Di Andrea Romanazzi
Con il mese di Gennaio si aprono le “festività del fuoco” legate alla cacciata dell’Inverno e ai rituali per propiziare il ritorno della fertilità agro-pastorale. Nel momento in cui l’Inverno si fa più duro, infatti, l’uomo tenta di esorcizzarlo riportando la “luce” sulla terra. All’interno di questo “calendario magico-popolare”, bene si inserisce la festività di sant’Antonio Abate e dei suoi falò.
La venerazione per il santo era, in passato, fortemente radicata nella tradizione popolare e tra le genti contadine. A Bari, il 17 Gennaio, in concomitanza della festività dedicata all’eremita, i padroni si prendevano particolarmente cura dei propri animali. Venivano strigliati, passati con lo spazzolone, agghindati con nastrini colorati contro il malocchio e le malìe. Quella sera, infatti, secondo la tradizione popolare, il Santo sarebbe passato dalle stalle per sapere come gli animali venissero trattati dai loro padroni e, per chi non si comportava bene la punizione era l’herpes zoster. Perché questo legame tra il Santo e le bestie? Il patronato sugli animali di Antonio Abate, in realtà, è una caratteristica che il santo ha acquisito dalla tradizione popolare e non è presente nell’agiografia dell’Anacoreta. Solo successivamente fu acquisita anche dalla religione ufficiale, come testimonierebbe la Benedictio equorum aliorumve animalium del rito Romano. Simbolo del suo patronato è il maialino.
E’ nella Antonianae Historiae del 1534 che troviamo per la prima volta il riferimento al porco. L’episodio narra che mentre il santo si trovava a Barcellona, fu raggiunto da una scrofa che aveva tra le fauci un piccolo porcellino zoppo e malato. Deposto davanti al santo in atto di preghiera, quasi a chieder la grazia per l’animaletto, questi fu immediatamente guarito dal Santo con un segno di croce. Da allora Antonio viene raffigurato con ai piedi un maialino. In realtà l’associazione con il maiale potrebbe essere spiegata con il permesso che avevano i canonici di Sant’Antonio di allevare i maiali all’interno de centri abitati e, poichè il grasso di maiale era utilizzato come emolliente per le piaghe provocate dal “fuoco di S. Antonio”, il Santo fu iniziato ad essere invocato anche contro l’Herpes Zoster. Un’altra interessante caratteristica legata alla festa del Santo è il tema della questua e dell’orgia alimentare. La Questua è in realtà il prologo dei festeggiamenti e dei banchetti che si svolgevano, e tutt’ora svolgono, in numerose regioni d’Italia per l’inizio del Carnevale. Il termine deriverebbe dal latino quaestus, cioè “chiedere”. In passato, qualche giorno prima del dì di festa, gruppi di uomini del paese andavano in giro di porta in porta a chieder cibarie che poi sarebbero servite ad allestire il banchetto in onore del Santo. La questua era di solito organizzata dai giovani ragazzi del paese e normalmente si presentava come una vera e propria manifestazione folklorica durante la quale i questuanti andavano in giro di casa in casa cantando e suonando, in alcuni casi anche mettendo in opera una pantomima teatrale che narrava gli episodi di vita del santo. Nella tradizione vi era l’obbligatorietà di donare qualcosa, il rifiuto, infatti, era un’offesa alla comunità privata dell’”apporto” di un suo membro, oltre che al santo stesso. Visto che però parliamo di Bari e del suo territorio chiediamoci se anche nella città fosse presente il culto del Santo e se ritroviamo gli elementi sin qui indicati. Se da piazza Mercantile prendiamo via re Manfredi, al termine della strada, tra ristoranti e pizzerie, troviamo u arche de sant Andè, ovvero l’arco di sant’Antonio. Era qui che, in passato, gli animali venivano portati dai baresi per la benedizione. Il luogo scelto, ovvero la zona del fortino, non era casuale. La tradizione popolare vuole che nei pressi della torre esistesse una chiesetta, datata XI-XII secolo, nota come chiesetta di San Nicola sul Porto. Lavori successivi da parte di Isabella d’Aragona prima e signori locali poi, andarono ad ampliare la struttura inglobando la stessa cappella. Era questa chiesetta ad essere dedicata a Sant’Antonio, come testimoniato da una statua del santo che qui era conservata e dalla tradizione popolare della benedizione degli animali [Oggi è conservata nella chiesa di sant’Anna del borgo antico]. Il rito si è svolto fino ai primi anni ’90. In passato si trattava di una grande festa. Centinaia di animali si raggruppavano nell’area, mentre i padroni festeggiavano l’evento consumando del vino e involtini di carne di cavallo ingurgitati “alla crudele”, ovvero con tutto il filo che, poi, veniva estratto dalla bocca. Solo in tarda mattinata, dopo aver consumato un bel po’ di fichi d’india albini, arrivava il prete che, per timore dell’eccessivo scompiglio, benediceva da lontano gli animali. Dopo era vera festa: i padroni degli animali si recavano nelle osterie del borgo, da Calandrìidde, da Compar Beppe delle Travi o da Pizzillo dove, tra involtini di cavallo, paste e fagioli e panzerotti fritti conditi con sugna e ventresca, si consumava abbondante vino fino a che non erano fatti a cciucce, per giocarsi, gli ultimi trrìiss rimanenti al lotto: 4 il porco, 17 il Santo, 81 il campanello, 8 il fuoco e 20 il dì di festa. Non mancava, in serata, il falò conclusivo realizzato con la “legna di Sant’Antonio”. Negli anni Sessanta però, questa tradizione andò pian piano scemando. Anche quel periodo di crisi, però, non rimase avulso dalle credenze popolari. Si narrava, infatti, che dalla menzionata cappella dove, tra l’altro erano sepolti numerosi eremiti, partiva, in quel giorno di festa, una piccola processione composta proprio dai monaci defunti che, a due a due, portando in mano come ceri le loro lunghe ossa, percorrevano via Re Manfredi fino ad arrivare alla Colonna infame, per girarvi intorno e rientrare nella chiesetta. Una credenza popolare che sicuramente voleva manifestare il disagio della gente rea di aver abbandonato il Santo. Da qualche anno la festività è stata ripresa, ogni 17 gennaio, nella Chiesa di Sant’Anna, già dedicata alla benedizione ai bambini, si tiene un’altra benedizione, quella degli animali domestici. Non mancate, non vorrete far svegliare di nuovo i poveri monaci!