La tradizione del Carnevale barese e la Maschera di zii Rocche

di Andrea Romanazzi

Bè, è il caso di dire “dal sacro al profano”. In questo paragrafo, infatti, ci interessiamo forse della festa più curiosa e meno sacra dell’anno: Il Carnevale. Secondo molte interpretazioni il termine deriverebbe dal latino carnem levare, ovvero “eliminare la carne”,  ed indicava che a breve sarebbe arrivato il periodo di astinenza e digiuno della Quaresima, ma non mancano ipotesi alternative come quella che lo vuole derivato da carnualia, ovvero “giochi campagnoli”. 

Secondo la tradizione popolare il Carnevale inizia il giorno di Sant’Antonio, ovvero il 16+1 di Gennaio, visto che dire 17 poteva portare male. I festeggiamenti più importanti avvengono normalmente  il Giovedì grasso e il Martedì grasso, ossia l’ultimo giovedì e l’ultimo martedì prima dell’inizio della Quaresima. A Bari, verso la fine dell’Ottocento, era corso Vittorio Emanuele II ad ospitare  lunghe file di carrozze con festose maschere che, tra la gente, lanciavano confetti, coriandoli e mazzetti di fiori. Era poi davanti alla Prefettura che i benestanti, terminata la sfilata, facevano sfoggio delle loro ricchezze gettando in mezzo alla folla denari, caramelle e confetti prima di spostarsi in  via Sparano dove continuavano i festeggiamenti. Il Giornale di Bari riportava come la via “scompariva” sotto una spessa coltre di coriandoli. Se poi per i ricchi la festa si spostava nei veglioni tenuti al Teatro del Sedile o al Piccinni, per i meno abbienti, dopo la sfilata, ci si portava nella città vecchia per il funerale del carnevale. Qui il silenzio era rotto dalla “banda dei fichi secchi” che girava per le strade fermandosi dinnanzi alle case per racimolare qualche soldo al grido di “ora vien la banda nostra, zzinnanà, zzinnannà”. Il nome dei “Fichi secchi” era legato al fatto che questi suonatori si accontentavano un po’ di tutto, anche di semi e fichi, ma soprattutto del tanto vino che chiedevano a “coppùn”, ovvero in debito, alle osterie, tanto che il capo banda era noto come Beppino Francobollo perché metteva bolli, ovvero debiti, ovunque. A differenza della maggior parte delle feste che hanno una tradizione pagana, successivamente assorbite dalla religione cristiana e da essa trasformate, il Carnevale ha mantenuto il suo spirito originario che riecheggia tra le danze e le grida di gioia. La festa ben si inserisce in quell’insieme di rituali che caratterizzano il Dio Vegetazionale, ovvero riti atti ad assicurare fertilità e prosperità ai campi. Il sacrificio del dio, divenuto maschera, altro non è che la morte della vegetazione che solo così potrà risorgere e assicurare fertilità. Ne sarebbero esempio tutti i rituali di smembramento tipici delle divinità agricole e molti racconti di miti e leggende. In Puglia la figura di Carnevale ha nomi diversi a seconda dei luoghi. A Manfredonia c’è  Ze Peppe, un allegro contadino che arriva in città per spassarsela coi sipontini ma prende una brutta broncopolmonite e muore. Il nome di Carnevale a Martignano è Lu Paulinu, mentre Farinella è il re di Putignano. Il borgo di Massafra ha addirittura due maschere,  Gibergallo e Lu pagghiuse.

A Gallipoli troviamo Lu Titoru, la cui tradizione vuole morto da polpette mangiate troppo voracemente. La caratteristica della voracità è presente anche a Corato, dove il nome della maschera, Ù panzòne, già dice tutto. Anche se dimenticata, anche Bari aveva la sua maschera e il suo “Carnevale”. Si tratta di un’usanza piuttosto recente che affonda le sue radici negli anni ‘60 ma che sicuramente riporta a tradizioni moto più antiche. La figura simbolo era “Zii Rocche” un fantoccio che in passato era portato a spalla da donne travestite da uomini e viceversa, seguiti da ragazzi che portavano “u chescine” di fiori in vaso da notte, il meglio noto “prise”.  La maschera, raffigurante un contadino zoticone o, in altri casi un operaio metalmeccanico, era caratterizzata da alcuni elementi particolari, tra le sue gambe veniva apposta un’enorme carota, in dialetto la “bastenéche”, segno di virilità e fertilità. La storia del personaggio verteva attorno alla sua morte, per crepacuore, a causa dei continui tradimenti della moglie, la Pacchianedde, da cui la messa in scena del funerale. Nel corteo la donna era spesso personificata da un robusto portuale con la faccia arrappàte, ovvero, aggrinzita, che, fra false lacrime, invocava il suo Rocche. Il corteo era poi caratterizzato da cori licenziosi e dalla moglie disperata che, stringendo un asciugamano intriso d’acqua che di tanto in tanto strizzava,  piangendo il morto ripeteva “Ah, Rocche, Rocche, e mmò ce l’av à chiatà la bastenàche?” e la fatidica risposta del gruppo “O la chiànda tu o la chiàndo io, O in gasa tua o in gasa mio” ovvero “o la pianti tu, o la pianto io, o in casa tua o in casa mia”. Faceva parte del corteo anche un finto prete che salmodiando in dialetto e farfugliando parolacce, aspergeva la salma attingendo acqua da dentro un orinale per mezzo di uno scopino da prise.  Particolare interessante era poi il carro funebre, elemento principale del rito del funerale, addobbato con verdure e fiori, ovvero con l’elemento vegetazionale. Su questo, dopo la sfilata, veniva caricato Rocche, sempre con la “Bastinachè” in evidenza (Fig.48). Il richiamo ai culti e soprattutto all’immagine osiridea è fortissimo. Dopo aver percorso le vie della città vecchia il fantoccio riceveva, come detto,l’ultima benedizione in piazza Mercantile, edinfine veniva bruciato tra le fiamme di un falò allestito tradizionalmente davanti all’Arco Alto o in largo Albicocca.

Spesso il momento era salutato da un canto popolare

“…Carnevale è un pomodoro

La moglie è un’imbrogliona

Le piacevano i ceci cotti

Carnevale se ne morì.

Evviva evviva Carnevale

Carnevale non te ne andare

Ti abbiamo fatto un bel cappello

In ogni punto un involtino

Viva viva Carnevale…”.

Immagine di zio Rocco sul carro funebre

La festa fu celebrata almeno fino agli anni ’40, poi se ne sono perse un po’ le tracce. In realtà il Carnevale barese doveva essere molto più complesso e ricco di maschere. Antonio Nitti di Vito, poeta e demologo barese, vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, citava, in un articolo apparso su  «La Gazzetta di Puglia del 1923, tre maschere, “Varvecole”, “Cacciatòre”, “Marange”. Il primo era un goffo personaggio vestito con una maglia indossata all’incontrario, un cappuccio e una bisaccia contenente confetti che offriva alle ragazze. U Cacciatòre era invece una sorta di “trickster”, armato di uno fucile, prendeva di mira le persone fino a farsi offrire sigarette o filtri. Aggiungiamo un po’ di pepe alla storia. Secondo alcuni studiosi, però, la prima e vera maschera barese, addirittura settecentesca,  era “Marcoffie”. Secondo Michele Fanelli, studioso locale, nei suoi volumi U settane e Suse Mmenze Abbasce, riferisce come la maschera Marcoffiesia anche riportata dagli storici Francesco Saverio Abbrescia e Antonio Beatillo. Il primo lo cita mentre riporta alla luce una antica fiaba pugliese, la storia della Luna e del suo re, Marcoffie. Nella “Bergenèdde ca scènne da la Lune” in Rime Italiane e Baresi, a cura di Antonio Dentamaro. Qui appare, appunto, Marcoffie uomo mezzo cieco, Marcoffie u cecatìidde, con occhi cisposi, lerci, “leggendario abitatore della Luna, che ogni popolano barese crede effigiato nei chiaroscuri del luminoso disco della notte”. Nella Rassegna Pugliese del 18 Aprile del 1887 viene citato come il “pulcinella barese” e anche nella Rivista italiana di letteratura dialettale del 1930. Sempre Fanelli scrive che Marcoffie “è raffigurato con un vestito bianco e rosso, con un bastone e tre palle che fanno riferimento al suo essere giocoliere, con nastri e nastrini che sono contro la scaramanzia”. Lo stesso Fanelli lo collega alla figura di San Nicola, in cui il bastone rappresenterebbe il pastorale e le palle le tre sfere, elementi iconografici del Santo di Myra. ma su questa presunta maschera e la sua esistenza, il dibattito è davvero acceso. C’è gente che giura che non sia mai esistita e, come capita spesso a Bari, su questi argomenti si consumano infiniti dibattiti e “chiacchiere”. Come dite? Volete la ricetta anche di queste “chiacchiere”? Si, perché, per chi non lo sapesse, con questa parola si indica anche un tipico dolce carnevalesco.Prendete un chilo di farina, cento grammi di zucchero, cento grammi di burro, quindici grammi di sale, quattro o cinque uova.Realizzate l’impasto  aggiungendo un bicchierino di cognàc e, dopo averlo lavorato, lasciatelo riposare per un’oretta. Stendete così la pasta cresciuta con il  matterello realizzando una sfoglia dello spessore di circa due millimetri bucherellandola qui e lì. Tagliate la sfoglia a forma di rettangoli, friggete i pezzetti  in abbondante olio bollente e, dopo averli fatti raffreddare,cospargeteli di cannella e zucchero a velo. Buon Carnevale!

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