di Andrea Romanazzi
Il 19 marzo è la Festa di San Giuseppe, una festività religiosa che si intreccia con riti pagani di fertilità e procreazione legati all’Equinozio di Primavera.
La festa del santo, infatti, si sovrappone, acquisendone le caratteristiche, alle feste pagane per per propiziare il ritorno della bella stagione, ricordo della Dea dei Cereali, le cui prime tracce troviamo nella lontana Creta. Tradizioni simili le troviamo presso i romani durante i festeggiamenti per Persefone e Kore, metafora del ritorno della natura, festeggiate durante i Cerealia, feste agricole ove folle festose era uso lanciare noci, grano e dolci sulla processione in onore della Dea. Gli antichi retaggi sono stati assorbiti dal Cristianesimo. n passato era abitudine preparare il banchetto o “invito di San Giuseppe”, tradizione che vuole le tavole imbandite con ogni bene, oltre all’immancabile pane benedetto, proprio a rappresentare l’abbondanza. L’usanza del sacro pane è presente su tutto il territorio nazionale, soprattutto nel Centro Sud. In particolare in Sicilia venivano allestiti altarini, chiamati in vari modi a seconda del paese, costituiti da assi di legno disposte a tre o cinque gradini addobbati con fiori, frutta e ricolmi di pani. Esso è dunque un altare ma anche un banchetto, in una mistica commistione di immagini che lega l’atto del nutrirsi a qualcosa di sacro. Tutto è regolato da un ben preciso rituale, la collocazione sull’altare dei pani spetta al capo famiglia, e ogni posizione sull’altare è ben codificata.
Al centro, attorniato da pani a forma di cuore è un pane dolce, cibo e fonte di salvezza, dalla forma antropomorfa proprio come nei rituali pagani. Sono i “pupi di San Giuseppe”, espressione dell’antropizzazione del divino. Il pane diviene cibo sacrale esso stesso è anche reliquia, conservata per guarire malattie o per allontanare tempeste in mare come testimoniato da numerose tradizioni popolari marinare. All’altare erano legati i tavulati, ovvero delle cene pubbliche per i poveri che rappresenterebbero Gesù, Maria e Giuseppe, in fuga verso l’Egitto per sfuggire ad Erode. La tradizione antica vuole che fosse il Santo stesso a reclamare l’esecuzione apparendo in sogno all’interessata.
Mi sognai San Giuseppe con tre pani / tondi / cinque pani / però sti cinque pani / belli
grossi/ […] così alla buona / ah / ma ce voli san Giuseppe da mia / gli dissi / san
Giusepe meu / senti / mo nun me sento tanta / bbona / ma ci vole Ddiu me sento bbona /
da n’anno all’autro / fazzo la taula / […] erano tre persone / ca portavano cincu pani /
andai al forno e feci fare sti cincu pani / […] in gloria di san Giuseppe / poi è venuto
l’anno prossimo / aggiu ditto a maritemo aggia fari a taula.
Come a ogni festa religiosa, anche a S. Giuseppe non si perdeva l’occasione per preparare un piatto o un dolce tradizionale o un vero e proprio pranzo festivo. Ci si poteva limitare a preparare la “massa” o trasformarla in pasta fatta in casa cotta con ceci e cavoli verdi, simbolicamente significativi, o nel pane per accompagnare i lampascioni. Del tutto assenti carni e latticini perché sono rispettate tutte le interdizioni alimentari quaresimali. Altri alimenti tipici della festività sono i legumi e nonchè la famosa zeppola, il tipico dolce della festa. Secondo gli storici la zeppola fu “inventata” dalle suore del convento di San Gregorio Armeno, anche se fu pubblicata per la prima volta nel 1837 dal gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti, nel libro “Cucina teorico-pratica”:
“Miette ncoppa a lo ffuoco na cazzarola co meza caraffa d’acqua fresca, e nu bicchiere de vino janco, e quando vide ch’accomenz’a fa lle campanelle, e sta p’ascì a bollere nce mine a poco a poco miezo ruotolo, o duje tierze de sciore fino, votanno sempre co lo laniaturo; e quanno la pasta se scosta da tuorno a la cazzarola, allora è fatta e la lieve mettennola ‘ncoppa a lo tavolillo, co na sodonta d’uoglio; quanno è mezza fredda, che la puo’ manià, la mine co lle mmane per farla schianà si per caso nce fosse quacche pallottola de sciore: ne farraje tanta tortanelli come sono li zeppole, e le friarraje, o co l’uoglio, o co la nzogna”.
Anche in questo caso per dare una spiegazione al rituali pagano della “ciambella” ecco che viene introdotta la leggenda che pur di guadagnare qualcosa, proprio durante la fuga in Egitto San Giuseppe avesse fatto anche il venditore di frittelle, da cui il nomignolo popolare di “San Giuseppe frittellaio”.
(Per approfondimenti sulla Zeppola Pugliese invece vedi Libro in cui è presente anche la ricetta tradizionale).
In passato, però, un’altra era la tradizione culinaria, tutta barese, quella delle tagliatelle di San Giuseppe, o laneche de San Gesèppe. La ricetta la prendiamo da «la Puglia in 100 ricette» di Antonio De Rosa, Progress Comminication – Bari 2003.