di Andrea Romanazzi
L’Emilia Romagna fu tutt’altro che esente dalla tragedia dei roghi e dai timori delle tregende. Questo breve viaggio ci vuole portare tra le donne e magare della regione.
A Bologna luogo del Sabba era il monte Palermo, a Ferrara il monte Barco, mentre a Modena le immonde riunioni si tenevano in un prato nei pressi di Castel Sant’Almazio. A Ponte Uso, invece, vi è un’antica tradizione stregonesca ancora oggi in uso. Si narra infatti che nell’‘800 vivesse nella zona una famosa strega che, al momento della morte, consegnò il suo libro delle ombre a un ragazzo per farne il suo successore. Ebbene, ancora oggi nel paese vivrebbe uno stregone discendente della scuola della gran fattucchiera e in possesso di questo incredibile libro.
Tortura e Inquisizione colpirono quest’area d’Italia conferendo a Modena tra il XV e il XVI secolo il triste primato dei roghi; una certa Orsolina da Sassorosso fu accusata di stregoneria e di essersi recata al Sabba nel prato di Sant’Almazio utilizzando unguenti e frasi magiche:
… prendeva una verga sanguinella, unta con sugna di porco e di anitra e pronunziava le parole: “Sopra foia et soto vento de là del mar ghe el parlamento” … finalmente, dopo tanti scongiuri, rimaneva commosso (il diavolo) e persuadevasi a trasformarsi in becco per prendere a cavalcioni la strega e trasportarla al convegno delle sue compagne adunate al corso sotto il noce tradizionale…
A Reggio Emilia, nel 1375 si svolse invece la vicenda di Gabrina degli Albeti, mulier malefica che, a differenza della maggior parte delle streghe, apparteneva al ceto nobile della città. Non si trattava di una semplice guaritrice o ostetrica di campagna, ma di una maestra dell’arte magica a tutti gli effetti, e fu questo particolare ad assicurarle la condanna; gli inquisitori le tagliarono la lingua in modo da impedirle di trasmettere le sue conoscenze:
… quod dicta Gabriyna malo modo et ordine, deliberate et appensate et spiritu diabolico istigata, mulier malefica, divinam voluntatem et potenciam et virtutes celestes pospotens, infrascriptis incantationibus pistriziis et maleficiis, multas personas docuit et instruxit facere cum herbis, incantationibus, factis, signis et prohibitis et inhonestis, maleficia incantationes et pistrizia…
L’attività principale di tutte le maliarde del tempo e delle loro sacerdotesse consisteva nella preparazione di rituali d’amore, e così negli atti processuali troviamo menzione di strani rimedi per assicurare, ad esempio, la fedeltà. Gabrina consigliò alla sua cliente Franceschina Avanzi di realizzare un impasto di unghie e peli di gamba del marito, di mescolarlo al cuore di una gallina nera e di tenerlo per nove passi all’interno della sua vagina, in modo da darlo poi all’ignaro uomo sotto forma di polvere: “… quot acciperet de pillis femoris sui et de unguentibus dicti Auanzii, et acciperet cor unius galline nigre, et dictos capillos et unguens ingeniose poneret in dicto core ipsius galline…”.
Forse i tempi non erano ancora pronti per una vera e propria persecuzione alla strega, o forse il suo alto lignaggio o l’ironica clemenza del giudice costituì un deterrente, ma la donna non finì al rogo e fu costretta a non insegnare più le terribili arti con la “semplice” amputazione della lingua:
“… qui dicta Gabriyna comdemnata fuit in amputatione lingue et fuit bollata…”.
Se questo è il grottesco scenario stregonico tosco-emiliano, dove levatrici e streghe erano spesso accomunate dal termine “streja” (uno strumento tipico della puerpera), chi immaginerebbe che anche Rimini e i comuni limitrofi, oggi luogo di disinibita libertà sessuale, ricevettero il loro tributo di sangue?
Lo sfondo su cui si svolsero le condanne fu sempre lo stesso: alla fine del 1500 l’area marchigiana vicina era angustiata da carestie ed epidemie, morti e malattie, briganti e mendicanti. Nel 1587 la strega riminese chiamata Vaccarina, nome che forse rievoca il suo lavoro di “guardiana di vacche”, venne bruciata in piazza Sant’Antonio, a quel tempo adibita a tale orrido scopo e oggi nota come piazza Tre Martiri; nel 1594 un’altra donna, Francesca Medri, fu condannata a Cesena. Abitante di Longiano, era rea di aver evocato il demonio sotto le sembianze di “pecorone con le corna et negro”.
Nonostante le condanne, però, la stregoneria emiliana non smise di proliferare e anzi si diffuse a macchia d’olio, dando vita a simboli e storie che tutt’oggi ricorrono nei racconti popolari. D’altronde i luoghi sacri in cui incontrarsi erano molti e nascosti, come San Benedetto del Tronto dove, sul colle di San Marco, si trova il “dito del diavolo”, una pietra fitta nei pressi della quale si svolgerebbero ancora rituali di fertilità legati ai magici “scanni”: troni in pietra su cui le donne solevano sedersi per guarire dalle malattie.