Esistono racconti nel folklore italiano che parlano di Fate che lavano i panni nei fiumi e nelle sorgenti. Ogni volta che un uomo, pastore o contadino, si imbatteva in queste figure, perdeva la vita. Le “lavandaie” possono essere fate, streghe o fantasmi, certamente creature dell’acqua. Sono donne viste nei pressi di una sorgente a lavare i panni. Si fanno aiutare dai viandanti incauti, che sono così costretti a strizzare i panni finché si ritrovano spezzate le ossa delle braccia. Questa leggenda è propria della Liguria.
Senza Autore – Da un vecchio file su PC
Esiste un sottile confine fra cielo e terra, sui nostri monti: è una linea lieve, una sbavatura di luce, fatta da una diversa qualità dell’aria, che si stempera nel freddo dei crinali, che avvolge le vette e copre di nebbia iridescente le cime dei faggi. Dicono i vecchi che una volta, quando il mondo camminava con le stagioni e la gente sapeva ascoltare la montagna, il confine stava più in basso, si stendeva lungo la linea di certi boschi appena fuori dai paesi, lungo alcuni dei sentieri che da mezza costa salivano fino ai pascoli, alle terre da fieno; erano, quelle, strade da non percorrersi da soli, specie all’imbrunire, quando non è più giorno e non ancora è notte e l’ aria si fa densa di ombre tra i rami. La fontana di Bacion stava lungo uno di questi cammini, era poco più di una pozza che i contadini avevano allargato e circondato di sassi, per rendere agevole l’ abbeverata alle bestie, un funtanin come tanti altri, che si usava da tempo immemorabile e chi fosse il Bacion al quale si riferiva, ormai non se lo ricordava più nessuno.
Se ne servivano tutti, andando o tornando dai fieni, a seconda del bisogno, perchè l’ acqua del monte non ha padroni, al contrario dei boschi e delle terre. Fosse stata più a valle, in un punto utile per annaffiare gli orti, allora ci sarebbe potuta essere questione, ma lì in cima, fra gli alberi della Ciappa, poteva solo calmare la sete delle mucche e non veniva usata per nient’ altro.
Così la volta che Lorenso vide una donna lavare nella pozza si stupì e volle avvicinarsi per guardare.
Il sole era appena tramontato, lasciando il cielo tinto di rosso e oro e l’ aria andava facendosi bruna di ombre e vapori fra i tronchi dei faggi; Lorenso si era dato un gran daffare tutta la giornata per finire una certa terra più in alto delle altre e tornava, con la baracca colma, dando la voce alle bestie stanche.
Non era uomo da preoccuparsi dell’ ora, né del luogo dove stava passando, perchè, da sempre, aveva considerato i detti e le storie che si sentivano nelle veglie, favole per far paura ai bambini, pure, vedendo la figura accosciata accanto all’acqua, si sentì freddo fino in fondo alle ossa e forse fu proprio per quello che volle andare a vedere.
Nell’aria incerta del crepuscolo la donna stava china al limite della pozza, chiara nella nebbia sottile che si spandeva fra i faggi; pareva inginocchiata e volgeva la schiena al sentiero.
Le spalle erano solo leggermente curvate e la nuca sembrava più bionda che bianca, chiara, comunque, nella luce fioca della sera.
Lorenso, lasciando le bestie sul sentiero, se la figurò giovane, per via della posizione e della snellezza della figura.
Passo dopo passo, nel silenzio ovattato del bosco, sentiva il cuore pulsargli dentro le orecchie e una strana inquietudine prendergli la gola, facendo il respiro sottile e sibilante. Non riusciva a staccare gli occhi dalla sagoma china sulla polla e, man mano che si avvicinava cominciava a distinguere il lieve movimento delle braccia sui sassi accanto all’acqua.
– Lava- pensò e si chiese perchè mai una donna stesse a trafficare lì, così lontano dal paese.
Non gli sembrava una figura familiare e anche l’ abito, per quanto si poteva vedere, non era di quelli che usavano le spose e le ragazze dei dintorni.
Le mani della donna sfregavano panni nell’acqua col ritmo costante di un lavoro consueto, ma a Lorenso la tranquillità del movimento metteva addosso un’ inquietudine che non riusciva a spiegarsi.
Fu per scuotersi, rompendo il silenzio spesso del bosco, che le rivolse la parola:- Vaala? – disse e il saluto suonò ovattato nell’aria, innaturale.
–A va nente, fante– la donna voltò il capo, la voce nascosta fra le ciocche che le spiovevano chiare contro il viso.
L’ aveva chiamato ragazzo, eppure, anche da vicino confermava l’ impressione di giovinezza acerba che Lorenso aveva avuto guardandola dal sentiero.
Così la osservò con attenzione e, a dispetto delle parole di lei, gli sembro poco più di una bambina, con le braccia scarne che sbucavano dalle maniche rimboccate oltre il gomito e la figura minuta, china sui sassi.
Le mani si erano fermate, nella fosforescenza biancastra della nebbia l’ acqua della polla era nera, viscida di sangue.
La ragazza lavava una camicia, di tela grossa, da contadino, ordinaria come quella che Lorenso aveva indosso; la camicia aveva uno strappo poco sotto il colletto e da lì il sangue usciva a fiotti, come da una ferita viva.
Si ritrasse con un moto di disgusto, mentre la donna scostava i capelli dal viso con la mano e rimase lì a guardare per un tempo che gli sembrò infinito la faccia magra e gli occhi gialli che lo puntavano maligni.
Un frullo di ali sui faggi lo sciolse dalla fascinazione, si voltò e prese a correre verso il sentiero inciampando nei propri passi: cadde e la marassa che teneva in mano lo perforò, poco sotto il colletto, uccidendolo.