di Andrea Romanazzi
Questo approfondimento segue quelli già pubblicati legati al culto arboreo e del “Maggio” lucano. Chi è il Conte “Maggio”?
“…Voglio salire sopa sto ulive.
Aggia ì a fa na parma nn’argintata,
L’aggia fa piccula e galante,
C asti signure l’hanna tene mente.
L’aggia purtare a Munzerdone
L’aggia fa benedice da ru Papa.
Tette la parma, amore, facimme pace
Non li facimme rire li nemice.
Tenne cara mia facimme pace
Quante a lu fiore ca scenne la croce…”[1]
Questo breve stornello ci fa così addentrare in un altro ricchissimo campo di tradizioni, quello del canto e della poesia popolare ove appare il tema dell’antropizzazione dell’elemento arboreo e del matrimonio vegetazionale.
La prima immagine della donna vista come elemento arboreo, tradizione che ricollega alla novellistica e al tema della sposa-frutto precedentemente esaminata la ritroviamo in alcuni testi di canti prenuziali lucani.
“…La giovinetta somiglia alla vite, che vegeta orfana in vasta campagna, e non si eleva mai da terra, né mai educa a perfetta maturità l’uva, che pende inutilmente lungo i rami striscianti sul suolo fangoso. Ma se mai essa si unisce all’olmo i suoi rami s’innalzano, i suoi frutti maturano e diventa la cura e la delizia di quello stesso agricoltore che prima la spregiava…”[2].
Moltissimi potrebbero così esser gli esempi dei bellissimi stornelli d’amore ove si identifica la donna amata con l’albero e con una sua parte
“Abro ca tanto caro ti tinia,
I’ t’arraquavo cu’ li mmiei siruri,
Mo’ so siccati li frunne e li rami,
Li fiuri h’an perso lo colore.
Nu’ nc’è ch’arraquà cchiù, l’acqua è firnuta,
Puri li rarichicelle so’ siccate.”[3].
Esempi di questo tipo li troviamo anche nell’area salentina ove spesso la donna viene paragonata ad un fiore
E fior di tutti i fiori, fior di l pepe
Tutte le fontanelle so’ siccate
Tutte le fontanelle so’ siccate
Povero amore mio more di sete.
Quando te minti amare, ama signori
Ca non amare cose di villani
De li signori nd’hai la revescenza
De li villani nd’dai la maldicenza.
Era piccinu me morse la mamma
Lu viziu me rimase de la minna
Ogni donna ca viciu la chiamu mamma
Ogni donna ca viciu la chiamu mamma
Non pozzu cchiù cantare perzi la voce
L’ho perza ieri sera alla fornace
L’ho perza ieri sera sotto l’albero di Noce
Pe’ na zitella ca no’ dia pace.
Fior di tutti i fiori, fior di Verbena,
beato chi ti stringe e chi ti abbraccia,
Mo chi ti abbraccia, mo chi ti abbraccia,
beato chi ti stringe e chi ti abbraccia.
Incredibile questo stornello per i numerosi rimandi al culto arboreo che presenta. Così, ad esempio, al di là del paragone donna-fiore, che riporta al tema già esaminato della donna-frutto, ecco che prepotente riappare il tema dell’albero di noce, sotto il quale si “perde la voce”, come a testimoniare una “serenata” fatta alla donna sotto l’albero o, fatta all’albero stesso.
Ma sicuramente il filone più interessante da un punto di vista della canzone narrativa è la famosa canzone nota come “verde oliva” ove la donna, pronta per le nozze, è raffigurata come una pianta o le fronde di ulivo.
Elemento onnipresente nel testo è la presenza di un certo Conte Maggio, figura predominante in particolare nelle aree di Matera, Pisticci, Miglionico, Tursi, San Mauro, Montescaglioso.
Il nome, fin troppo generico, presupporrebbe, come sempre in questi casi, un’origina atavica, ovviamente riferita ad un antropizzazione del dio vegetazionale, poi trasformato, in nomi di persone in realtà inesistenti, come Contusciellu, sicuramente una storpiatura del nome arcaico di Conte arbusciellu a causa dell’incomprensibile ed inesistente nome simbolico originario.
Ecco così che queste canzoni erano cantate al ritmo del cupa-cupa , soprattutto nel periodo carnevalesco, idea che suggerisce lo stretto legame tra il Carnevale come uomo e il ConteMaggio.
“o fior d’auliva attaccati ‘sti trizzi
Ca vostro patre ti vol maritare.
O fior d’auliva attaccati sti’ trizzi
Ca Contumace ti vuole sposare”
“Verdolina aggiustate le trecce
Ca iè tiempe re te maritate”
“O contumace t’eccoti ‘stu corno
Va lo sonanno pe’ tutto ‘stu cuntuorno”
“O Contumagge abbuscechete nu cerne
Va ruvvugghianne li muorti de suone”
Interessanti sono poi le tradizioni di matrimoni arborei, cioè di giovani coppie che, invece di sposarsi in chiesa o in comune, celebravano il proprio amore girando tre volte, a ritmo di danza, attorno ad un albero pronunciando parole e filastrocche a metà tra scongiuri magici e preghiere
“Albero mio fiorito,
tu sei mia moglie e io son tuo marito.”
E rispondeva così la donna “Albero dalle foglie,
tu sei mio marito, io son tua moglie”.
E’ ancora una volta il riproporsi del tema della sposa-frutto.
Rituali simili ancora li segnala il Pasquarelli nell’area del potentino, ove, girando in questo caso attorno ad un olmo, le giovani coppie cantavano “Albere senza foglie quest’è mia moglie…[mentre la donna n.d..] Albere mie fiorite, quest’è miu marite…”[4]
Un’altra usanza sicuramente legata al culto arboreo è quella del “ceppo nuziale”, in realtà diffusa anche in altre regioni italiane. Il pretendente poneva, durante la notte, un ceppo di legno davanti l’uscio della sua donna. L’indomani, se ella ritirerà l’omaggi significa che accetta di buon grado il corteggiamento, se no il ceppo rimarrà fuori dalla casa, mentre altro dono “arboreo” lo ritroviamo a Miglionico o Ferrandina ove, durante il giorno delle palme, il giovane spasimante donava un intreccio di palme benedette e fiori.
[1] Andretta l., Tesi di laurea in Bronzini G., Tradizioni Popolari in Lucania, Edizioni Montemurro, Matera, 1953
[2] Bronzini G., Tradizioni Popolari in Lucania, Edizioni Montemurro, Matera, 1953
[3] Bronzini G., Tradizioni Popolari in Lucania, Edizioni Montemurro, Matera, 1953
[4] Bronzini G., Tradizioni Popolari in Lucania, Edizioni Montemurro, Matera, 1953