Incisioni Rupestri tra Piemonte e Val d’Aosta: Le Barche dei Defunti

di Andrea Romanazzi

L’archeologia montana si basa su labili tracce poiché l’uomo che frequentava le zone alpine poteva portare con sé solo pochi oggetti, spesso anche deperibili ed inoltre le sue sistemazioni, ripari di fortuna o cavità naturali non hanno favorito la conservazione di eventuali reperti. Nonostante queste difficoltà l’uomo antico ha guardato alla montagna come importante risorsa da utilizzare e frequentare, anche se all’inizio solo stagionalmente, alla ricerca di pascoli, animali e materie prime. E’ durante questa frequentazione che vennero individuati i percorsi più vantaggiosi e i valichi più utili per il transito tra le pianure e l’Oltralpe e che furono lasciate tracce della sua millenaria presenza sull’arco alpino. E’ in questo contesto che, viaggiando tra il Piemonte e la val d’Aosta, non si può non fermarsi nel meraviglioso borgo di Bard dominato dal suo omonimo forte. Situato presso una gola posta vicino all’ingresso della valle, dove la Dora Baltea tocca il suo punto più stretto, il forte, posto tra Verrès e Pont-Saint-Martin, domina, da uno sperone roccioso, il passaggio obbligato per quella che un tempo era la via per le Gallie.

Proprio per queste sue caratteristiche la rocca di Bard doveva essere fortificata fin dall’epoca preromana. E’ però al 1034 che risale la prima citazione di un insediamento fortificato appartenente al visconte di Aosta, Boso. Successivamente fu, per lungo tempo, dominio della signoria dei Bard, il cui influsso si estendeva lungo tutta la vicina valle di Champorcher e, per la sua posizione strategica il maniero era considerato un sicuro baluardo contro tutte le invasioni. Con il crescente potere sabaudo, la fortezza fu conquistata nel 1242 da Amedeo IV di Savoia e da allora divenne il presidio delle forze del Ducato in Valle d’Aosta. La zona, però, come detto, era già abitata dal Neolitico, varco di passaggio e forse luogo sacro. Infatti, a breve distanza da castello, nei pressi del cimitero del paese, si trova bellissimo ma poco conosciuto geo-parco, un luogo ricco di rocce con coppelle, canaletti rituali ed incisioni rupestri.

In particolare, si trovano disegni datati tra il 3000-2700 a.C. che rappresentano serpenti,  raffigurazioni antropomorfe, disegni a forma di luna, canaletti e reticoli incisi. Il più curioso simbolo, però,  è quello di una barca stilizzata, datata al VI-V secolo a.C.,

nell’ambito della cultura di Hallstatt e un masso noto come “scivolo delle donne” che rappresenta la testimonianza di un rituale di propiziazione della fecondità femminile.  Il Liliu scriveva: “…cerimonie a sfondo magico e religioso dovevano effettuarsi presso le rocce, gli dei di pietra al naturale…qui si celava lo spirito fecondatore. Questo come attestano elementi residui del folklore delle pietre, era assunto, magicamente, dalle vergini spose, scivolando nude, sul pilastro…o sfregandovi il ventre e il sesso o semplicemente arrampicandosi: era il sacrificio venereo al genio della pietra, perché il grembo femminile non negasse la prole…”. Si tratta dunque di un luogo sacro rituale come indicherebbe la presenza di coppelle di cui ci siamo già interessati con un altro approfondimento. Il geo-parco, visitabile liberamente in ogni periodo dell’anno, è però più noto per già citata, inusuale, incisione a forma di “barca”, legata al mondo dell’aldilà e dei defunti. La “barca Sacra” altro non sarebbe che un battello fluviale elevato a simbolo di imbarcazione rituale usata come mezzo di trasporto in ambito funerario e religioso, come attesta la vasta documentazione iconografica-letteraria. Curioso è anche il fatto che il cimitero di Bard, ancora oggi, si trovi a pochi metri dal geo-parco. Secondo alcuni studiosi, in particolare, la protome della stessa raffigurerebbe una testa d’uccello, simbologia non casuale. Secondo l’archeomitologa Marija Gijmbutas, una delle rappresentazioni della Grande Madre come espressione di morte era l’uccello. Non deve sorprendere che la dea della fertilità sia connessa ai defunti, infatti per il primitivo solo la morte poteva assicurare la rinascita. Moltissime sono così le rappresentazioni della mater come figura ibrida tra donna e uccello, statuette che rappresentano questo tema le troviamo già datate 16.000-20.000 anni a.C.. La tradizione è continuata successivamente anche nella cultura classica insinuandosi nelle tradizioni e nel folklore popolare. L’immagine della dea raffigurata come ibrido tra donna e uccello la ritroviamo nella mitologia celtica, come ad esempio la dea Morrigan, da mori-rigan, nome che significa contemporaneamente “Grande Regina”, o “Regina dell’incubo”, che, tra i suoi molteplici aspetti, poteva assumere sembianze di volatile e in particolare era conosciuta come Badgihbh, “la cornacchia”.

Torniamo però al nostro territorio alpino. La barca di Bard è davvero un “unicum”? Se dalla valle d’Aosta ci spostiamo nel biellese, ed in particolare visitiamo il Museo del Territorio di Biella, una strana analogia salta subito all’occhio. Infatti è qui presente una stele datata II-I millennio a.C. proveniente da Castelletto Cervo

un piccolo comune situato sulla sponda sinistra del torrente Cervo, laddove si incunea di un suo affluente, l’Ostola. Su questa è presente una figura antropomorfa con gli arti superiori levati in una posa da preghiera, un mascherone schematizzato da occhi, naso e bocca ed infine una incisione simile a quella di Bard che però, nel Museo, è indicata essere un canide. Basta però osservare meglio entrambi le raffigurazioni per capire l’interessante analogia. Molto più probabilmente anche la raffigurazione di Castelletto Cervo raffigurerebbe un’altra barca funeraria.

Culto dell’Antenato, dunque, ed elemento navale. Per l’Antico il regno dei morti era il cielo, considerato come un fiume che il defunto  avrebbe dovuto attraversare per raggiungere gli dei. Questa credenza è rimasta, ad esempio, nel folklore nordico.

Procopio di Cesarea, nella sua Guerra Gotica, descrive le strane abitudini di alcuni abitanti di borghi di pescatori situati dall’altra parte del mare, in quell’area che oggi è appunto nota come la Bretagna. Alcuni di questi individui avevano un compito strano, quello di traghettare le anime dei morti

“…A tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta e odono una voce soffocata che li chiama all’opera. Senza esitazione saltano giù dal letto e si recano sulla riva del mare…sulla riva trovano barche speciali, vuote. Ma quando vi salgono sopra le barche affondano fin quasi al pelo dell’acqua come se fossero cariche…dopo aver lasciato i passeggeri ripartono con le navi leggere…”.

Ancora oggi in Bretagna per ritrovare, arenate nelle sacche di sabbia dovute alla marea, vecchie barche oramai in disuso. Nessuno però si azzarda a spostarle o portarle via, ancora oggi queste sono le barche che traghettano i morti. Rituali funebri che prevedevano l’utilizzo di barche erano infatti in uso nel VI-VIII secolo in Scandinavia, presso Anglosassoni, i Franchi, i Rus’, i Balti fino a giungere ai popoli germanici per i quali questo tipo di funerale era visto come un grande onore. I vichinghi cremavano solitamente i loro morti in barche funerarie, come provato da reperti archeologici e dalle saghe norrene. Il morto era solitamente deposto in una barca assieme a delle offerte funebri stabilite in base allo status e alla professione del deceduto. C’è ancora un particolare che va esaminato. E’ davvero incredibile la somiglianza tra i due graffiti e la tradizionale imbarcazione nordica o drakkar. Generalmente la prua di queste navi era “decorata” con minacciose teste di drago o con divinità mostruose per spaventare i nemici. Non dobbiamo però scomodare popoli così lontani, temporalmente e geograficamente rispetto i graffiti succitati. Infatti sappiamo che il popolamento dell’arco alpino può essere diviso in tre fasi, una pre-indoeuropea, una uralo-altaica ed infine una indoeuropea. Fanno parte della prima fase i Liguri, una popolazione autoctona, erroneamente collegata ai Celti, ma che per molti studiosi è di origine mediterranea. Gli scrittori dell’età antica identificavano tale popolazione con etnie sparse in un territorio ben più ampio della cosi detta Liguria pre-romana. I Liguri apparivano ai romani quali discendenti di stirpi mediterranee confinate, dopo la venuta degli Italici, nella zona nord occidentale della Penisola, ovvero stanziati tra l’Arno e il Rodano. Il Balbo e il Cibrario reputavano discendessero dai Tirreni. Almeno fino al 500 a.C. i Liguri dominarono l’area. E’ dunque indubbio che i primi piemontesi fossero di stirpe ligure-mediterranea. Per queste popolazioni la navigazione doveva rivestire un ruolo molto importante. Come potevano essere le loro barche? Certamente sarebbero state simili alle navicelle nuragiche in bronzo tipiche della civiltà sarda che nacque e si sviluppò abbracciando un periodo di tempo che va dalla piena età del bronzo (1800 a.C.) al II secolo d.C. (Fig.9) Qualcosa a che fare con le “protomi” di Bard o Castelletto Cervo?

Sarebbero queste raffigurazioni legate al culto degli Antenati e alle barche dei defunti? Un’altra curiosità alpina che merita certo un approfondimento.

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