Il culto della dea madre in Puglia: Egnatia e Cibele

di Andrea Romanazzi

La Puglia è stata da sempre metà di turismo e trasporti. Tra le sue numerose località, cariche di storia, ci soffermiamo su Egnazia, in lingua messapica Sull’antica strada di comunicazione della Repubblica romana che congiungeva l’Adriatico con l’Egeo e il Mar Nero.

Citata da Plinio, Strabone ed Orazio, che la ricorda in una Satyra che narra il suo viaggio da Roma a Brindisi.

« Per chi naviga da Brindisi lungo la costa adriatica, la città di Egnazia costituisce lo scalo normale per raggiungere Bari, sia per mare che per terra. »

La più antica occupazione dell’area risale al II millennio a.C., periodo che vide nascere le prime rotte commerciali tra il Tirreno, l’Adriatico e il mar Egeo. L’insediamento vero e proprio, datato XVII-XVI secolo a.C. sul promontorio oggi noto come Acropoli era caratterizzato da una serie di capanne e vari siti per la conservazione delle derrate alimentari, dai cereali alla carne. Si doveva trattare, dunque, di agricoltori ed allevatori, ma anche filatori e ceramisti. I veri e propri mutamenti dei villaggi dell’area sono dovuti, però, all’arrivo degli Iapigi, di origine illirica o cretese. Gli storici greci, identificavano spesso la Japigia con la sola Messapia, sia perché gli Japigi parlavano il messapico, sia perché mettevano in relazione l’origine di questo popolo con il leggendario figlio di Dedalo, Iapige, che guidò i cretesi fino a stabilirsi nei pressi di Taranto. La provenienza cretese è anche richiamata anche da Erodoto nella sua narrazione del viaggio di Minosse in Sicilia, alla ricerca di Dedalo. In realtà gli Iapigi si amalgamarono con la popolazione indigena dando origine ai gruppi sopra descritti. E’ in questo periodo che Egnazia diviene un vero e proprio villaggio, con grandi mura difensive, strutture abitative parzialmente murarie, fornaci e luoghi di culto dove si praticavano riti in onore delle divinità ctonie e della fertilità.  Troviamo Batas, una sorta di Zeus greco, Thana, assimilabile ad Artemide, Damatra, dea della fertilità il cui culto è richiamato dal ritrovamento di una fiaccola a quattro bracci presente su un lastrone di copertura tombale (Fig.1).

Erano poi cultuate divinità solari, i kyrioi theoi, legati alla morte e resurrezione proprio come l’atro che, ogni giorno nasce e tramonta. E’ su questi culti che, con l’arrivo e la conquista romana si sovrapposero quelli , non dissimili, asiatici di Cibele, Attis e della Dea Madre. Cibele era una divinità frigia, signora della natura venerata sui monti dell’Asia Minore. Il suo culto, importato appunto dall’oriente, si diffuse, insieme a quello del suo compagno Attis,  ad Egnazia.

La cui leggenda vuole che il dio (fig.2)

fosse nato da un frutto di melograno fecondato dalla figlia del dio fluviale Sangario (fig.3). Egli raffigura splendidamente l’immagine dello “sposo” e compagno della dea Cibele che lo seguiva nelle sue spedizioni di caccia e del quale si innamorò perdutamente.

“…Attis, un giovinetto frigio che abitava nei boschi, di mirabile aspetto, vinse di casto amore la dea incoronata da torri, ella lo volle a sé riservato e custode del suo tempio e disse :” Fa di rimanere sempre fanciullo!...”

In realtà il giovane tradisce il giuramento fatto alla dea ed innamorandosi della figlia del re Mida e così, il giorno delle nozze, la dea, vistasi  defraudata del suo amore, fece impazzire tutti i partecipanti al banchetto, tra cui la bellissima moglie di Attis che, per disperazione, si evirò sotto un pino.

“…stimulatus ibi furenti rabie.vagus animi,devolsit ilei acuto sibi pondera silice…”   (fuori di sé, in preda a rabbia furiosa, si recise il sesso)

La stessa divinità, avendo compassione del suo amato, lo trasformò in un albero e indisse una festa funebre in suo onore durante la quale i suoi sacerdoti dovevano cercare il corpo del “dio” e fingere di ritrovarlo per  poi danzare al suono dei tamburi per tutta la notte. La ricorrenza si svolgeva il 22 Marzo, durante il periodo dell’Equinozio, e legata ai cicli riproduttivi di morte e rinascita della natura. Si narra che i dendrofori, o portatori del pino, trasportassero al tempio di Cibele, il sacro albero rappresentante il dio avvolto in bende ed ornato di violette, simbolo del dio morto dal cui sangue erano sbocciati i fiori.  Era il Tristia, il giorno della morte. Dopo due giorni di digiuno i sacerdoti della dea usavano autoflagellarsi in modo da imitare Attis, tradizione che un po’ riporta ad alcuni rituali ancora oggi diffusi nell’Italia meridionale il Venerdì Santo come quelli delle processioni di flagellanti.  Era il Die Sanguinis. In alcuni casi si autoeviravano offrendo i loro genitali alla Grande Madre su un piatto circondato da lucerne. Infine il 25 Marzo, finalmente la Resurrezione, l’Hilaria, il Dio rinato condotto sul carro della Dea. Altra sorte toccava invece al novizio che  veniva iniziato ai misteri mangiando da un tamburo e bevendo da un cembalo, due strumenti musicali che avevano una parte preponderante nella rumorosa orchestra del dio. Il digiuno che accompagnava i lamenti per la morte di Attis  aveva forse lo scopo di preparare il corpo del comunicando a ricevere il santo sacramento purgandolo di tutto quello che avrebbe potuto contaminare col suo contatto i sacri alimenti. Per il battesimo il fedele, incoronato d’oro e avvolto di sacre bende, scendeva in una fossa la cui bocca era ricoperta da una grata di legno, veniva allora spinto su questa un toro ornato di ghirlande e di fiori, e sgozzato con una lancia consacrata. Il suo sangue caldo e fumante scendeva a torrenti dalle aperture e l’adoratore lo riceveva con ansietà sopra ogni parte del corpo, finché usciva dalla fossa tutto grondante e di color scarlatto dalla testa ai piedi come se fosse rinato e lavato da tutti i peccati. Si prolungava poi  per qualche tempo la simulazione della nuova nascita, mettendolo a dieta di solo latte come un neonato. Culti misterici, culti misteriosi. Una leggenda vuole che una enorme statua di oro zecchino fosse stata fatta come simulacro alla divinità, poi dispersa durante un maremoto che distrusse la città. Leggende, come quella che vuole che l’area fosse sacra alla ninfa Gnathia, sotto la cui ara però, dimorasse un demone custode di un sacro fuoco. Bastava avvicinare della legna a questo sito che prendesse fuoco da sola. Forse il ricordo dei fuochi dedicati a Damatra, mentra la ninfa altro non doveva essere che una delle sacerdotesse della dea, chiamate Tabapa, ovvero sacerdotessa. Ecco così che su un basamento dedicato ad Attis, troviamo una dedica a Flavia Cypare, sacerdotessa di Cibele e Syria, nota anche come Atargatis(Fig.4).

Oggi tutto questo è raccontato, attraverso scavi e ritrovamenti, nel bellissimo museo archeologico. Ed è qui che incontriamo l’ultima curiosità, forse la meno nota.

Il simbolo taurino è però celato anche in altre raffigurazioni, in maniera molto più “sottile”. Già nel Neolitico abbiamo delle curiose raffigurazioni della Dea definita “Uccello” raffigurata con le braccia alzate.

In Egitto, nella cultura Minoica e successivamente in quella greca ritroviamo curiose rappresentazioni di una o più donne dalle braccia alzate. Tale raffigurazione, caratterizzata da un lungo collo fallico, veniva spesso associata al serpente o dando origine alle raffigurazioni denominate “Dea Uccello” descritte dettagliatamente dalla Gimbutas. Raffigurazioni simili le troviamo su vasi paleolitici africani, in Sardegna nel periodo nuraghe, a Cnosso dove sono state ritrovate quelle che vengono chiamate  “Dee con le braccia alzate”  fino a giungere alla nota raffigurazione della dea dei Serpenti. L’elenco sarebbe davvero lunghissimo. Fin ora gli archeologi hanno descritto tali statue come raffiguranti “atteggiamenti di danza”. Max Raphael, in Preisthoric Pottery and Civilization in Egypt, afferma

“…La figura in argilla di una donna a braccia alzate che riveste un ruolo rilevante nel culto dei morti sin dai tempi di Amratam, può essere considerate come rappresentante una danzatrice, poichè in un disegno su vaso al Brooklyn Museum, vi sono due uomini che sorreggono le braccia alzate, tenendo la donna direttamente sotto le ascelle, per aumentarne l’effetto della postura e prolungarlo…”.

Quanta poca considerazione dell’Antico! Quando l’uomo moderno non sa spiegare, ecco che ricorre alle scene revisionistiche di futili balletti di danza classica tipici dei tempi odierni. Su questo si basa oggi l’interpretazione. Per altri, con una sorta di revisionismo dogmatico in cui la donna versa spesso nello sgranar rosari, sarebbe un atteggiamento religioso, di “preghiera”. Chi o cosa pregherebbe una Divinità? L’immagine della “donna adorante” deve essere abbandonata. Il gesto, invece, rappresenta appunto il “toro” femmineo, il simbolo del femminile che attraversa tutto il Mediterraneo: il “Cornuto” da cui proviene la vita.

Dal toro alla luna il passo è breve. Molte delle divinità femminili già precedentemente descritte sono spesso associate alla Luna.

L’Antico ha sempre osservato il cielo e visto nel Sole e nella Luna le sue divinità. La dea lunare era anche indicata con il termine indoeuropeo “me”,  da cui deriverebbero le parole latine “mesis”, cioè mese, e altre come mestruazione, mestruo, metro. Infatti il ciclo lunare durava 29 giorni, periodo molto vicino a quello del ciclo mestruale della donna alla quale la luna fu associata, ed inoltre ad essa era legato il governo delle maree e del flusso mestruale del sesso femminile. I riferimenti alla Luna li abbiamo spesso incrociati nel nostro excursus, dai pozzi sardi alla grotta di Laussel dove abbiamo incontrato la dea rappresentata con il corno o la mezzaluna crescente. Ed è proprio qui il legame con la Mater. Ben lungi da essere un culto a sé, la Luna è l’astro della Dea per eccellenza, quale altro, infatti, presenterebbe nel suo aspetto le famose “trombe” uterine, le corna del taurum abbondantemente incontrate? Guarda caso in Egitto la Mater era Hathor, la dea vacca con le “corna uterine” tra le quali sorge il sole, quasi ad identificare la dea dalla quale nascono e provengono tutte le cose.

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