Di Andrea Romanazzi
Lo Stato indipendente di Fiume e l’Oroboros
Nell’immediato dopoguerra le sue imprese non terminarono. Come rivalsa per quella che definiva “vittoria mutilata”, nel settembre 1919 insieme con un gruppo di 2500 “legionari”, partito da Ronchi di Monfalcone, occupò la città di Fiume che le potenze alleate vincitrici non avevano assegnato all’Italia. Visto il silenzio delle trattative internazionali nel 1920 trasformò la città contesa in uno Stato indipendente. Chiamarono questa entità provvisoria “Reggenza Italiana del Carnaro” (Fig.10).

Per evitare ogni opposizione da parte delle autorità locali, sempre più ostili nei confronti degli occupanti, D’Annunzio proclamò il nuovo Stato in un comizio pubblico al balcone del palazzo del Governo. In quell’occasione disse alla folla dei suoi sostenitori: “La vostra vittoria è in voi. Nessuno può salvarvi, nessuno vi salverà: non il Governo d’Italia che è insipiente ed è impotente come tutti gli antecessori; non la nazione italiana che, dopo la vendemmia della guerra, si lascia pigiare dai piedi sporchi dei disertori e dei traditori come un mucchio di vinacce da far l’acquerello…..Domando alla Città di vita un atto di vita. Fondiamo in Fiume d’Italia, nella Marca Orientale d’Italia, lo Stato Libero del Carnaro”.
Egli ne divenne il Comandante.Varò la Carta del Carnaro, una sorta di Costituzione che ancora oggi sarebbe innovativa. Introdusse il suffragio universale, la libertà di opinione, di religione e di orientamento sessuale, la depenalizzazione dell’omosessualità, del nudismo e dell’uso di droga, la funzione sociale della proprietà privata, il corporativismo, le autonomie locali e il risarcimento degli errori giudiziari.
“Art. 2 – La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta, che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono”.
Nella Fiume dannunziana non c’erano limiti, la morale era stata abbattuta e i costumi erano liberissimi. Un’utopia libertaria di avanguardia. A Fiume ci si trasferiva dall’Italia così per godere di libertà e diritti che non erano concessi all’interno dei confini del Regno sabaudo come, ad esempio, la possibilità di divorziare, come fece, ad esempio Guglielmo Marconi.
Riprendendo le parole del Vate, trasformò “il cardo bolscevico in rosa d’Italia, Rosa d’Amore”.
Emilio Gentile scrisse che “Fiume rappresentava per molti la prosecuzione del clima di festa, cioè di sospensione delle regole normali e di annullamento delle dimensioni usuali fra realtà e sogno, fra realismo e idealismo, fra arte e vita, fra letteratura e politica, fra rivoluzione e avventura”.
E’ evidente come questa carta e questo sogno non potevano essere incubatore del fascismo al quale fu però associato. Il misticismo non lo abbandonò a Fiume. In occasione delle presentazione della Carta del Carnaro, D’Annunzio disegnò, insieme a Adolfo De Carolis, la bandiera della Reggenza (Fig.11): un serpente d’oro, L’uroboro, simbolo dell’infinito, dell’eternità, del tempo ciclico, dell’immortalità e della perfezione dentro il quale sono poste le sette stelle dell’Orsa Maggiore. In un cartiglio la scritta: “Quis contra nos, ”Chi sarà contro di noi?”, massima espressione dell’invincibilità spirituale. Sarà qui inizierà a consumare abitualmente cocaina anche a scopo trasfigurativo. Sicuramente molta della simbologia fiumana fu ispirata alla Massoneria. Il Vate era affiliato alla Gran Loggia d’Italia degli Alam detta “di Piazza del Gesù” le cui posizioni, a differenza di quelle del Grande Oriente erano più interventiste, “dove si giura al grido di “O Fiume o morte”. Per alcuni la carta del Carnaro era un esempio autentico di legislazione massonica utopica e visionaria.
“… Ed assistevo in me medesimo ad una continua genesi di una vita superiore”
Purtroppo il sogno fiumano si infranse dinnanzi gli accordi politici. Con il Trattato di Rapallo del 20 novembre 1920 Fiume venne dichiarata città libera. Tra il 24 e il 27 dicembre, in quello che fu definito Natale di sangue, il governo Giolitti, per riappacificarsi con la Jugoslavia, attaccò e bombardò con le navi la città. Deluso dall’epilogo dell’esperienza di Fiume, nel febbraio 1921 si ritirò in un’esistenza solitaria nella villa di Gardone Riviera ribattezzata il Vittoriale degli italiani.
Il Vittoriale: Architettura esoterica
“Ho trovato qui sul Garda una vecchia villa appartenuta al defunto dottor Thode. È piena di bei libri… Il giardino è dolce, con le sue pergole e le sue terrazze in declivio. E la luce calda mi fa sospirare verso quella di Roma. Rimarrò qui qualche mese, per licenziare finalmente il Notturno” scrive D’Annunzio alla moglie Maria in una lettera del febbraio del 1921, cioè pochi giorni dopo il suo arrivo a Gardone. Rimarrà qui in “esilio eremitico” fino alla morte. L’opera fu realizzata dall’Architetto Maroni, suo inseparabile amico e, a detta di alcuni studiosi, egli stesso medium. L’immenso complesso si apre con un ingresso monumentale costituito da una coppia di archi al cui centro è collocata una fontana che reca in lettere bronzee un passo del Libro segreto, “Dentro da questa triplice cerchia di mura, ove tradotto è già in pietre vive quel libro religioso ch’io mi pensai preposto ai riti della patria e dei vincitori latini chiamato Il Vittoriale”. La triplice cerchia rimanda certamente all’immagine esoterica della Gerusalemme Celeste. Louis Charbonneau-Lassay affermava che la Triplice Cinta era il simbolo del cristianesimo delle origini e perimetrava di per sé il tempio in cui Cristo è vivente. Nucleo centrale della costruzione era la “Prioria”, la casa-museo di Gabriele D’Annunzio così chiamata per il riferimento al francescanesimo, attorno a cui furono posti la nave militare Puglia, il Mausoleo degli Eroi con la tomba del poeta, i giardini, l’Arengo, la limonaia e il frutteto. Particolarmente curioso è “il Ponte delle corna” realizzato da chi, a suo dire “ne ho messe tante”. Si narra che facesse passare di i menagramo come fosse una sorta di passagium contro la iettatura. Così lo descrisse Raffaello Biordi: “Al Vittoriale sopra un piccolo corso d’acqua volle il ponticello degli scongiuri, ornato di corna di cervo, di alce e di speroni di gallo: chi vi passava sopra era tenuto a pagare il pedaggio perché solo così si determinava l’aura magica propizia; ma egli vi faceva passare, a ogni buon conto, tutti quelli che riteneva menagramo e la cui nefasta influenza fosse necessario neutralizzare”. Ovviamente tutto il complesso è carico di richiami simbolici che, per essere investigati, richiederebbero un approfondimento a parte. “Ho fatto di tutto me la mia casa e l’amo in ogni parte. Se nel mio linguaggio la interrogo ella mi risponde nel mio linguaggio…ella vive oltre la mia vita eppure si dimezza come la mia vita…”
Il vero sancta sanctorum è la già citata Prioria. Il cancello dorato, i sette scalini, gli stalli di un coro seicentesco alle pareti, l’acquasantiera, la colonnina francescana in pietra di Assisi sormontata da un canestro in cemento con melograni, i quadri di santa Chiara e san Francesco, tutto parla di spiritualità. Visto l’ampio spettro dell’articolo, per brevità, ci soffermiamo solo sulla simbologia nascosta nella camera da letto del Poeta, da lui concepita come il ventre di vita e di morte. Il letto aveva la forma della culla e della bara e lì sdraiato meditava nelle ricorrenze più importanti, la morte della madre, degli amici, della Duse, delle sue avventure. Era lì che sentiva le “voci” degli spiriti che, come testimoniato da alcuni suoi scritti, lo andavano a visitare nella Prioria ed era da lì che cercava di raggiungere il “terzo luogo”. Che cos’è il “terzo luogo” dannunziano? Difficile da definire. Egli descriveva così le sue visioni “Le visioni fulminee del ‘terzo luogo’, d’una intiera verità, come se i cinque sensi fosser sostituiti da cinque miriadi d’altri sensi (illuminazioni estatiche non volontarie, che io non posso per volontà rinnovare)” come riportate dallo studioso Attilio Mazza. Insomma, una sorta di estasi mistica in cui l’anima oltrepassa se stessa “liberandosi dall’errore del tempo”.
Il volo dell’Arcangelo e la foto “spiritica”
“Ego sum Gabriel qui asto ante deos, alitibus de fratribus unus oculeus, Postverta alumnus, arcani divini minister, humanae dementiae sequester, volucer demissus ab alto, princeps et praeco.”
“Io sono Gabriele che mi presento innanzi agli Dei, fra gli alati fratelli il più veggente alunno di Postverta, sacerdote dell’arcano e del divino, interprete dell’umana demenza, volatore caduto dall’alto, principe ed indovino.”
Una data particolarmente importante fu il 13 agosto del 1922. Oramai segregato al Vittoriale, D’Annunzio cadde dal balcone della stanza della musica e rimase fra la vita e la morte per molti giorni. Il referto medico: “Commozione cerebrale. stato d’incoscienza. segni di compressione cerebrale dubbi. Disturbi di motilità e di sensibilità non manifesti. ferite lievi escoriate all’arto inferiore destro. leggera contusione a destra del torace. prognosi tuttavia riservata”. Egli stesso chiamò l’evento “il volo dell’arcangelo”. Questo episodio della sua vita sarà alla base del Regimen hinc animi, la terza e più corposa sezione del Libro segreto, come già detto ultima sua opera e, forse, suo testamento spirituale. Ancora oggi le cause di quella caduta sono un mistero. Erano le undici di sera, il Vate stava ascoltando la melodia suonata per lui da Luisa Baccara sul davanzale della finestra (Fig.12), a cavalcioni.

Accanto la sorella minore della pianista, Jojò, oggetto, da parte di lui, di attenzioni ed esplicite avance. Ebbene probabilmente la prima, colta da un impeto di gelosia, o la seconda imbarazzata, avrebbe reagito con una spinta. Per altri studiosi come Attilio Mazza, invece si trattò di suicidio come egli stesso farà intuire nel Libro Segreto. Per altri storici l’incidente avrebbe avuto uno scopo politico. Il rapporto del poeta con Mussolini era ambiguo, Il Vate aveva biasimato quei legionari passati alle camice nere. La caduta non lo fece partecipare alla marcia su Roma.
Fu un momento di svolta, il Poeta ritrovò la sua compagna di vita: La morte. Secondo il Gibellini la caduta cambiò la poetica dannunziana che si fece più frammentaria, vicina ad aforismi, lampi di memoria a stimoli della parola scritta, più attenta allo stato sub-cosciente o delirante come materia ineliminabile dell’ espressione poetica. “Non trattengo il pensiero né lo ammaestro. Lascio che entri da sé nelle officine fuligginose aperte verso l’ autore. Non seguo il mio pensiero. Non sono intento se non alle faville”. E’ però ancora l’occulto che si dipana in questo evento. Qualche tempo prima un fotografo immortalò D’Annunzio e, solo molti giorni dopo, lo stesso Vate si accorse di un curioso particolare, una mano che gli sorreggeva il volto nella quale riconobbe l’anello che la madre portava abitualmente. Lo prese come un segno di protezione.
D’Annunzio e il suo rapporto con la religiosità
“Io nacqui ogni mattina, ogni mio risveglio, fu come un’improvvisa nascita alla luce. Dove giacqui, rinacqui.
Da quanto abbiamo sin ora detto, è evidente che il Vate nutrisse un grande interesse per la ricerca spirituale. Cosa è l’anima? Esiste un luogo “oltre”? Cosa avviene dopo la morte? Questi gli interrogativi che spesso si poneva. Scriveva all’amica Antonietta Treves, “cerco di là dalla vita e di là dalla morte, una nuova playa. Esiste. Lo so con la certezza del navigatore ligure”.
Le religione poteva dare delle risposte? Nonostante si fosse dichiarato ateo in gioventù, D’Annunzio, era affascinato dalle varie culture religiose, dal paganesimo al cristianesimo, passando per l’occultismo orientale e il panteismo. Nonostante si fosse avvicinato all’idea superomistica di Nietzsche, non ne mutuò la visione nichilistica derivati dal concetto della morte di Dio. Per lui il super-uomo era tale proprio perché era parte egli stesso della scintilla del divino, koinonia tra spirito e materia, mondo e natura, come espresso chiaramente nel punto più alto della sua poesia, l’Alcyone, il terzo libro delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi, ed in particolare nella nota “Pioggia nel Pineto”, dove i protagonisti si sentono parte viva della natura che li circonda, fino a fondersi con essa stessa e a trasformarsi in creature vegetali.
“noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione”. La sua è una visione panica della realtà, espressione di una fusione tra l’elemento naturale e quello umano e divino, un Dio immanente. Non basta.
E’ indubbio che il Vate fosse legato ad una forte cultura cristiana che gli fu inculcata durante la sua infanzia. Nel Notturno racconta e descrive l’ambiente pescarese della sua infanzia, “…Gesù di cera dentro la custodia di cristallo, la Madonna delle sette spade, ci sono le immagini dei santi e le reliquie raccolte dalla sorella di mio padre santamente morta, e co sono le mie preggiere…”. Anche nel Vittoriale, la villa a Gardone dove si auto esiliò, erano presenti reliquie, simulacri e richiami cristiani. “…ho un’anima nativamente religiosa” scriveva, per quanto, secondo il Poeta “…I Santuari sono mete, sono limiti, sono termini che chiudono ed interrompono il cammino [religioso]…il nostro Dio è sempre davanti a noi, come l’orizzonte…nell’erba o sul sasso, nell’oratorio o in palestra…”, un messaggio molto vicino a quello dei Vangelo Apocrifi. Purtroppo forse la Chiesa non lo considerava tale, i suoi romanzi, poemi e libri furono messi all’Indice.
Egli stesso, soprattutto negli ultimi anni trascorsi al Vittoriale, affermava di ispirarsi all’ordine francescano, facendosi chiamare “Priore”.
Era certamente attratto dal messaggio di Francesco legato al Cantico di Frate Sole, il testo poetico più antico della letteratura italiana, ed in particolare a “sora morte corporale”, “dove il corpo diventa inerte come la mota, come il sasso, come il legname, come l’escremento”.
“Io conosco il terzo luogo che anche San Francesco conobbe. Il primo luogo è la vita con le sue bellezze e i suoi dolori. Il secondo è la morte, per alcuni principio di letizia e di godimento, per altri soglia dell’orribile silenzio. Il terzo è quel senso indefinito che guida e conduce verso il destino con sicurezza piena dell’evento”.
Eppure non nega la sua diversità, forse il richiamo ad un cristianesimo delle origini “…il mio san Francesco non è quello di tutti…”. Si definiva un “francescano del quarto ordine”. Volle scrivere anche un’opera sulla “Vita di Gesù” che però non portò mai a compimento. Non fu solo il Cristianesimo, però, l’attrazione religiosa dannunziana.
Una scritta presente nella stanza delle reliquie “…tutti gli idoli adombrano il Dio vivo / Tutte le fedi attestan l’uomo eterno / Tutti i martiri annunziano il sorriso / Tutte le luci la santità / fan d’un cor d’uomo il sole / e fan Ascesi /l’Oriente dell’anima immortale”. Per me le parole di un Maestro all’apice dell’illuminazione.
Nel periodo francese, introdotto dal musicista Claude Debussy l’amico che gli musicò Le martyre de Saint Sébastien, si avvicinò al Martinismo, una Via Iniziatica fondata Papus e ripresa dal mistico francese Louis Claude de Saint-Martin il cui scopo è il “perfezionamento interiore dell’essere umano”, attraverso la reintegrazione dell’uomo nell’uomo e dell’uomo nel divino. Come gli iniziati del martinismo, egli cercava il modo di ricongiungersi al “dio inaccessibile”. Richiami al Martinismo e ai suoi collegamenti con il mondo egizio sono presenti al Vittoriale e che ritrova nella sua infanzia quando paragona la sua Pescara all’isola di Philae e la sua casa ad un tempio dedicato ad Iside. Lo intrigarono anche le filosofie orientali, come testimoniato dai numerosi testi e reliquiari ritrovati al Vittoriale, statue del Budda e delle divinità orientali. Il Vate scrive “…Una creatura divina dalle otto braccia ha due delle otto mani giunte nell’attitudine dell’ave, nell’attitudine eguale a quella della vergine quattrocentesca di legno dorato, che giunge le mani dell’amore sopra l’infante adagiato…e, di contro, la sedente divinità tibetana di bronzo dorato ha nel cavo d’una delle mani posata su i ginocchi una medaglia ebraica con l’effigie del Nazareno…”.
Studiò le filosofie orientali e il potere della “Parola” da cui era fortemente affascinato. Amante del Verbo non poteva non essere affascinato da quelle tradizioni che ad esso assegnavano un immenso potere. Scrive così “…il potere degli Indi è magico, la lor preghiera è magica, taluna lor parola è magica…se questa fosse detta ad un bastone si coprirebbe esso di fiori e di foglie…”. Il poeta non doveva essere lontano dall’idea che tutto il mondo è composto da vibrazione, e la vibrazione è potenza, il principio assoluto. Essa non può che essere l’oggettivarsi di se stessa. L’idea è che l’uomo ha in realtà una conoscenza diretta esclusivamente in un piano sensibile, cioè dominato dai suoi sensi. E’ il mondo del Fenomeno, contrapposto ad un mondo sconosciuto del Noumeno al di fuori del quale non ci può essere vita. La potenza, o vibrazione, è tutta interna ad ognuno di noi, ma non è accessibile a tutti o meglio non tutti sanno “ascoltarla”. Così anziché conoscerla e dominarla, la maggior parte delle persone ne è dominata. E’ ben chiaro come D’Annunzio avesse raggiunto l’intima essenza dello spirito, non separato e diviso tra correnti e religioni.
Dalla Magia popolare a quella Tecnologica
Se il Vate era certamente legato al mondo dello spirito, non disdegnava assolutamente la magia della “tecnica” ed in particolare quella essenza extracorporea nota come proiezione cinematografica. Da quando, nel 1900, i fratelli Lumière cedettero i diritti di sfruttamento della loro invenzione, il cinematografo si diffuse immediatamente in Europa e in Italia. E’ la nascita della sesta arte, opera visionaria che permetteva di ridurre spazio e tempo, per alcuni, come Germaine Dulac e Jean Epstein, strumento per soddisfare e riunire il corpo con lo spirito, per trasformare frammenti di piccole unità in un Uno. I primi contatti tra D’Annunzio e il cinema avvennero nel 1901 ma è nel 1913 che firma un contratto cinematografico con il regista Giovanni Pastrone per la creazione del primo kolossal italiano. Nasceva così “Cabiria”, il più famoso film italiano del cinema muto, nonchè primo film della storia ad essere proiettato alla Casa Bianca. Fu proprio D’Annunzio a dare il nome “Cabiria”, “nata dal fuoco”, e a volerlo come titolo della pellicola, in quanto nome della protagonista che il dio Moloch vuole sacrificare. Il contro-altare di Cabiria? Ebbene D’Annunzio inventa “Maciste”, per alcuni ispirato ad un eroe greco poco conosciuto, Mechisteo: uomo dalla forza sovraumana, per altri ad Eracle. Del resto questa figura non è estranea al mondo dannunziano. Eracle è legato al mondo agreste, infatti, dopo aver ucciso in un attimo di intemperanza la sua maestra, viene mandato dal padre a badare alle mandrie come pastore, assumendo, come molte altre divinità il bastone come suo simbolo. L’Ercole greco arrivato così dal Peloponneso facilmente si sovrappone a quei culti autoctoni locali dell’Italia meridionale ed abruzzesi ove era appunto venerato il dio vegetazionale da cui l’immediato successo del culto. Sia come sia, D’Annunzio inventa il primo super-eroe buono, un’icona italiana tanto da essere usato nel linguaggio comune per indicare un uomo dal fisico possente e dotato di forza eccezionale. Capì il potere della “pubblicità” divenendo lui stesso creatore di slogan o marchi, a lui si deve il nome de La Rinascente, quello dei Saiwa per l’omonima azienda di biscotti e il Tramezzino, termine che creò per sostituire la parola inglese sandwich, da “tramezzo”, inteso come momento a metà strada tra la colazione e il pranzo.
Morto nel Cupio Dissolvi
L’euroboro dannunziano si chiude il 1º marzo 1938, alle ore 20:05. Tutta la sua vita fu un continuo sfidare e cercare la morte. “Il Poeta ha deciso, quando sentirà l’ora del trapasso, di immergersi in un bagno che provocherà immediatamente la morte e contemporaneamente distruggerà i tessuti del suo corpo. È il Poeta stesso che ha scoperto la formula del liquido”. Così scrivevano alcuni giornali. Sarebbe stata davvero l’espressione dello scioglimento dell’anima dal corpo e quindi della morte. Morì nella sua villa per un’emorragia cerebrale, mentre era al suo tavolo da lavoro. Sullo scrittoio era aperto il Lunario Barbanera, con una frase da lui sottolineata di rosso, che annunciava la morte di una personalità. Fatalità? Per alcuni fu suicidio tramutato dai medici, per “ragion di Stato” in morte accidentale. Considerando la figura pubblica e la sua importanza come uomo carismatico del “periodo fascista” potrebbe anche essere. Non fu mai eseguita una autopsia o approfonditi accertamenti per meglio chiarire le cause del decesso. Se fosse stato davvero suicidio non si sarebbero potuti celebrare il funerali religiosi voluto fortemente dal Duce. I funerali vennero celebrati la mattina giovedì 3 marzo.
Esaminiamo la data: 03/03/1938. Facendo delle operazioni di somma 1+9+3+8 = 21. Ebbene, D’Annunzio aveva come suoi numeri il 3, il 7 e il 21 da lui definito “assai fausto e di ottimo presagio”. Questo gioco matematico non è una nostra semplice elucubrazione, il Vate era avvezzo a questo. In una missiva a Mario Giannantoni scrive “…erano ventuno, tre volte sette, il numero ritmico e magico del quale fui sempre studioso”. Ne La Santa Fabrica leggiamo “Caro Gian Carlo, vorrei che la messa funebre fosse celebrata alle ore 11 per la mia consueta superstizione del numero 1+1+2+7=111 1+1+2+7+1+9+2+3= 26”. Ancora non scriveva mai il numero 13 ma 12+1. Forse la data era stata davvero da lui scelta. L’Arcangelo volava verso il “terzo luogo”. AVE Comandante. La sua influenza sulla cultura italiana ed europea nei primi decenni del Novecento fu indiscutibile. D’Annunzio sdoganò costumi, atteggiamenti narcisistici, amorali da farne, come afferma Edoardo Sanguineti, “il vero figlio del nostro tempo”. Ancora oggi il suo carisma intatto e il fascino è mito.