Streghe e Processi in Toscana

di Andrea Romanazzi

Toscana, regione di bellezze naturali ed artistiche da sempre esplorate. Pochi però sanno che la regione è stata molto interessata dalla stregoneria e molteplici sono stati i processi inquisitoriali ivi tenuti. Cerchiamo di approfondire.

Il viaggio nella Toscana stregata ci porta a Pistoia dove, nel 1250, veniva condannata una certa Melina, rea di aver affatturato il suo padrone, messer Lapo, con la complicità della moglie. In quegli anni, però, la stregoneria era considerata mera superstizione e così la donna fu semplicemente condannata al pagamento di 200 fiorini, pena poi tramutata in esilio dalla città poiché la megera era nullatenente. 

Nel 1259, sempre a Pistoia, tre donne furono condotte davanti all’Inquisizione con l’accusa di stregoneria; si trattava in realtà di tre meretrici accusate da una certa Menichina, anche lei prostituta. Non ci è dato sapere come si concluse il processo ma, come sappiamo, non era difficile confondere le arti magiche con il “lascivo mestiere” di queste donne. 

Nel 1298, fu condannata Fresca di Fiesole, rea di aver ammaliato una tal Margherita, in seguito fuggita dalla casa del marito. Le accuse furono mosse dal padre della ragazza, Betto di Rustico, che considerava il comportamento della giovane conseguenza di un sortilegio. Ancora una volta fu la ricerca di un capro espiatorio che portò alla condanna di una donna inerme, anziana e vedova, e dunque facile bersaglio della comunità.

Spostandoci da Pistoia a Lucca, nel 1346 troviamo inquisita Franceschina di Lippo, colpevole di possedere libri magici con i quali guariva le persone, mentre nel 1370 toccava a Benvenuta Benincasa, anch’ella maliarda, accusata di fatture e legamenti d’amore. Secondo le deposizioni, la donna era guidata dagli angeli inviati da san Geminiano, a cui si rivolgevano le sue orazioni e i suoi incanti. Purtroppo l’inquisitore Tommaso da Camerino trasformò questi “inviati dal Signore” in demoni, e la donna fu condannata ad abiurare il diavolo e a indossare delle croci gialle, simbolo degli eretici.

Continuando a scavare tra i ricordi lucchesi, troviamo Crezia di Agostino Mariani della Pieve di San Paolo, giustiziata nel 1589. Accusata di stregoneria e di accoppiarsi con due succubi sotto sembianze semianimalesche, la donna fu accusata dalla sua stessa figlia. Sottoposta a tremende torture e rea confessa, morì in carcere; ma l’insano desiderio ginecofobico dell’inquisitore volle che la sentenza di morte fosse comunque eseguita sul suo cadavere. Erano gli anni in cui la pietà non era un valore condiviso.

Il processo più famoso del Lucchese è però quello contro Polissena da S. Macario, che si tenne nel 1571. La presunta strega era in realtà una donna che soffriva di epilessia, e fu proprio a causa di questa malattia che fu condannata. Iniziava a circolare voce che non volesse essere toccata o destata dal sonno, in particolare durante le sue crisi. Da qui l’accusa: la donna, lasciando il corpo in casa, si recava al Sabba. Del resto, i movimenti contorti e gli scatti improvvisi facevano davvero pensare che la sua anima stesse partecipando a qualche riunione stregonesca. Ecco le parole di un testimone:

… essendo appresso a un letto, si lasso’ andare indietro et rimase stesa et agghiacciata sul letto che ivi era, di modo che pareva morta; et esse donne pensando che li fosse venuto qualche accidente, si li missero appresso con aceto… et detta Polissena ciò fatto aperse gli ochi et comincò’ a fare un verso, in modo di mughiare, tanto forte et con stravolgere gl’ occhi, che tutti si misseno a fuggire per paura, lassandola sola, perche’ si haveva sospitione che fosse strega… mia madre mi disse che la detta Polissena la mattina sequente li disse: quando io sto in quella forma che stavo ier sera, non mi date noia, percè’ mi fate più male che bene…

La megera fu così inquisita e torturata, e il cavalletto e la corda generarono strani e gotici racconti. Ecco così che Polissena parlava con la zia defunta che la invitava a unirsi a lei al Sabba utilizzando il tristemente famoso unguento: “… venendo io chiamata, et mi dicea: ‘Andiamo’, la qual voce non potea esser intesa se non da me, et così io con l’unguento che era portato mi ungevo … et trasformata in gatta, lassando il corpo a casa me ne scendeva la scala et andavo fuori dell’uscio…”.

Nel 1571 la triste conclusione: Polissena fu arsa viva sul rogo.

Anche il Senese non fu da meno e il Tribunale dell’Inquisizione di Siena intentò ben 1725 processi, tra cui quello ad Angela di Radicandoli nel 1609. La storia segue il classico canovaccio. Durante una festa paesana la donna, di mestiere levatrice e nutrice, si era fermata sull’uscio di una sua compaesana e aveva preso a elogiare suo figlio. Questa, orgogliosa, si vantava di averne uno ancora più bello dentro casa, e lì iniziò il dramma. La sera stessa, dentro la culla del bimbo, fu ritrovato un topo nero che sfuggì ad ogni tentativo di cattura. Qualche giorno dopo, il bambino morì e stessa sorte toccò successivamente agli altri due figli. La madre, disperata, fece cadere le accuse su Angela e la nutrice venne inquisita. Sottoposta a tortura, ella negò di aver fatto alcuna magia sui bambini e per questo ricevette una condanna piuttosto blanda: durante le funzioni domenicali avrebbe dovuto sostare in ginocchio fuori dalla chiesa, con un cero in mano.

Anche gli uomini, sebbene molto più raramente, non erano esenti dalle accuse di stregoneria, come dimostrano la storia fiorentina di Francesco da Carmignano, in seguito assolto per inconsistenza di prove nel 1350, e quella del cappellano di Sassetta, borgo nelle vicinanze di Pisa. 

Anticipando il nostro viaggio in Emilia, vale la pena introdurre il più famoso mago di quella regione, Bartolomeo Ghiozzi, detto “il Chiozzino”, nativo di Mantova ma residente a Ferrara tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento presso l’abitazione della famiglia Palmiroli, in via San Michele, oggi Ripagrande, e sepolto nella chiesa di Santa Maria della Rosa, possedimento templare ora distrutto.

Si narra che l’uomo, scavando nella cantina, rinvenne una pergamena antica sulla quale erano raffigurati segni cabalistici e strane parole, come “la parola caldea mog e la parola greca teurgia, nome che gli antichi davano alla parte di magia da noi chiamata magia bianca”. Dopo aver studiato gli strani documenti, la notte del 19 novembre del 1700 Ghiozzi pronunciò una formula magica e materializzò un incubo detto “Fedele Magrino”, o Urlone, col quale strinse un patto che doveva assicurare l’anima dell’uomo al demone, in cambio di onori e fama.

Iniziava così un’incredibile attività magica che avrebbe condotto il Chiozzino ai Sabba trentini, ove erano “demoni sotto tutte le forme, serpenti, draghi, uccelli, spetri, lupi, scheletri, mostri, corpi umani rappresentanti luride e schiffose vecchie eanche giovani d’ambo i sessi e di bell’aspetto, quali affatto nudi, quali coperti di fantastiche vesti”. Ma le alte vette non erano le uniche visitate dal magister: “Streghe o con altri nomi si dilaniassero credevasi si congregassero in certi luoghi: al Barca di Ferrara, allo spianato della Mirandola, al monte Paterno di Bologna, al Noce di Benevento ecc., e sotto la presidenza di Erodiade, di Diana si dessero a balli e a sozzi amori, trasformandosi in lupi, in gatti e in altre bestie… Nessuno sa dire se le streghe arrivino a piedi soltanto o cavalcando scrofe”. Parole e testimonianze, queste, in cui le immagini stregonesche italiane iniziarono a fondersi con la magia cerimoniale.

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