sabba, Biblioteca Einaudi, Torino, 2004
[25] Giorgetta G., Op. Cit.
[26] Bormetti M., Al tempo delle Streghe, Bissoni Editore, Sondrio 1981
[27] Bormetti M., Op. Cit.
[28] Bormetti M., Op. Cit.
[29] Ibidem.
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem
[34] Ibidem.
[35] Nulli S. A., I processi alle streghe, Einaudi 1939
[36] Ibidem.
[37] Bondì Claudio, Strix, Lucarini, Roma, 1989
[38] Bondì Claudio, Strix, Lucarini, Roma, 1989
[39] Ibidem.
[40] Ibidem.
[41] Bignami G., Le Campane nelle Manifestazioni popolari, in Lares, Fasc. III-IV, 1962 Firenze
[42] Ibidem.
[43] Comoletti C., Milano Misteriosa e Segreta, Libreria Milanese, Milano 1999
[44] Martini D. G., Genovesi Malelingue, Savona, 1968
[45] Comoletti C., Op. Cit.
[46] Di Bella F., Op. Cit.
[47] Ibidem.
[48] Ibidem.
[49] ASCMi, Registro della sentenze criminali. Cimeli, 147
[50], Zucca M., Storie di streghe milanesi, in “streghe diavoli e sibille, atti del convegno Como 2001, nodo libri
[51] Spada D., Gnomi fate, folletti ed altri esseri fatati in Italia, SugarCo 1989
[52] Zucca M., Op. Cit.