Di Andrea Romanazzi
Sin dall’antichità l’uomo si è occupato della musica, per Pitagora le note musicali sono state comunicate all’uomo direttamente da dio. Gli studiosi della kabbalah ritengono combinando in modi particolari le lettere sacre dell’alfabeto ebraico si possano compiere veri e propri miracoli. Anche nella letteratura ritroviamo il potere della musica, armonie in grado di distruggere come nel caso delle trombe di Gerico o in grado di soggiogare le menti come nel caso del canto delle sirene.
“I blues cadono come grandine, i blues cadono come grandine, e il giorno continua a ricordarmi che c’é un demonio che mi segue, un demonio che mi segue” (Hellhound on My Trail, Robert Johnson)
Da sempre il Blues (la cui traduzione significa “malinconico”) è conosciuto come la musica del diavolo. Questo lato oscuro del famoso genere musicale, base della musica moderna e soprattutto del successivo genere Rock, ha molte spiegazioni, per alcuni è legato al genere di vita condotto dai suoi esponenti, dediti spesso all’alcool e al gioco, per altri è dovuto alle sue origini strettamente legate alla cultura afroamericana, per altri invece deriva da una gotica leggenda riguardante forse il più importante esponente del genere: Robert Johnson.
Si narra infatti che l’artista si fosse recato ad un crocicchio ove, incontrato il diavolo, gli chiese di farlo diventare un grande musicista in cambio della sua anima. Sarà per approfondire una delle leggende più inquietanti della storia della musica che ci addentreremo nei meandri della cultura “nera”, alla ricerca delle “origini del blues”, tra riti voodoo e strane iniziazioni, per capire cosa c’è davvero dietro la leggenda del magico Johnson.
La storia del Blues affonda le sue radici nel passato quando, tra il XVI e il XIX sec. furono deportati come schiavi, negli Stati Uniti d’America, più di 10.000.000 di africani, la “forza lavoro” di cui i nuovi coloni europei avevano bisogno per poter sfruttare le ingenti risorse del nuovo Mondo. Imbarcati però in catene su navi negriere, accalcati in stive al di sotto di ogni limite di igiene e condizione umana alle quali solo un terzo dei deportati sopravvivevano, nascosti tra tatuaggi e parole incomprensibili, i neri d’africa portarono con loro anche le tradizioni, la cultura e soprattutto le credenze religiose di un popolo dalle antiche origini.
Nella religiosità africana grande importanza viene data al suono e alla parola, l’energia mistica carica di energia e ritmo, de resto basta analizzare il linguaggio bantù per rendersi conto come ogni frase racchiude in sé un mistico e misterioso potere. Un’idea, quella del suono e dunque del verbo come principio di ogni cosa, non estranea neanche alla cultura occidentale. Queste forze però non sono note a tutti e così lo sciamano o lo “stregone” è colui riesce ad interpretare questi suoni e a utilizzarli: da qui il nome di “signori della parola”. Danza, musica e ritmo sono così elemento essenziale di ogni cerimonia religiosa di origine africana e il sacerdote non è altro che il “maestro d’orchestra”.
Altri due elementi che serve focalizzare sono l’animismo e il concetto del sacro rituale. Secondo le credenze religiose bantù, ma lo stesso dicasi per qualunque animismo, ogni cosa che ci circonda è dotata di uno spirito o di una essenza spirituale, da qui ad esempio proviene l’idea dell’energia insita nel feticcio o nell’amuleto, oggetti che, tipici delle società animiste, sono rimasti come monito di un antico passato ancora oggi nel nostro mondo tecnologico. Tra tutte le varie forme spirituali esistenti le più importanti sono rappresentate dagli oristàs, gli spiriti extraterreni, un concetto che potremmo facilmente assimilare a quello delle divinità politeiste anche se la differenza è notevole. Ognuno di questi regola o domina un determinato “regno” e a lui bisogna rivolgersi per ottenere favori, un po’ come i nostri santi con i quali, successivamente, gli orixàs si “sposeranno”. Tra questi i più terribili e temuti sono gli Exù, spesso rappresentati con una pala alla quale vengono appese conchiglie al posto degli occhi e della bocca. Questi sono la forza ostile agli uomini e senza il cui consenso nessuno delle altre “divinità” concederà mai il suo favore, da qui il diffuso culto per queste figure malvagie che, ben lungi dall’essere una adulazione del demonio, come sarà poi considerata in seguito dalla Chiesa, è solo un modo per ottenere la possibilità di realizzare la propria richiesta ad altri spiriti. Così non è peccato e non significa adorare il diavolo tentare di approfittare di lui, concetto che ritroviamo anche nei “Fondamenti dell’Umbanda” dove si dice che “l’exù è cattivo e sempre pronto a farci del male, però volendo anche l’exù può aiutarci e servirci per scopi buoni, quindi dobbiamo sforzarci di tenere buoni rapporti con lui”. Da qui la spiegazione del perché in ogni casa, in ogni luogo sacro, ci fosse un altare ad Exù, non dunque una adorazione del male dalla quale diffusione, poi, è derivata la paura e l’immagine demoniaca del voodoo, ma solo un modo per usarlo in maniera buona. Cibi ed offerte per gli Exù erano così galline, sigari, acquavite, tributi che, per avere effetto dovevano essere posti in luoghi sacri alla divinità, i cimiteri o ancora di più i Crocicchi, luogo che ritroveremo in seguito e dedicato in particolare a Exù rey de las sieste encrucijadas, il “signore degli incroci”.
Quando queste culture africane entrarono in contatto con i missionari europei, esse parvero barbare e dunque ogni uomo e donna doveva essere convertito alla nuova religione in nome della superiorità dottrinale del Cristianesimo, senza curarsi delle millenarie tradizioni di un popolo. In una religione carica, però, di figure come quella cristiana, e il riferimento va ai Santi che per certi versi molto ricordano gli orixàs, il subalterno mondo religioso africano continuò a vivere, infatti, con un’opera di sincretismo, nascosti dietro Sant’Antonio da Padova o la Madonna stessa, si celavano gli antichi spiriti degli avi. Allo stesso modo, così, dato che Satana era il male per la religione cristiana, fu facile personificarlo con Exù, da qui la facile “confusione” tra le due figure.
Per adorare e chiedere favori agli orixàs, però, ruolo fondamentale aveva il sacerdote che, durante una “assemblea” , termine dal quale deriva proprio “macuba”, entrava in trance per poter parlare con essi. Qualunque costruzione poteva essere usata come luogo di culto, essa era divisa in tre zone, la prima riservata all’orixàs evocato, la seconda alle anime e la terza agli exù. La parte centrale era riservata al medium e alla sacra orchestra. Infatti lo stregone poteva raggiungere lo stato di trance solo attraverso la musica, il ritmo o la vibrazione realizzata attraverso tre sacri strumenti, l’atabaquet, il tamburo, con i suoi ritmi ripetitivi e ossessivi, la maracas, definita come la parola dello spirito, e l’agogo, due campanelle di ferro da percuotere con una bacchetta metallica. Era proprio il ritmo ossessivo di questi strumenti che portava il sacerdote allo stato di trance e a parlare con gli spiriti.
Questi concetti ora esaminati non vogliono avere la pretesa di spiegare i rituali e la religione di un popolo ma servono per meglio esaminare la storia di un uomo, il padre del genere Blues, Robert Johnson.
Johnson era nato nel 1911, da un breve amore della madre per un uomo che incontrò dopo che il marito la aveva abbandonata per vivere con un’altra donna a Memphis. Trasferiti nel Mississipi, Robert iniziò a suonare ma senza essere mai un grande artista. Sposato all’età di 17 anni perse la moglie l’anno dopo per una complicanza durante il parto e così, da quel momento, dedicò la sua vita alla musica senza però risultati, tanto che, demoralizzato, iniziò un girovagare senza meta.
Sarà a Hazelhurst che incontrerà il suo “maestro”, un certo Ike Zinneman, artista di cui non si sa molto ma che insegnò a Johnson strane abitudini come quella di suonare nei cimiteri, ai crocicchi o su delle tombe. Da quel momento la vita di Robert ebbe una svolta, diventò grande artista, incidendo brani ancora oggi famosi e di ispirazione per numerosi artisti successivi. La morte però giunse presto e anche questa in circostanze misteriose, infatti morì il 16 agosto 1938 in circostanze misteriose, per alcuni avvelenato da un marito geloso. Moltissime però sono le leggende sorte attorno al famoso artista, la più famosa narra che, recatosi ad un crocicchio, egli avesse evocato il diavolo in persona al quale avrebbe venduto l’anima in cambio della dote di grande bluesmen, idea che ritroviamo in tutte le sue canzoni, egli è proprio ossessionato dalla figura del demonio come in ‘Crossroad blues’, dove descrive il momento della sua vita in cui, disperato, “Sono andato al crocicchio, sono caduto in ginocchio e ho chiesto al Signore: Ti prego abbi pieta’ e salva il povero Bob se puoi”, o come ancora in ‘Me and the devil blues’ dove ritroviamo il rapporto col diavolo: “Stamattina presto hai bussato alla mia porta e ho detto: Ciao Satana, credo sia ora di andare. Io e il diavolo camminavamo fianco a fianco, picchiero’ la mia donna fino a che saro’ soddisfatto” e altri cenni li troviamo in “ “Preachin’ Blues”, “If I had Possession over Judgement Day”, “Stones in my Passway” e “Hellhound on my Trail”.
Strane leggende, poi, si raccontano anche sulla sua morte ma, e proprio sulla prima che vogliamo soffermarci, la leggenda del demonio che strettamente si lega proprio alle componenti culturali voodoo descritte precendentemente.
Infatti il crocicchio e la figura del diavolo ci riportano alla mente proprio quell’ Exù rey de las sieste encrucijadas citato precedentemente i cui connotati pagani, oramai lontani centinaia di anni, avevano assunto l’indelebile immagine del satana cristiano.
Se esaminiamo poi il ritmo di alcuni brani come delirante “Preachin’ The Blues” ritroviamo sonorità e ritmi tipici dei rituali della “santeria”. Potremmo così azzardare una faustiana ipotesi, tra le ombre delle notti del Mississipi, guidato da un misterioso personaggio di nome Zinneman, Robert Johnson, ad un crocicchio, effettuava una offerta ad una antica divinità pagana, una divinità negativa e malvagia tanto da esser confusa con il diavolo, ma non perché suo adoratore o per vendere lui l’anima in cambio del successo ma, come accadeva nei rituali animistici africani, per graziarselo e usarlo per ottenere la padronanza di un nuovo modo di fare “musica”, il “permesso” per utilizzare nei suoi brani ritmi e musicalità tipiche di una cultura subalterna, nata tra deportati il cui nome, “vo-do” ricorda proprio questa sua sonorità, una ritmicità carica di vibrazioni e di significati perché è il suono che schiude le porte, è la vibrazione l’essenza del tutto, un insegnamento magari avvenuto in un luogo lugubre tanto da scioccare fortemente l’artista che si sentirà sempre vicino alla dannazione, ma che gli aprì le porte del successo.
(in Omaggio al re del Blues e a quello dei Cimiteri)