Storia della Jettatura Napoletana

di Andrea Romanazzi

Questo articolo vuole approfondire un argomento diffusissimo e controverso: la Jettatura. A differenza di quanto si creda, la figura dello iettatore non è molto antica, appare per la prima volta durante il periodo dell’Illuminismo napoletano e, solo successivamente, viene “esportata” nel resto di Italia e del mondo. Il termine è divenuto di uso comune per indicare un individuo con la presunta capacità di nuocere all’altrui persona, senza volerlo, semplicemente con lo sguardo o con la parola.

Secondo il pregiudizio popolare, lo jettatore è riconoscibile dal viso magro, dal colorito cupo, olivigno, dal naso adunco, e specialmente dagli occhi biechi e loschi. Per capire meglio la figura del menagramo alla quale il pregiudizio superstizioso attribuisce, nel contesto sociale, un ruolo negativamente importante, dobbiamo partire dal mondo romano e da un termine che sembrerebbe indicare il suo opposto: il Fascino.

Dal “Fascino” alla Jettatura

 La parola “affascinare” evoca oggi molti significati, tra i meno noti l’ammaliare e la malia. Catullo usava la parola nel carmen VII, dove asseriva di avere “un desiderio di tanti baci da non poter essere contati dai maliziosi né “fascinati” dalle malelingue”. Lo stesso termine indicava, presso i romani, anche il “membro virile”. Credenza antica voleva, infatti, che immagini e raffigurazioni del fallo, espressione della virilità e del potere generatore maschile, potessero allontanare ogni genere di negatività. Nella mitologia greca e poi anche in quella romana, il dio più venerato per la protezione dal fascino era, proprio per i suoi attributi, Priapo. Il nome deriva da pri-(h)àpos, “colui che ha sul davanti un hapos”, cioè un pene. L’etimologia del termine pone quindi l’accento sulla caratteristica fondamentale del dio, cioè la sua forza generatrice. Si narra che, nato a Lampsaco dall’unione tra Venere e Bacco, si sarebbe liberato dalle magarie dell’invidiosa Giunone proprio grazie al suo enorme membro, per il quale fu poi consacrato dio protettore contro le stregonerie.

Scrive il Valletta, illustre letterato del quale approfondiremo in seguito, che “…Per la ragione medesima Priapo, ch’è il genio delle donne, anche oneste, dalle medesime sospeso al collo, o negli anelli si portava…”. Aggiungeva poi “…Anzi dal Fascino molti dicono essere appellati i versi fescennini quelli, che nelle nozze alle soverchie lodi si aggiungevano per allontanare la jettatura…”. La tradizione romana descriveva diversi tipi di “fascino”. Il più potente era quello legato al linguaggio esplicito e alla parola. A tal riguardo, nei suoi Carmina Catullo  scriveva: “…quae nec pernumerare curiosi possint / nec mala fascinare lingua…” . Ancor oggi il proverbio “ferisce più la lingua che la spada”, il cui significato è spesso travisato, si riferirebbe a questo tipo di affascino.

Successivamente il fascino si sposta dalla lingua all’occhio. Gellio, Virgilio, Ovidio, parlavano del fascino che proviene dall’occhio e credevano fossero più grandi fascinatori coloro che avevano due pupille. E’ l’idea dell’”oculus malus”, l’occhio invidioso che esprimere il suo occulto potere. E’ da questa credenza che deriva la tradizione, tutta italiana, del “Malocchio”, termine con cui “si intende l’azione malefica prodotta da un presupposto fluido che emana dall’occhio di particolari persone”.

Tornando al “fascino”, come già detto, nel mondo romano, con lo stesso termine, si indicavano, effigi ed amuleti fallici strumenti utili contro il malocchio ed incantesimi. Plinio il Vecchio afferma che il fascinus

, inteso come l’amuleto, funge da medicus invidiae, ossia un rimedio per l’invidia ed il malocchio. Il suo utilizzo era davvero molto diffuso .

Sempre Plinio ci narra, ad esempio, di come, quando un generale celebrava un trionfo, venisse appeso un fascinus sotto il carro per proteggerlo dall’invidia. Agostino d’Ippona annota che durante la festa annuale di Liber, il Dio romano identificato con Dioniso e Bacco, veniva portata in processione un’immagine fallica che aveva il compito di proteggere i campi dalla fascinatio, ossia l’incantesimo negativo. Sempre Plinio narra di un fascinus populi romani custodito nel Tempio di Vesta che aveva il compito di proteggere l’intera Urbe e del loro uso  nei giardini e sui terreni, in modo da proteggere i frutti dagli invidiosi. La cosa è confermata anche da Orazio, che dedica una propria satira ad un pezzo di legno trasformato da un falegname in una statua di Priapo dal membro virile eretto e rosso e posto in un campo per cacciare i ladri e gli uccelli.

La jettatura: la forma “colta” di fascinazione

Nel Medioevo il “fascino” divenne ben presto opera del demonio. Leonardo Vairo, vescovo di Pozzuoli scriveva nel 1589 il de Fascino dove afferma che si tratta di “…una qualità perniciosa indotta per arte dei demoni in virtù di un patto tacito od espresso con loro…”, mentre il del Rio, lo annovera tra i malefici delle streghe. Quanto descritto sin ora, però, nulla c’entra con la “Jettatura” che, come già detto, nasce  dall’Illuminismo napoletano. È nella Napoli settecentesca dove la nuova ferrovia si contrapponeva alle tradizioni magico-popolari delle campagne che magia e razionalità si uniscono. Secondo la tradizione popolare campana la  jettatura è un maleficio involontario causato dall’influsso naturale, quasi una sorta di forza magnetica, da parte di particolari individui: gli jettatori, individui schivati, odiati, ma allo stesso tempo temuti, responsabili di tutti gli accidenti che possono toccare ad una persona o alla comunità.

Il razionalismo illuminista della borghesia napoletana, strettamente connessa a quelle che potremmo definire le folktales, favorì il formarsi della jettatura come elemento di raccordo e compromesso tra il malocchio stregonesco che ancora resisteva nelle credenze popolari italiane di origine romana e le esigenze del secolo dei Lumi. Qui tale credenza veniva “sdoganata” dalla semplice superstizione in una accezione tipica dello scientismo. Come detto il termine nasce nel Settecento, lo stesso Benedetto Croce afferma senza dubbio che prima del ‘600 non esistesse. Viene citato per la prima volta nel 1787 in un libello di Nicola Valletta, giurista e storico del diritto, autore di diversi volumi sul diritto romano, canonico, feudale e della celebre opera, più volte ristampata, intitolata Cicalata sul fascino volgarmente detto jettatura, che rappresenta il primo saggio sull’argomento.

Il Valletta riproponeva questo tema antico dando un taglio nuovo e trattandolo con toni tra il serio e il faceto, senza rinunciare, allo stesso tempo, ad un approccio concreto e al contempo semi-scientifico. E’ sempre il Croce che, commentando quest’opera, ne parla come di un “soggetto scherzevole” in cui l’autore mostrava credere alla jettatura solo per finzione letteraria, insomma lo scherzo di un miscredente.

“…Pure, tra le molte cicalate della vecchia nostra letteratura dal cinque al settecento questa del Valletta s’innalza per l’ordine e la logica che è nella trattazione, nella quale, rigettato ogni legame del fatto indagato col diavolo, con le streghe e con la magia (l’autore era illuminista e aveva accolto i risultati della polemica illuministica contro consimili superstizioni), si assume di provare che la iettatura è effetto di naturali cagioni, si arrecano fatti storicamente accertati e li si spiega con le cognizioni offerte dalle scienze fisiche e naturali. Superfluo avvertire che questo procedimento, formalmente ineccepibile, non può essere, nel caso al quale egli lo applica, se non giocoso, perchè la iettatura è bensì un fatto naturale ma naturale-psicologico, da darne la genesi, psicologica, e non già naturale-fisica e cosmologica…”.

Non tutti gli studiosi, però, sono d’accordo con tale visione. Per il de Martino, il Valletta scrive un opera su un tema in cui credeva davvero come testimoniato dal racconto dell’episodio della morte della di lui figliola defunta ancora in fasce a causa dello sguardo “torvo ed obliquo” di uno jettatore.

La Cicalata fu il primo esempio, la pietra miliare di una letteratura che avrebbe gettato le basi del “non è vero ma ci credo”, di quel “non si sa mai” che, in barba alla scienza, ancora oggi permette di tener conto di fenomenologie socio-popolari bollate come ignoranti superstizioni. Del resto è lo stesso Valletta che sembrava invogliare gli intellettuali a “studiare sulla jettatura che vi fa fare scoperte grandiose a benefizio dell’uomo e delle nazioni” continuando, anche se con tono scherzoso, a ricordare che “non solo la bassa plebe le persone malauguriose fugge, ma credono alla jettatura pur anche gravi togati, cavalieri di rango, avvocati, giurisperiti, medici valenti, matematici sublimi”. La Cicalata diviene così testimonianza storica di un costume diffusissimo a Napoli.

Di illuministico, quindi, Valletta aveva semmai la curiosità di scoprire i meccanismi che si celano dietro alla jettatura. Per questo descriveva come essa, simile all’elettricità, penetra in ogni minuscolo poro del nostro corpo e da qui si propaga: “…s’insinua però maggiormente per il viso o per la voce, che non per tatto che oppone maggior resistenza, ed i corpi più duri son più atti a produrla, siccome i delicati, che hanno i meati molto grandi, son più atti a riceverla” . Come si evidenzia in queste righe, l’idea di una “vibrazione negativa” era ancora presente, seppur mascherata, nell’idee del XVIII secolo.

Valletta inoltre esaminava le corrispondenze tra gli umani e le piante, i fiori, gli astri e gli effluvi. Da qui, vari tipi di creature sono poi diventate portatrici di fascino, in un’accezione negativa del termine, più vicina a quella superstiziosa del “portar male” che a quella del fascino legato all’azione magica. Con quest’opera il Valletta inaugura un lungo filone di trattati prima dei quali non si trova alcuna traccia nella letteratura sulle credenze magiche. L’Illuminismo napoletano assistette paradossalmente ad una  vera proliferazione del fenomeno in stretta connessione con gli studi mesmerici e del magnetismo animale che si diffondevano negli stessi anni.

Scrive il Croce “…Perchè mai a Napoli, negli ultimi decenni del settecento, si parlò e si scrisse tanto della iettatura, a segno che questa parola, la quale non dico che nascesse allora ma che certo prima d’allora non si trova documentata nella ricchissima letteratura dialettale che possediamo, pur piena di motti e di riferimenti a credenze e costumanze popolari, si diffuse allora da Napoli all’Italia e diventò nota anche ai forestieri, come si vede nei libri di Alessandro Dumas e di Théophile Gautier? Certamente per un capriccio e per una moda della buona società, che prese a farne uno dei riempitivi del suo ozio, un suo convenzionale infiammarsi per quello che in fondo non importai e a cui non si crede, e a cui si finisce quasi col credere per suggestione dello stesso tornarvi sopra con le parole…Vennero fuori allora in Napoli componimenti italiani, dialettali e latini, e drammi e commedie e libercoli di prose sull’argomento…”.

 

Il dibattito sul “Fascino”

L’anno dopo la pubblicazione del Valletta, nel 1788, Gian Leonardo Marugj, medico e filosofo di Manduria, diede alle stampe Capricci sul Fascino, un’operetta che, se dal punto di vista letterario è di seconda importanza, sottolinea come il tema della jettatura era molto diffuso nel sud Italia. Anche qui, nonostante si tratti di uno scritto dal tono giocoso, l’autore discute con serietà le interpretazioni del Valletta. In maniera pseudo-scientifica, interpreta il potere dello iettatore come una forza fisica esercitata da minute particelle che emanerebbero dal corpo del portatore di sventura e investirebbero le cose e le persone circostanti.

“…ecco perché ci sono più jettatori uomini che donne: perché gli uomini hanno più peli, e i peli sono portatori del fluido elettrico…” Si vede qui la forte influenza del pensiero che proprio in quel periodo si andava diffondendo: il Magnetismo Animale. La figura dello jettatore ricalca un preciso cliché: “viso magro, colorito cupo, naso adunco, occhi biechi e loschi, quasi sempre vestito di nero”. Il colorito cupo parrebbe corrispondere all’epiteto napoletano di faccia ‘ngialluta rivolto dal popolo a san Gennaro tutte le volte che non si ripeteva il miracolo del sangue. In questo modo i napoletani apostroferebbero il santo dandogli dello iettatore, poiché la mancata liquefazione del sangue è interpretata come un presagio di sventura per la città.

La trilogia sulla Jettatura si chiude con l’opera di Antonio Schioppa L’Antidoto al fascino detto volgarmente jettatura, nel 1830, nato per portare risposta alla sfida lanciata dal Valletta, i 13 quesiti insoluti (Fig.5)  riportati nell’appendice alla Cicalata. Qui l’autore prometteva 10 o 20 scudi per chi avesse dato risposta alle sue domande e definito l’elenco degli jettatori napoletani.

Il testo, che cerca ancora una volta di spiegare la jettatura attraverso il Magnetismo Animale, è famoso perché si interessa agli antidoti che interessano soprattutto i lettori del tipo: “non è vero, ma ci credo”. Ed ecco così le risposte se “jetti” più la donna o l’uomo, se più chi ha la parrucca o gli occhiali che, nell’idea dell’Autore diventano delle lenti che possono focalizzare ed aumentare la jettatura, la donna gravida o il monaco. Egli cerca, proprio come uno scienziato, di capire qual è il range di influenza della jettura. Visto che dipende dal Parlare o dal Vedere egli dice che si estende alla distanza della vista e del suono ed infine, dopo aver descritto la figura dello jettatore, ecco la tremenda rivelazione: Il corno che tutti noi portiamo vicino? Ebbene questa “ridicola invenzione”, come si esprime lo Schioppa, non funziona o addirittura può avere effetti controproducenti.

Infatti “ognuno crede essere in tal maniera sicuro dalla jettatura, quando anzi, hanno con questo specifico piuttosto un richiamo: in fatti la fisica e la chimica in specie ci fa conoscere che i corni, come i peli e le unghie degli animali, sono pregni di carbonico e di elettricismo; e perciò, piuttosto che respingere le jettature, possono essere eccellenti conduttori…”. Insomma, buttate il cornetto ed usate la ruta o la cipolla! Non manca anche lo studio della “mimica” anti jettatore come elaborato dal canonico de Jorio nel suo saggio Mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano del 1835. Tra l’altro l’autore era considerato, egli stesso, temibile jettatore. Si narra che il re Ferdinando I per ben quindi anni gli avesse negato udienza fino al fatidico 3 gennaio 1825 quando, dopo averlo ricevuto, fu colto da un infarto.

In questa curiosa letteratura si inseriscono anche scrittori stranieri. E’ il caso di Meyer che nel 1849 descrive come l’idea di jettatura fosse diffusa ampiamente in tutt’Italia ed in particolare a Napoli. Anche Alexandre Dumas, nella sua opera Il Corricolo descrive una serie di racconti ispirati ad episodi di cui lo stesso autore viene a conoscenza, nel 1835, durante un suo viaggio a Napoli. E’ qui che narra le vicende di Cesare della Valle, duca di Ventignano, forse il più famoso jettatore della storia. Aristocratico nella Napoli di fine Settecento, fu perseguitato da una fama sinistra, ovunque posasse il suo sguardo seminava disgrazie. Alexandre Dumas (Fig.6), con la sua opera, rafforzò la celebrità del povero  jettatore, gli attribuisce persino la caduta del Regno delle due Sicilie. Molti gli episodi descritti. Ascrive agli sguardi del conte la caduta di Re Ferdinando durante  la benedizione dei vessilli da parte dell’ Arcivescovo di Napoli per la guerra alla Francia. A lui si vuole collegato anche l’incendio del Teatro san Carlo, poco dopo che Cesare della Valle riuscì ad entrarvi. In realtà trattasi di una essendo il fatto avvenuto 17 anni dopo il periodo a cui fa riferimento Dumas. Un altro racconto vuole che, per distrarsi dalla morte del fratello e del padre il conte si imbarcò su una fregata in partenza per Tolone. Ebbene la nave fu attaccata da due fregate inglesi perdendo tutti i tesori ivi stipati. Dopo la brutta esperienza di mare decise di tornare a Napoli attraversando la penisola. Passando per Roma pensò bene di rendere omaggio a papa Pio VIII che lo ricevette con tutti gli onori essendo a conoscenza del ruolo che il principe rivestiva presso la corte di Napoli. Tre giorni Pio VIII dopo era morto. Dumas descrive molti altri episodi rendendo questa figura tragicamente ridicola.

Jettatura Today

La credenza nella jettatura non è mai più scomparsa. La fama di jettatore ha investito numerosi personaggi storici, inclusi poeti come George Byron, così percepito anche a causa della sua zoppia, e Heinrich Heine. Tra i capi di stato troviamo Napoleone III, Guglielmo II, tra i capi di governo il primo ministro italiano Antonio Salandra. La nomea non ha risparmiato neppure alcuni papi, come Pio IX e Leone XIII. Si narra che anche Mussolini fosse molto superstizioso. Durante il ventennio non pochi furono i personaggi che incapparono nella triste fama di iettatori. Tra questi principalmente il ministro degli esteri britannico Anthony Eden, al quale il duce rivolse addirittura il gesto delle corna mentre con questi inciampava e cadeva a Palazzo Venezia. Dal canto suo, Galeazzo Ciano riferisce che Starace udì, per poi farlo arrestare, il deputato Egilberto Martire spargere su di lui la fama di jettatore. Tra le città italiane Napoli rimane la capitale della “jella”. Renato Fucini, in Napoli a occhio nudo del 1877, descrive l’intera città di Napoli come tappezzata di corni: corni nelle botteghe e nelle case, corni usati come ciondoli di collane e di bracciali. A distanza di circa 140 anni, l’immagine di Napoli è ancora la stessa: vicoli e stradine antiche pullulano di curnicielli e gobbi (Fig.7-8), ‘o scartellato o lo sciò sciò, che sono diventati parte integrante del presepe Napoletano, con ciondoli sulla giacca del tipo “13”, cornetti di varie misure, ferri di cavallo, gufetti, manine che gesticolano le corna, e un incensiere dove, sempre la tradizione napoletana dice serva a allontanare i malocchi e le jettature, recitando la famosa filastrocca

Sciò sciò, ciucciuvè, Aglie e fravaglie e fattura ca nun quaglia, cape’e alice e cape d’aglio!
Sciò sciò, ciucciuvè, uocchie, maluocchie e frutticielli all’uocchie, corne e bicorne e ‘a sfurtuna nun ritorna!
Sciò sciò, ciucciuvè, pappavalle, barbagianne, cuorve, taccule e curnacchie.
Sciò sciò, ciucciuvè, lievece ‘a cuoll tutte ‘sti mmacchie!
Sciò sciò, ciucciuvè, jesce fora da casa mia, truovete a n’ata cumpagnia, non te voglio ‘cchiù vedè!

Ancora oggi l’ilarità che circonda i rossi corni napoletani, i gobbi che ritroviamo sulle bancarelle della bellissima città, i venditori di incensi e portafortuna, deve molto all’espressione scherzosa dell’antico fascino presente nella tradizione settecentesca napoletana dai lumi adorna e ricordate “la iettatura è una cosa che non esiste, ma della quale bisogna tener conto” (Benedetto Croce).

 

 

 

 

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