di Andrea Romanazzi
Nato nel cupio dissolvi
Gabriele D’Annunzio nacque a Pescara il 12 marzo 1863 da una famiglia borghese benestante. Terzo di cinque figli, visse un’infanzia felice, distinguendosi per intelligenza e vivacità. Il senso del mistero e del magico furono da subito parte del mondo dannunziano. E’ il retroterra culturale degli “avi d’Abruzzo”, ricco di simboli e gesti magici, ad essere infatti sempre presente nella sua vita fin dall’infanzia, come testimoniato da quella “stregoneria popolare”, descritta ne “Il libro Segreto”, che il nonno paterno gli fece ponendo, tra le sue fasce da neonato, una moneta d’argento che avrebbe donato, secondo la tradizione, la sua prodigalità.
Di fortuna ne aveva bisogno, non era uno qualunque, la Morte gli aveva già fatto visita “marchiandolo” come “diverso”. Nel “Libro Segreto”, l’ultima sua opera, un diario autobiografico scritto nel 1935, leggiamo come, “…nel nascere io fui come imbavagliato dalla morte; sicché non diedi grido, né avrei potuto trarre il primo respiro a vivere, se mani esperte e pronte non avessero rotto i nodi e lacerata quella specie di tonaca spegnitrice. Dipoi, nei primi anni dell’infanzia portai al collo, chiusa entro un breve, quella ligatura insolita che l’antichissima superstizione della mia gente reputava propizia…”. La tradizione contadina descriveva come “particolari” i nati con la “camicia”. Gli “avvolti di placenta”, erano coloro che avrebbero avuto in vita legami con l’occulto “… portava quella mia camiciola al collo sempre, ma la persi et dipoi che la perdei non ci son più stato alli raduni…” leggiamo tra le cronache dei Beneandanti, maghi friulani ben descritti dal Ginzburg. Tutta la vita di D’Annunzio fu strettamente legata alla morte come in una sorta di partita a scacchi. Più volte troveremo Ella vicino al Vate e più volte il Vate si interesserà alla stessa. All’età di nove anni gli fu letta la mano da una zia dedita alla vita monastica “…mi accoglieva talvolta nel segreto della cella quando s’adoperava a sapere le cose occulte e le venture con le sue arti divinatorie, se bene la divinazione sia stata sempre condannata dalla Chiesa, mi prese le manie si mise ad esaminare i segni nell’una e nell’altra palma…”. Non si sa cosa sarebbe stato profetizzato, ma certo l’occulto cercava il Vate e lui cercava l’occulto. Già nella sua prima opera, scritta nel 1879, Primo Vere, una raccolta di poesie ispirate al Carducci, ritroviamo il suo amore e attrazione verso il mondo “panico” e magico della sua terra abruzzese, da cui si dipanano visioni mitiche ispirate alla mitologia classica. Concluso il Liceo, si trasferì a Roma per i suoi studi universitari che non portò, però, mai a termine. Gli anni romani, dal 1881 al 1891 furono per lui decisivi per lo sviluppo della sua visione del mondo e della sua poetica. Qui venne in contatto con scrittori, artisti, musicisti, giornalisti e conobbe Maria Hardouin duchessa di Gallese, con la quale si sposò con matrimonio riparatore e da cui ebbe tre figli. Il matrimonio finì in una separazione legale dopo pochi anni per le numerose relazioni extraconiugali di D’Annunzio. Non era certo un uomo fedele. A Roma si guadagnò inizialmente da vivere come giornalista e redattore de La Tribuna, per il quale si occupava principalmente di cronaca mondana. Si inserisce subito in questa società dell’”apparire” come esteta, dissipando un vero patrimonio per abiti firmati di alta moda e per acquistare oggetti preziosi. Era convito, la grande lungimiranza dannunziana, che sarà la moda ad esprimere il linguaggio innovativo della modernità, da qui la necessità di essere “sempre all’ultima moda”. E’ in questo periodo che scrive il suo primo romanzo il Piacere, il cui protagonista è un dandy della società romana, il conte Andrea Sperelli che, ad una cena in casa di sua cugina, incontra la nobildonna Elena Muti, e se ne innamora perdutamente. Da questo evento seguiranno una serie di vicissitudini amorose che porteranno il protagonista a perdere tutte le sue donne. Il Piacere, primo romanzo della Trilogia della Rosa, di cui fanno parte L’Innocente e Il Trionfo della Morte, è senza dubbio il capostipite del decadentismo italiano, movimento legato a quelli che furono definiti poeti maledetti che davano scandalo incitando al rifiuto della morale borghese. Questo tema della “decadenza sociale” non è certo oscuro al Vate che ne fece lo strumento di esaltazione per la superiorità spirituale umana, la bellezza e il ritorno al misterioso. Come scrive Francesco Flora, il poeta decadente “diventa così veggente, cioè colui che vede e sente mondi arcani ed invisibili in cui si chiude scoprendo l’universale corrispondenza e analogia delle cose […] E in tal modo il Dio perduto vive come una memoria e un desiderio”.
Non è un caso se lui stesso si soprannominò “il Vate”, cioè il poeta sacro, il profeta, il cantore dell’Italia. E’ proprio tra le vie della Capitale che iniziò ad interessarsi del mondo del numinoso che, evidentemente, non lo aveva mai abbandonato. Ninfe, Spiriti Femminili, Creature mitologiche, Spiritismo, tutto ciò lo incuriosiva.
“…Camminare tra le creature vegetali …sorprenderne il pensiero occulto e indovinare il sentimento muto che regna sotto le scorze … contemplare … la natura con tale continuità da giungere a riprodurre in me il palpito … di tutto ciò che è creato … Non è questa, forse, una vita superiore?”
Iniziò a leggere Paracelso, la Filosofia Occulta di Agrippa, la Cabala, ”…noi tutti viviamo d’illusioni, abitanti di mondi immaginari, illusioni di noi medesimi, esseri senza esistenza, forme tra l’infinità di forme, fugaci emanazioni dell’Uno, pallide immagini dell’Uomo Celeste, tristi ombre dell’Adam Kadmon il quale nella santa Mercaba per mezzo degli undici Sephiroti ideali si manifesta eternamente…”. Tra i suoi libri furono ritrovati il Convegno Celeste, un saggio sullo spiritismo con sottolineature e note che fanno presumere un’attenta lettura da parte del Vate.
D’Annunzio e il paganesimo abruzzese
Il mondo magico e bucolico riappare nel già citato Trionfo della Morte che narra le vicende del principe Giorgio Aurispa, nobile di Guardiagrele, che, in dissesto economico, torna da Roma in Abruzzo con la sua amante Ippolita Sanzio. E’ qui che scopre un mondo fatto di magismo popolare, di gente che fa della magia una consuetudine come viene fuori, ad esempio, dalla descrizione di un episodio di esorcismo di un neonato ammalato che era appunto creduto posseduto. Sempre la magia e il mondo pagano abruzzese li ritroviamo ne La fiaccola sotto il moggio, tragedia ispirata da un viaggio ad Anversa degli Abruzzi con Antonio De Nino, studioso di folklore locale. L’opera narra le vicende della principessa Gigliola, una delle ultime eredi della disgraziata famiglia Sangro e del padre la ci vita ruota attorno ad un rapporto amoroso con una strega del borgo di Luco dei Marsi, chiamata “Angizia”. D’Annunzio riprende questo nome dal culto della antica dea marsa Angizia, divinità piuttosto misteriosa della quale non si conoscono bene i rituali, strettamente legata al culto del serpente come testimoniato da rinvenimenti archeologici. Era la divinità della magia, de resto i Marsi erano, già per i Romani, il popolo degli stregoni per eccellenza, così come gli Etruschi erano il popolo dei divinatori. Secondo Ovidio è da tale popolazione che proviene la credenza nelle striges, entità femminili simboleggiate da uccelli rapaci o donne in grado di mutarsi in essi, che uccidevano uomini e soprattutto bambini suggendone il sangue mentre dormivano. Silio Italico, poeta vissuto nel I secolo d.C., probabilmente originario dell’Abruzzo, così ci descrive queste popolazioni italiche:
“Queste schiere sapevano combattere, ma la gioventù marsica era esperta sia nel combattere sia nell’incantare i serpenti, sia nel togliere con erbe e formule magiche il veleno ai denti delle vipere. Tramandano che Angizia, figlia di Eete, insegnasse loro l’uso delle cattive erbe e il modo di rendere innocui i veleni, che tirasse giù la luna dal cielo, fermasse i fiumi con le sue grida e spogliasse i monti delle selve da lei invocate…La gioventù marsicana era esperta sia nel combattere sia nell’incantare i serpenti, sia nel togliere con erbe e formule magiche il veleno dai denti delle vipere…Tramandano che Angizia, figlia di Eete, insegnasse loro il modo di rendere innocui i veleni…”
Secondo la tradizione i Marsi avrebbero avuto, a causa della loro discendenza da Circe o da Medea, a seconda delle fonti, altra figura femminile legata all’Antica Madre, il dono di curare dal morso degli ofidi, come ci testimonia ad esempio Eschio, almeno “fino a quando non si mescoli e si corrompa per parentele estranee”.
La loro città principale era Marruvium, vicino Luco il cui nome deriverebbe da Lucus Angitiae, il luogo sacro alla Dea marsicana. Queste citazioni mettono in mostra la profonda conoscenza del Vate per questi culti pagani locali e il suo interesse, mai sopito, per la stregoneria popolare abruzzese.
Non manca, anche in questo caso, il tema dell’Antenato, infatti sempre nella Fiaccola sotto il Moggio racconta di come una notte, Gigliola, andando a trovare alla tomba della madre, avrà la visione che la porterà alla morte. Il poeta ripropone la strana abitudine popolare dell’incubatio, certamente narratagli dal de Nino, che riconduce ai rituali delle grotte e delle sacre stalattiti dei Marsi.
D’Annunzio, la Duse e l’ossessione del vaticinio
Tra il 1891 e il 1893 D’Annunzio si spostò a Napoli dove cominciò una relazione epistolare con la celebre attrice Eleonora Duse (Fig.2).

Si narra che comparve davanti alla Diva chiedendole direttamente di giacere con lui. Nel giugno 1892 le scrive una dedica su un esemplare delle sue Elegie romane a cui la “Divina” non potè resistere e nell’incontro “si abbandona alla presa di quegli occhi chiari, si sorprende a dimenticare tutta la sua amara sapienza della vita e a godere della lusinga che essi esprimono”. Si spostò poi in Toscana. Qui che si legò stabilmente alla Duse, in un rapporto che durò una decina d’anni, e che fece dell’attrice la Musa dannunziana. Ella infatti portò infatti sulle scene i più celebri drammi del Poeta spesso finanziandoli ella stessa. Nel 1900, D’Annunzio pubblicò il romanzo Il fuoco, ispirato proprio a tale relazione. Il romanzo ha come ambientazione i canali e la dolce atmosfera romantica veneziana, tra i campi e i calli che nascondono antiche leggende, misteri insoluti, ombre di antichi personaggi che rendono la città fortemente inquietante in questa sua gotica disinvoltura. Si narra che un amico della Duse, letto il manoscritto, la scongiurò di non dare il suo permesso alla pubblicazione visto che era chiaro il riferimento all’attrice che personificava la protagonista “Perdita”, femme fatale che distruggeva l’uomo con la sua sensualità, ma l’attrice rispose “conosco il romanzo, ho autorizzato la stampa perché la mia sofferenza, qualunque essa sia, non conta, quando si tratta di dare un altro capolavoro alla letteratura italiana: e poi, ho quarant’anni e amo”.
Nel 1904 ritorna al mondo magico abruzzese, scrive La figlia di Iorio una tragedia in tre atti. La storia narra di Mila di Codro, figlia di Iorio, una prostituta, di cui si innamorano contemporaneamente Aligi e Lazzaro, rispettivamente figlio e padre. Aligi uccide il padre e così Mila, per scagionarlo, si accusa di averlo stregato facendosi condannare al rogo. Non mancano le descrizioni di riti pagani precristiani, streghe, richiami a culti ancestrali. La Protagonista sarebbe dovuta essere proprio la Duse ma, a causa di un malanno, fu sostituita da Irma Gramatica, un tradimento che la Musa dannunziana non gli perdonerà mai. Dopo la loro separazione con la Diva Gabriele visse tutto il resto della sua vita, nonostante le sue numerose avventure amorose, struggendosi nel ricordo dell’attrice. Secondo Bruno Giordano Guerri, pare che alla morte della “Diva” abbia mormorato “È ,morta quella che non meritai”. La morte nuovamente lo aveva colpito da vicino. Cosa poteva esserci nell’aldilà? Esisteva una vita dopo la morte? Per cercare una risposta a questi quesiti iniziò a circondarsi di chiromanti e veggenti. Era ossessionato dalle previsioni, al suo capezzale era sempre presente l’almanacco Barbanera. Il 28 agosto 1907 il Mattino di Napoli, in occasione della Coppa Florio scriveva: “Gabriele D’Annunzio corre a 120 all’ora perché una fattucchiera gli ha predetto con certezza che non morirà prima del 1909, per colpa di una pugnalata al cuore. Il poeta conosce il giorno e l’ora esatti del suo decesso. Non sarà l’unico caso profezia per il Vate. Una maga fiorentina gli annunciò il decesso per il 17 aprile del 1908. Un’altra volta la data fu fissata per il 17 luglio 1910, addirittura profetizzata da Madame de Thèbes pseudonimo di Anne Victorine Savigny, notissima veggente e chiromante francese. D’Annunzio non fu neanche estraneo allo spiritismo che si andava diffondendo in Italia. Nato in Francia nel 1857 attraverso i libri di Allan Kardec, si diffuse rapidamente in Italia tra gli ambienti “bene” della società. D’Annunzio non poteva rimanerne fuori. In quegli anni infatti il Lombroso, dopo essersi fortemente opposto a tutte la pratiche magiche, sdoganò lo spiritismo scrivendo, nel 1909, Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici, nel quale abbandonava una visione strettamente materialista e cominciava a credere al soprannaturale. D’Annunzio frequentò così Eusapia Palladino, forse la più celebre medium italiana nei salotti della cugina di Montesquiou, la contessa Greffulhe e presso la marchesa Luisa Amman Casati Stampa, sua Musa esoterica (Fig.3-4).

D’Annunzio e Madame la Nuit
La Casati nacque nell’anno 1881 da Alberto Amman importante commerciante di stoffe. Rimasta orfana di madre e padre, Luisa divenne una tra le ereditiere più ricche d’Italia. A diciannove anni Luisa si sposò con il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino. La nobildonna, alta, occhi verdi, snella, colta, stravagante, raffinata e trasgressiva, definita da Jean Cocteau “Il più bel serpente del paradiso terrestre”, divenne oggetto di desiderio del poeta e sua maestra dell’occulto. D’Annunzio le diede il soprannome di Kore, la virginale fanciulla che viene rapita da Ade e che diventa la regina degli inferi. “…Ella possedeva un dono e una sapienza onnipotente sul cuore maschile: sapeva essere o parere inverosimile. “È la sola donna che mi abbia mai sbalordito”, cosi scriveva il Vate, per lei Ariel, lo spiritello della Tempesta di Shakespeare con cui D’Annunzio iniziò a firmarsi forse ispirato dalla sua iniziazione al martinismo. Nel 1910 modellò su di lei il personaggio femminile del romanzo Forse che sì forse che no. Fu la prima icona pop a cui, ancora oggi si ispirano artisti come Achille Lauro e Lady Gaga. Eccessiva e stravagante, lei stessa “Opera d’arte vivente”, fu così “iconica” da presentarsi ad un ballo tutta vestita d’oro come la dea del sole, accompagnata da due servi dipinti d’oro e con un pavone al guinzaglio e del sangue di pollo appena sgozzato sul braccio destro. A Venezia di notte si narrava girasse con i suoi leopardi al guinzaglio avvolta solo in un mantello di pelliccia nera. Il Poeta era così fortemente attratto che le donò una lunga spazzola da bagno inglese “…per toccarla da lontano, con delle dita magiche…”. Era notoriamente dedita a pratiche di magia nera e allo spiritismo che da sempre incuriosivano D’Annunzio. Madame la Nuit consumò i suoi ultimi anni tra sedute medianiche e riti occulti. La Casati, interprete perfetta della Belle Époque, divenne ben presto amante del Vate che, con la “distruttrice della mediocrità” condivideva anche la “mattonella di Persia”, ovvero la cocaina. Si vociferò che, insieme ad essa, D’Annunzio abbia partecipato ad un orgia satanica officiata a Roma in una tomba dell’Appia Antica a ricordo del quale avrebbe scritto un poemetto L’ivresse pareille à l’hallucination, poi distrutto. Era convinta di poter comunicare con i morti, un’altra ricerca che l’accomunava a D’Annunzio soprattutto dopo la morte della madre, “Donna Luisetta” il 27 Gennaio 1917. Nonostante fosse ammalato e febbricitante, il Poeta, legatissimo alla madre, volò a Pescara per partecipare ai solenni funerali in divisa da capitano (Fig.5).

La Casati morì a settantasei anni proprio durante una seduta spiritica dove fu colta da una emorragia celebrale. Non fu però l’unica “Musa dell’occulto” di D’Annunzio. Lo studioso Filippo Caburlotto ha pubblicato delle epistole inedite tra Gabriele D’Annunzio e Maria Bellini Gritti Lombardi, la medium del Vate negli anni del Vittoriale. Si tratta di un carteggio che spazia dal 1922 al 1936 e che mostra, ancora una volta, gli interessi di D’Annunzio per l’esoterismo, l’occultismo e le sedute spiritiche. Affascinato dalla di lei bellezza il Vate la fece diventare sua personale medium. Ospiti del Vittoriale furono anche la maga Giovanna d’Arc Trinca e Bice Valbonesi che, il 6 gennaio 1924, portava al Vittoriale un messaggio proveniente dalla madre defunta. Da allora venne da lui chiamata “La messaggera dello spirito occulto“.
Il Guerriero e il Veggente
Torniamo alla vita del Vate. Allontanatosi dall’Italia a causa dei suoi numerosi debiti, dopo una breve parentesi francese dove conobbe tra l’altro Jean Cocteau, icona del mondo gay, nel 1915 ritornò in Italia per dare il suo contributo alla Guerra Mondiale. Memorabili le sue imprese. Partecipò ad un’incursione aerea su Trento, alle battaglie dell’Isonzo e, nell’agosto 1915, effettuò un volo sopra Trieste insieme al suo comandante ed amico Giuseppe Garrassini Garbarino dove, invece che bombe, lanciarono manifesti propagandistici. Il 16 gennaio del 1916, a seguito di un atterraggio d’emergenza a Grado, nell’urto contro la mitragliatrice dell’aereo riportò una lesione all’altezza della tempia e dell’arcata sopracciliare destra che gli provocò un importante danno all’occhio. Successivamente un nuovo incidente gli danneggiò anche l’occhio sinistro che tenne coperto da una benda. Il buio al quale fu costretto per salvare l’occhio lo portò ancora di più in una dimensione numinosa. Iniziò ad autodefinirsi e autografarsi come l’Orbo veggente (Fig.6).

Durante il periodo di convalescenza a Venezia, assistito dalla figlia Renata, compose il Notturno, una delle opere più introspettive ed esoteriche (Fig.7).

“Un prossimo giorno sarà sprofondato nella terra, calato nella fossa, sepolto. Quattro volte remoto. Mi pareva ancor mio, dianzi, se bene difformato. Ora è prigione. Ha con sé le rose su i suoi piedi rotti. Non si potrebbe levare, neppure se il Cristo lo chiamasse. La piastra di piombo lo grava. La saldatura è compiuta, il suggello è perfetto. Ora è là, non più con la nostra aria, con l’aria che io respiro, ma con la sua aria, con l’aria della tomba, con l’aria dell’eternità, che non consumano i suoi polmoni entro le sue costole infrante”.
Dopo la guarigione il Poeta guerriero riprese le sue attività militari, nell’agosto del 1917 compì, da Gioia del Colle (Fig.8),

una missione sulle installazioni navali del golfo di Cattaro volando per oltre 500 km sul mare, senza riferimenti. Volò, nell’agosto del 1917, su Pola dove il Vate pronunciò la prima volta il grido d’incitamento”eia eia eia, alalà“. Anche qui non manca il richiamo al magico e al mistico. “Alalà!” era l’urlo di guerra degli opliti greci, dedicato ad una divinità femminile minore, appunto Alalà che accompagnava in battaglia il dio della guerra Ares. “Eia” era invece il grido con cui, secondo una tradizione, Alessandro Magno era solito incitare il suo cavallo Bucefalo. Aimè questo meraviglioso “inno” è poi purtroppo passato alla storia solo come motto fascista. Nel febbraio del 1918, imbarcato sui MAS 96, partecipò al raid navale, denominato la “beffa di Buccari”. Nell’agosto del 1918, alla guida della 87ª Squadriglia aeroplani “Serenissima”, compì il Volo su Vienna, caratterizzato dal lancio di migliaia di manifestini con scritte che inneggiavano alla pace e alla fine delle ostilità. Ebbene, nessuna di queste missioni fu esente dal pensiero magico e superstizioso. Era infatti solito portare degli amuleti come scrisse nel Notturno “….il vecchio anello di mia madre, che portava per gemma un piccolo teschio consunto tra le tibie, e la palla esplosiva che il 7 agosto si conficcò nel legno della carlinga in prossimità del mio gomito…”. Portava, inoltre, in ogni missione due smeraldi, dono della Duse, incastonati in un anello all’indice della mano sinistra, convinto che lo proteggessero dal morire in guerra. In una intervista ad un giornalista giapponese nel 1919 al Grand’Hotel di Roma, mostrò un “mazzetto di amuleti” donatigli dalla cartomante contessa Rospigliosi. Non mancava il classico corno di corallo o gli antichi rimedi abruzzesi “ sacchetti di erbe salutari e vaselli d’unguento” che le donne di tale terra gli mandavano durante i periodi di guerra. Forse però l’amuleto più noto è il medaglione che portò indosso durante il volo su Vienna. Il gioiello aveva raffigurato da un lato il santo Ignazio di Loyola però con il volto di D’Annunzio, dall’altra il motto “ibis redibis”. Anche qui si annida il richiamo al numinoso. Questa scritta, infatti, era tratta dal Chronicon del monaco cistercense Alberico delle Tre Fontane che riportava un antico oracolo difficile da interpretare. In quanto privo di punteggiatura si prestava, infatti, ad una doppia interpretazione in quanto facendo pausa prima o dopo il non, il significato della frase veniva ad essere rispettivamente “andrai, ritornerai, non morirai in guerra”, oppure “andrai, non ritornerai, morirai in guerra”. Per evitare incertezze il Vate eliminò la seconda parte. Si narra che il poeta donò anche due talismani contro il malocchio anche a Benito Mussolini. D’Annunzio il 17 marzo 1924 scriveva a Mussolini: ”Ti mando due segni che sono due amuleti di sicura virtu’. Escono da quel mio botteguzzo del Vittoriale, dove lavora per me e con me un orafo che a gioco io chiamo Mastro Paragon Coppella”. Furono realizzati appositamente per il capo fascista dallo scultore Renato Brozzi aiutato da un orafo di Gardone Riviera tra cui “uno di què rubini che al dito s’accendono come più dentro arde la perfezione del cuore; e nel cerchio ho inciso l’impresa d’un altro eroe della tua terra, l’impresa di Sigismondo Malatesta”.
(CONTINUA…)