di Andrea Romanazzi
Come ogni anno il primo Novembre ci si appresta ad esser bombardati da pubblicità, magazine, network che parlano di Halloween, il “carnevale” novembrino vera e propria festa del consumistico mondo occidentale. Per molti la ricorrenza è estranea alla nostra cultura italiana, un chiaro esempio dell’effetto della globalizzazione e dell’assorbimento di usi e costumi del mondo anglosassone. In realtà, celate da maschere e vetrine scintillanti ecco trasparire antichi ricordi di tradizioni mai del tutto scomparse e ancora insite nel folklore popolare che contraddistingue la nostra nazione. Sarà così seguendo gli indizi nascosti nelle pieghe del tempo che arriveremo ad un culto molto antico, il culto della Morte e Rigenerazione naturale, la regina di questa mistica notte ove ancora oggi il velo della reminescenza è così leggero da permetterci di guardar attraverso.
Secondo il Dizionario McBeain di Lingua Gaelica Samhain (pronunciato “sow-in”), forse la più importante tra le festività celtiche, deriverebbe da “samhuinn” e significherebbe “summer’s End”, la fine dell’estate e l’inizio della stagione invernale. In realtà i festeggiamenti non duravano una sola giornata ma iniziavano una settimana prima e si concludevano una settimana dopo, così è molto più probabile che il giorno più importante dei festeggiamenti non fosse il primo del mese di Novembre, bensì l’11, data coincidente con quella che oggi viene definita estate di San Martino. Successivamente, nei paesi di origine anglosassone, Samhain fu trasformata in All Hallow’Eve, ove “Eve” sta per “vigilia” o ancora Halloween.
Da qui il collegamento di Samhain come festa dei morti, ma in realtà essa non è una festività legata ai defunti, esattamente il contrario, è legata alla vita, alla grande dea che muore per poter rinascere. Il concetto di morte e resurrezione ha così da sempre permeato le credenze e i miti degli uomini, nel mondo greco ad esempio essa è ben descritta dalla storia di Demetra e Persefone, la leggenda narra che un giorno la bella Presefone, figlia di Demetra, mentre raccoglieva dei fiori con delle amiche, si allontanò nel bosco e così Ade, la divinità dell’oltretomba, da tempo perdutamente innamorato della fanciulla, decise di rapirla con il beneplacito di Zeus. La Dea Madre accortasi della scomparsa della figlia iniziò a cercarla ma, vedendo vani i suoi tentativi, decise che fin quando non le sarebbe stata restituita la terra non avrebbe prodotto più i suoi frutti. Zeus ordinò così ad Ade di lasciar libera la fanciulla ma il dio, con un sotterfugio, costrinse la stessa a ritornare ogni sei mesi nel suo regno. Demetra allora infuriata decise che nel periodo in cui Persefone fosse stata nel regno dei morti, sul mondo sarebbe calato l’inverno e la terra non avrebbe prodotto i suoi magnifici frutti, una metaforica morte in attesa del risveglio. E’ in questa ottica che la festa di Halloween assume un nuovo significato, esso diventa il giorno in cui il velo che separa il mondo dei vivi da quello del soprannaturale si fa molto sottile, tanto da poter facilmente trapassarlo, nasce così l’idea che le anime dei morti proprio in questo giorno riescon più facilmente a raggiungere e far visita ai loro cari ancora in vita. Da questa credenza nasce l’usanza di lasciare frutti o latte sugli usci delle porte, in modo che gli spiriti, durante le loro visite potessero ristorarsi o ancora accendere torce e fiaccole per segnalare il cammino e agevolare loro il ritorno.
Con l’avvento del Cristianesimo, la Chiesa cercò di appropriarsi della festività troppo radicata nella cultura popolare per esser cancellata
così nel VIII secolo da Papa Gregorio II introduce la festa di Ognissanti e successivamente nel 988 Odilo, abate di Cluny, quela dei morti. Le figure fatate e gli spiriti della tradizione celtica, a loro volta immagine di un oltremodo di morte e rigenerazione, furono demonizzati, le stesse donne il cui ruolo nei rituali di fertilità era fondamentale furono trasformate in streghe e i falò di “gioia” tradotti in roghi. Anche le lanterne e le luci giuda subirono una ugual sorte, quelle che all’inizio avevano proprio il compito di indicare ai propri defunti la “via di casa” divennero “lanterne scaccia streghe” con un uso completamente differente.
Una delle interessanti tradizioni ancora oggi espletate ad Halloween è quella di girare per le case del proprio paese vestiti a maschera. In realtà questa usanza è tipica anglosassone ma, anche se in maniera differente, rientra nella chiave di lettura della festa. In molte terre di tradizione celtica infatti queste piccole processioni erano guidate dal ” cenmad y meirew” l’ambasciatore dei defunti” che richiedeva la donazione di cibo rituale destinato alle offerte ai morti, mentre una delle denominazioni dei fuochi inglesi accesi per l’occasione è Bonfires” e cioè ” bones fires”, fuochi delle ossa, in una tradizione del tutto simile a quelle che esamineremo in Italia.
IL CULTO DEI MORTI E I PROLEGOMENI DI SAMHAIN
Come abbiam già esaminato precedentemente in quasi tutte le mitologie, in una stretta simbiosi con la scomparsa e la rinascita naturale, è la divinità maschile a subire un ciclo di morte e di resurrezione che da sempre è stato associato al sole. Tra i fenomeni naturali, invece, non vi è uno come quello della morte e della resurrezione che più si avvicina alla sparizione e alla ricomparsa della vegetazione: il ciclo naturale dei campi, con la loro semina, crescita e morte. E’ l’idea della morte del “Dema” di Jensen, l’essere mitico attraverso il quale i popoli agricoltori hanno avuto il dono delle piante essenziali per la loro vita. Anche la fine sempre violenta del Dema potrebbe così essere messa in relazione con la “distruzione” da parte dell’uomo dei prodotti dei campi, falciati, battuti e poi ridotti in polvere. In tutte le culture primitivo-popolari la divinità è vista e concepita come immanente, essa permea tutto ciò che circonda il selvaggio, in una visione fortemente animista. La morte della pianta diventa così la morte della divinità con tutta una serie di rituali che dovevano avere il compito di rigenerare lo stesso. Ecco che ritroviamo in questi antichi rituali i prolegomeni del rito del cordoglio dai quali attingeranno a piene mani le tradizioni italiane della notte di Ognissanti.
La sacra festa per propiziare la rinascita della natura che si avvia verso il suo letargo si intreccia però con quella che potremmo definire Paura verso il defunto o Necrofobia. E’ con il passaggio dell’uomo dal nomadismo all’agricoltura e alle attività stanziali, e dunque con il seppellimento del defunto nelle vicinanze dell’abitato, che nasce la necrofobia [ necros=morto e phobos= paura] , e quindi i rituali atti a sconfiggerla. Secondo il primitivo il morto, prima di raggiungere la sua patria nell’aldilà, subisce una sorta di passaggio intermedio il cui superamento e il successivo raggiungimento di quella pace definitiva dipende molto anche dai rituali funebri a lui riservati dai vivi.
In Omero il morto cui manca il seppellimento diventa irrequieto e torna a tormentare gli uomini fino a quando non fosse stato inumato o bruciato sul rogo. Platone sosteneva che se l’anima fosse rimasta contaminata ed impura non avrebbe potuto entrare nell’Ade e quindi “si rotola fra i monumenti funebri e i sepolcri, intorno ai quali si sa bene che si sono visti spettri ombrosi di anime”.
Nascono così veri e propri formulari rituali atti ad allontanare il defunto dai quali, seppur con accezioni differenti, le tradizioni di Halloween attingeranno a piene mani. Non staremo in questa sede a soffermarci ad esempio sul significato della “Lamentazione Funebre” pratica rituale in via di dissolvimento o praticamente già dissolta della quale rimane solo il vago racconto delle anziane donne del sud Italia la cui spiegazione potrebbe essere così rivisitata nell’ottica del canto popolare nell’operazione della mietitura come descritto dal Moret nel caso dei maneros dell’Egitto, dei linos della fenicia e il Lityerses, tipico canto dei mietitori greci.
Il lamento funebre sarebbe così sicuramente ciò che rimane di un ben più complesso rituale di lamentazione agreste. Particolare importanza acquista quella che potremmo definire la mimica del cordoglio, l’oscillazione corporea, perfettamente integrata al suono, come in moltissime tradizioni sciamaniche afro-amerinde, con una funzione quasi ipnogena ( E. De Martino, 1959) molto simile anche a quella delle lamentatrici palestinesi o arabe.
Tutti i rituali che descriveremo sembrerebbero nascondere, più che un vero e proprio dolore verso il defunto, un’operazione apotropaica di allontanamento della morte stessa come testimoniato da altre usanze come quella di bruciare i vestiti del trapassato o l’apertura delle finestre dopo il decesso, per terminare alle interessanti frasi di chiusura del lamento funebre “non ho più niente da dirti, non ho più niente da farti, statti bene e vieni in sogno a dirmi se sei contento di tutto quello che ti abbiamo fatto” ( E. De Martino, 1959).
Anche l’inumazione assume un ruolo fondamentale. Per assicurare al defunto una morte “simbolica” che garantisca la sua permanenza nell’aldilà, nascono tutta una serie di rituali apotropaici legati alla sepoltura. In alcune culture bastava amputare alcune dita o strappare al morto un dente, una operazione che forse aveva lo scopo di lasciare un “varco” nella bocca del defunto in modo che la sua anima potesse allontanarsi, idea che ritroviamo ancora oggi nelle tradizioni popolari quando il sognare la caduta di un dente è considerato un brutto presagio. In altri casi i cadaveri erano deposti a faccia in giù ad indicare la direzione da intraprendere, con i piedi rivolti verso la porta di ingresso con i piedi nudi se uomo o le vesti sciolte se donna (M. Caligiuri, 2001) oppure avvolti in stoffe o tappeti, legati con delle corde o schiacciati da un masso, idea forse dalla quale deriva l’usanza della “lapide” moderna (A. Romanazzi, 2004). Sepolture simili sono state ritrovate anche in altre aree del bacino del Mediterraneo ed in particolare a Cipro(A. Tzaliki, 2000), datate 7000-2500 a.C. . Nell’isola sono stati rinvenuti, in una piccola tomba a fossa, alcuni individui posti in posizione contratta e schiacciati da lastrone. Stesso rituale troviamo in un’altra sepoltura greca datata 1900-1600 a.C.. e poi a Soba(A. Tzaliki, 2000), in Sudan in un periodo tra il VI-XIII sec. a.C. Questi riti funebri li ritroviamo anche in periodi successivi come testimonierebbe la sepoltura ritrovata a Chalkidiki, in Grecia, ove il defunto era stato “inchiodato” al sepolcro attraverso un cuneo di bronzo o quella simile nel castello di Lamia. Anche in Italia sono state ritrovate inumazioni simili come nel Monastero di Capo Colonna a Trani, in provincia di Bari. Qui sono state ritrovate due tombe, datate IX-VIII secolo a. C., ove erano deposti rispettivamente uno e tre cadaveri inumati senza onoranze funebri, in posizione genuflessa e schiacciati da un masso(A. Romanazzi 2004).
Più direttamente interessati nell’ottica dei rituali di Halloween è il tema del cibo del defunto. Era infatti usanza di deporre del cibo nel sepolcro per evitare che il morto, affamato, tornasse tra i vivi per procacciarselo. E’ da qui che deriverebbe la tradizione del posto riservato al defunto. Anche se infatti l’idea è quella di una riunione con il morto, in realtà è anche un modo di assicurargli del cibo in modo che non debba procacciarselo.
Così nell’antichità spesso sulle tombe era offerto del pane, i greci e i latini commemoravano i propri morti con offerte votive di cibo e vini sulle tombe (M. Caligiuri, 2001) proprio per placare le anime, mentre i babilonesi e gli assiri seppellivano vasi di miele. Che il cibo reale fosse davvero utilizzato nei sepolcri è dimostrato da diversi testi come il “De Masticazione Mortuorum in Tumulis” di Michel Raufft o la “Dissertatio Historico-Philosophica de Masticatione Mortorum” di Philip Rohr. Qui si descriveva come il morto, le cui scorte alimentari erano insufficienti, iniziava a nutrirsi masticando il sudario e le sue stesse carni. Anche il cannibalismo diventa un modo per assicurare la seconda morte al defunto, infatti lo stomaco diventa suo definitivo sepolcro e sarebbe da questa interpretazione che deriverebbero diverse espressioni popolari Italiane come “bere i morti” o “mangiare i morti”(E. De Martino, 1959) e l’usanza del banchetto funebre. Potrebbe essere dunque questo il senso dell’usanze che esamineremo in seguito in molti paesi della Penisola vengono preparati strani dolcetti a forma di ossa chiamati appunto “ossa dei morti”(A. Romanazzi, 2003) che vengono poi regalati ai fanciulli quasi riproponendo il tema della necrofagia. Per fare alcuni esempi, a Morcone, in Campania, si usava distribuire legumi, pere, fichi, granone, offerte di cibo al grido di “cicciotti per le anime dei morti”. A Sant’Andrea in Conza invece, ben prima dell’evento globale di Halloween nel giorno dei morti si usava andare in giro con grosse zucche vuoter incise a forma di teschi illuminate dall’interno con gli “scamurzi”, piccoli avanzi di candele. Stessa tradizione a Somma Vesuviana ove queste “creazioni” venivano chiamate “cape ‘e muorte”. Ad ogni modo esempi simili li troviamo in tutta la penisola italiana.
Anche il pane “pro anima” tipico dell’area campana avrebbe una funzione simile. L’alimento è offerto spesso durante la veglia notturna, all’ingresso del cimitero o della casa dei luttuati. In alcuni paesi della Provincia di Bari veniva preparato direttamente sulla bara o sulle tombe. E’ in questo sconcertante rituale di preparazione che ritroviamo una forma mitigata di necrofagia. Cibarsi del pane preparato sul morto o venuto a contatto con lo stesso altro non sarebbe che nutrirsi dello stesso defunto. La scelta del pane come cibo rituale poi, oltre ad ascriversi al tipico alimento del defunto, è legata anche ad una visione rigenerativa dello stesso, in una stretta simbiosi con la morte e la rigenerazione del frumento o in generale dei cereali di cui è costituito.
Interessanti sono anche le tradizioni legate al sesso. La morte portava nella famiglia luttuata una forma di libido deficients, quell’attanassamento (E. De Martino, 1959) con il quale termine è conosciuto nell’area lucana, nella quale non poteva e non doveva rimanere. L’idea di una incremento della pulsione libidica dopo la morte ha così un duplice scopo: la riaffermazione della vita attraverso l’accoppiamento ma anche un modo di sgomentare il morto in questo modo che fosse avvertito della grande forza vitale che gli viene contrapposta. Del resto l’esibizione oscena è un modo di manifestare l’energia del vivente, Freud afferma che chi dice una oscenità sferra un attacco, equivalente ad una aggressione sessuale provocando nell’ascoltatore una reazione simile a quella che si sarebbe generata da una vera e propria aggressione. Un atto aggressivo che in questo caso è fatto contro il morto. Successivamente dall’atto sessuale e dall’oscenità si passa al riso, una forma mitigata dello stesso. Da qui la tradizione ancora oggi espletata di raccontare durante le veglie funebri narrazioni oscene o a sfondo sessuale che generano ilarità come attestato dai numerosi detti popolari del tipo “il morto non può uscire senza il riso” o ancora “non vi è morto senza riso”(A. Di Nola, 2003). Nell’antichità si parla anche di danze funebri e forme di ilarità e le danze che porteranno successivamente a quella tradizione medievale definita “danza Macabra” raffigurata su moltissime chiese e cimiteri. E’ il tema della morte che, suonando il flauto, porta via i defunti, successivamente interpretata con l’idea della democraticità della Nera signora. In realtà la morte prende il posto del flautista pagano che apriva il corteggio funebre e che poi si tramuterà in “danza birichina” attorno al feretro (A. De Gubernatis, 1869) che potrebbe essere l’archetipo della processione dei “trick or traeck”.
Una traccia che ci fa intuire l’atavica origine della ricerca della libido la troviamo anche nel mito de ratto di Proserpina già desrcritto, quando Iambe, serva del re Celeo ove Demetra era ospitata, per cercare di far ridere la sua dea, si abbandona ad una esibizione oscena. Tema simile lo ritroviamo nel mito di Baubo che, per raggiungere lo scopo di far bere il ciceone, tipica bevanda del cordoglio, a Demeter ostenta i suoi genitali generando in lei ilarità e dunque sconfiggendo la sua inappetenza( A. Di Nola, 2003). Elementi osceni erano presenti in molti culti dei morti. In Egitto le lamentatici spesso portavano i seni scoperti(E. De Martino, 1959) sia in una visione di ostentazione che come nuovo simbolo di rinascita essendo la mammella associata al latte mammario e dunque alla novella vita. Questo particolare è rimasto intatto fino al secolo scorso troviamo, nel lamento lucano, l’ostentatio della madre al suo bambino in ricordo del latte avuto e di quello perduto(E. De Martino, 1959). Moltissime poi sarebbero le tradizioni di giochi erotico-sessuali durante la veglia funebre. In Sardegna c’è addirittura una figura che ha lo specifico ruolo di suscitare ilarità ed è chiamata la Buffona (F. De Rosa, 1899) mentre giochi a sfondo sessuale, come quello della Pulce, sono segnalati dal De Martino in molti paesi lucani.
LA MAGICA NOTTE E LE SUE TRADIZIONI: alla ricerca delle tracce dei culti pagani
E’ così che esaminando le usanze e le tradizioni italiane troviamo ancora il ricordo del “ritorno dei morti” precedentemente descritto. Così nelle case si usa imbandire la tavola tenendo un posto vuoto per i defunti e accendendo ceri e luci che servono proprio ad indicare la strada al morto. Tradizioni di questo tipo sono presenti in Trentino, in Liguria, in Val d’Aosta e in molte altre regioni italiane ove si usa suonare le campane delle chiese per richiamare le anime dei defunti o si lasciano le finestre aperte per farli entrare al desco, e ancora alzarsi prestissimo per lasciare il letto ai defunti insieme a del pane e dell’acqua per rifocillarli. Cibo rituale sono le fave e i ceci, da sempre presenti nei convivi funebri e nelle “merende” che si tenevano tra i parenti del defunto immediatamente dopo il funerale. La motivazione potrebbe essere che la fava è stata da sempre considerata come il mezzo per comunicare con l’Aldilà, esse erano presenti nelle cerimonie funebri nell’antico Egitto ed in Grecia mentre a Roma erano il simbolo della resurrezione dalla morte.
Per questo grandi bigonci erano posti agli angoli delle strade in modo che le anime vaganti, ma anche i poveri, potessero rifocillarsi.
Tradizioni simili sono presenti in Veneto ove questi tipi di offerte erano donate, in piccoli sacchetti, alle giovani spose, in Sicilia e in Puglia, mentre in Liguria si preparano castagne e fave secche dette “bacilli”.
Una tradizione diffusa in tutta Italia è quella delle “Ossa dei Morti”. In Veneto e in Lombardia si confezionano in casa dolci fatti di pasta frolla mentre in Umbria i dolcetti hanno la forma di fave e sono chiamati “Stinchetti dei Morti”.
L’origine di questo dolce è legata all’usanza vecchia di secoli, per lo meno in alcune zone d’Italia,
In molti paesi, poi, vi è una strana usanza, in questa notte i bambini usano appendere delle calze, le “cavezette di murte”, o semplici scarpe fuori dalle proprie case per ritrovarle il giorno dopo ricolme di doni, una tradizione simile a quella dell’Epifania. La tradizione vuole che i morti al loro passaggio lasceranno dolci e frutta di stagione, ma anche carbone o ossa, per i più cattivi. La calza nasconde così una interessante simbologia, essa è la cornucopia della dea, il corno della Capra Amaltea, la mistica nutrice dispensatrice di doni che assicura fertilità alla terra. In questo periodo di morte della natura e di stenti la calza è il sinonimo della speranza, il “morto” che porta la vita e dunque la resurrezione. Nella calza dell’abbondanza non mancava poi un altro richiamo alla dea, il cosiddetto “grano dei morti”, grano cotto che ci riporta alla mater come signora della semina. Non Mancano proverbi e detti che appunto ricordano il legame stagionale con la festa e infatti si dice che Prime de l’aneme i murte ce semene pe lla vasenze e ppe ll-alture (prima dei giorni dei morti si semina sia nel piano che sulle alture o in montagna). Il grano e i cereali in genere sono simbolo del continuo ciclo di morte e rinascita, esso infatti viene mietuto proprio per poter ricrescere e non dobbiamo dimenticare che etimologicamente la dea Cerere sembrerebbe provenire proprio da “Madre del grano” identificata spesso con l’ultimo covone della raccolta e destinato a rituali di fertilità, infatti era riservato alle vacche gravide proprio per assicurare loro fertilità o alle stesse donne che si dovevano garantire un parto felice.
Signora delle stagioni, tu che moltiplichi i frutti e le spighe
provvedi che questo grano sia ben mietuto e che renda molti chicchi.
Lavoratori i mannelli stringete,
il taglio del covone esponete al soffio di Zefiro o a tramontana
affinché si impinguino i chicchi.
Teocrito, Idilli, X (I mietitori – Il canto del lavoro)
Samhain diventa così la festa dei colori e dei fuochi schioppettanti che vengono accesi un po’ ovunque, del resto il primitivo sa che è il sole che rende gravida la terra e così l’usanza di accender in questa notte i falò di gioia, falò che se da una parte han appunto il compito di guidare i defunti, metaforicamente si riferiscono al “resuscitare” la natura e i suoi frutti, il fuoco ha così lo scopo, basato sul concetto di magia imitativa o “simpatica” di rappresentazione in terra il ciclo solare, anche se il calore solare si è ridotto esso tornar ben presto a risplender sulla terra come appunto i fuochi di gioia che con il loro crepitare riscaldano gli animi.
Ed è sempre in questa ottica di rinnovamento e fecondità che in questi giorni venivano fatte conoscere in casa le novelle fidanzate, sia per presentarle anche ai cari defunti che in questo periodo ritornavano a vivere, sia per i motivi descritti precedentemente che legano indissolubilmente Samhain e queste feste di prosperità.
LA ZUCCA COME SIMBOLO DELLA DEA MADRE
La tradizione vuole che solo verso il 1700 iniziò a sorgere l’usanza di intagliare strani e spaventosi volti nelle rape e di inserire nel loro interno delle candele illuminate proprio per far allontanare gli spiriti maligni, nel 1845 però, una spaventosa carestia in Irlanda obbligò moltissime persone a immigrare in America portando con loro anche queste tradizioni. La difficoltà di reperire rape nel nuovo continente fece si che il tubero fosse sostituito dalle molto più diffuse zucche gialle che ancor oggi sono uno dei simboli più ricorrenti di Samhain. Se così ci racconta la storia non possiamo far a meno di soffermarci sulla scelta del frutto-simbolo della festa, trovando molte altre antiche tradizioni che riportano alla zucca. Essa è infatti da sempre legata a rituali di morte e rigenerazione che contraddistinguono il culto della dea, infatti il fiore, chiamato giglio, era legato di solito ai morti, il suo colore giallo pallido ricordava appunto il colore delle ossa dei defunti, mentre il frutto, appunto la zucca, era associato alla procreazione e alla fertilità.
Se così immaginiamo che la lanterna di Halloween abbia origini moderne basta sfogliare il Corpus Hippocraticum del 400-300 a.C. per leggere che
“…se la donna ha la stanguria tagliare la testa e il fondo di una zucca, metterci sotto del carbone, gettare sul fuoco della mierra triturata, la donna si sieda sulla zucca e faccia entrare quanto più possibile i suoi organi genitali, affinché le parti genitali ricevano più vapore possibile…”
Ai nostri occhi la descrizione sempre perfettamente coincidere con la lanterna cacciastreghe simbolo della festività. La zucca è così lo strumento per assicurare la procreazione, essa è il priapos primordiale, l’elemento ingravidatore che nasce dalla stessa terra e assicura, nel periodo più oscuro e buio la vita. Del resto la zucca era anche associata al dio Priapo, divinità di origine greca poi successivamente “adottata” dai romani. Il dio, spesso rappresentato con un volto umano e le orecchie di una capra, tiene in mano un bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro. Sua caratteristica più evidente è l’enorme o addirittura il doppio fallo, simbolo proprio della sua natura feconda, aspetto per il quale era anche rappresentato da un pilastrino verticale con sopra scolpita la sua testa e il suo fallo eretto, simbolo appunto della fecondazione.
Ebbene il dio era anche strettamente collegato alla zucca come possiamo leggere dai Carme Priapei
“…io sono invocato come custode ligneio delle zucche…”
E ancora il ricordo della zucca come frutto legato ai rituali di fertilità lo ritroviamo in molti autori latini che la associano al parto e alla gravidanza
« …intortus cucumis praegnansque cucurbita serpit… »
o ancora in Propezio che scrive
« …caerules cucumis tumidoque cucurbita ventre… »
La zucca è così simbolo fallico ma al tempo stesso essa è “madre”, portando nel suo ventre fruttifero i semi, come la donna e la dea essa assicura la vita per la sua specie e il sostentamento per gli uomini. Nel momento in cui dunque la Grande Madre entra nel suo periodo di “letargo” ecco che la zucca può assumere anche un altro significato, il fuoco generato nel ventre della dea che tiene vivo il suo sacro splendore. Se dunque il dubbio dell’origine anglosassone ci pervade, ecco che basta andare nel Bormio o in Lomellina per ritrovare tra i contadini l’usanza di lasciare nei giardini o sui davanzali una zucca e del fuoco acceso.
Moltissime sono ancora le tradizioni che potremmo elencare, tante le credenze e le superstizioni, di fondo però una idea comune, nelle fiammelle delle candele e delle lanterne di zucca, il sorriso di una dea che da sempre, anche se nascosta, segue gli uomini nel loro cammino.
DALLA PROCESSIONE DEI MORTI A “DOLCETTO O SCHERZETTO”
Dal XI secolo moltissimi sono i racconti popolari e i testi letterari che parlano dell’apparizione dell’”esercito furioso”, nome con il quale è conosciuto, nell’area centro europea, una strana processione di misteriose creature fantastiche, poi evolutesi nel loro aspetto, in streghe e stregoni pronti al viaggio verso il sabba. Questa schiera di esseri, composta indifferentemente da uomini e donne spesso a cavallo di animali in qualche modo legati al mondo pagano, come capre, cavalli o strani rapaci, era di solito guidata da un essere mitico, una antica divinità pagana autoctona come Wotan, Odino od altri esseri, spesso anche dalle fattezze femminili, che trasportavano, non di rado, un carro rituale. Una interessante area da esaminare, a causa del forte rapporto tra viventi e defunti è la Bretagna, luogo ove alla religione ufficiale si mescolano vorticosamente antiche tradizioni pagane mai cancellate.
Lo strano rapporto con i defunti traspare ancora oggi nelle leggende e nei racconti popolari, come quello dell’Ankou. Si tratta di una figura locale raffigurata come la “morte”, sotto forma di scheletro con la falce che però non è semplice espressione della stessa, in realtà si tratta solo di un suo messaggero, una strana figura che giunge ad avvisare le persone, e spesso a consigliare di portare subito a termine faccende personali in sospeso prima del loro trapasso.
Altra interessante informazione su questo rapporto con i defunti può esser desunta, poi, dal racconto di Procopio di Cesarea nella sua Guerra Gotica. Parlando della Brittia “…giunto a questo punto della storia mi sembra inevitabile raccontare un fatto che ha piuttosto attinenza con la superstizione…”. Ecco così che lo storico narra delle strane abitudini di alcuni abitanti di borghi di pescatori situati dall’altra parte del mare, in quell’area che oggi è appunto nota come la Bretagna. Alcuni di questi individui avevano un compito strano, quello di traghettare le anime dei morti nella “…A tarda ora della notte, infatti, essi sentono battere alla porta e odono una voce soffocata che li chiama all’opera. Senza esitazione saltano giù dal letto e si recano sulla riva del mare…sulla riva trovano barche speciali, vuote. Ma quando vi salgono sopra le barche affondano fin quasi al pelo dell’acqua come se fossero cariche…dopo aver lasciato i passeggeri ripartono con le navi leggere…”.
Se questo racconto sembra incredibile basta giungere ancora oggi in Bretagna per ritrovare, arenate nelle sacche di sabbia dovute alla marea, vecchie barche oramai in disuso. Nessuno però si azzarda a spostarle o portarle via, ancora oggi queste sono le barche che traghettano i morti.
E’ questa l’espressione della comunicazione locale con un aldilà mai visto come luogo tenebroso come dimostrerebbero i numerosi cimiteri mai isolati dai luoghi abitati.
Del resto è già dai tempi di Claudiano, V secolo, che l’area bretone era nota come il luogo dei morti, era qui, infatti, che si identificava il luogo ove Ulisse aveva incontrato i morti e ove “i contadini vedono vagare le ombre pallide dei morti”, una affermazione che ritroveremo in seguito proprio legata al territorio italiano. Non solo, ma oramai è ben dimostrato come alcuni viaggi compiuti da cavalieri delle saghe bretoni, come Parsifal o Lancillotto, in terre desolate o verso castelli misteriosi altro non sono che viaggi nel mondo dei defunti come poi testimonierebbero toponimi come Limors o il Schastel le mort.
Lo stesso Artù, in varie raffigurazioni, altro non sarebbe che il traghettatore delle processioni dei morti, come nel mosaico pavimentale di Otranto, ove il sovrano è raffigurato con uno scettro in mano in groppa ad un caprone, seguito da una schiera di uomini.
La tradizione della Processione dei defunti e la visione degli stessi da parte della gente contadina non è però patrimonio esclusivamente bretone, anche se ancora oggi in quelle terre tale tradizione resiste fortemente, ma in tutta Europa sono fortemente diffusi racconti popolari di gente che periodicamente assisteva a tali apparizioni.
In realtà questo “spettacolo” non era riservato a tutti, ma solo a persone dai particolari poteri o nati in ben precisi giorni.
Spesso si tratta di uomini destinati alla licantropia, in realtà sciamani e sacerdoti che all’inizio vestivano delle pelli dell’animale, forse i prolegomeni della mascherata della notte di Ognissanti.
Del resto per il primitivo, secondo i principi della magia empatica o imitativa, travestirsi con le pelli dell’animale equivaleva a trasformarsi nello stesso acquisendo i suoi poteri e le sue capacità come testimoniato dai cacciatori Pawnee o i Mau-Mau, gli uomini leopardi, piaga e terrore dei soldati inglesi o ancora i guerrieri nordici come i ulfhednar, le teste di lupo o i non lontani cugini Berseker, i camici d’orso.
Del resto il cane e il lupo non erano animali scelti casualmente ma da sempre sono stati messaggeri dei morti. Ad Orvieto, ad esempio, Hades è raffigurato con una testa di lupo come copricapo, ma andando ancor più indietro basti pensare alle divinità dalle sembianze canine legate al culto dei morti che troviamo nella cosmogonia egizia ove si parla di Anubi, il dio sciacallo o ancora il dio lupo Ap-uat che aveva la funzione di traghettare i morti nell’aldilà. Non è estranea poi la cosmogonia nordica ove il lupo è sia simbolo di vita, fedele compagno di Odino, ma anche della apocalisse finale rappresentata dal lupo Fenrir, mentre in Irlanda alcune dee madri a guardia di importanti sepolture sono raffigurate in compagnia di piccoli cani, e stesso messaggio è presente ed in Germania ove l’animale è ancora protagonista e fedele compagno della dea germanica Holle che guida i morti negli inferi.
Tornando in Italia e alle sue tradizioni folkloriche, in Friuli, ad esempio, Il Ginzburg ci fa notare che “chi vede i morti, cioè va con loro, è un Benandante”. Si tratterebbe di uomini dai particolari “poteri”, nati con la “camicia”, un parte della placenta che, proprio per questa loro “stranezza” saranno poi gli attori, in particolari periodi dell’anno, di una lotta contro le forze maligne per assicurare fertilità ai campi.
Moltissimi poi sono i racconti di incredibili incontri nelle campagne con schiere di defunti. Interessante è l’avventura capitata ad un povero monaco datata 1091. Mentre questi camminava lungo un sentiero di campagna viene attratto da strani lamenti e così scorge una processione tra la quale riconosce alcuni uomini suoi conoscenti morti da poco tempo. Se però potremmo pensare che simili visioni sono relegate ad un lontano passato ecco presenti numerose testimonianze di donne lucane che durante il secolo scorso si imbatterono in quella che è la “messa dei morti”. Così lungo le buie vie che conducono le contadine del sud nei campi da lavoro, capita spesso di vedere una chiesa aperta e illuminata e all’interno anime dannate che allontanano subito le viandante o le comunicano un messaggio per il mondo dei vivi.
“…una volta un forese [abitante del paese di Forenza, in Lucania N.d.A] commise con il suo padrone di andar ad attingere acqua ad una fontana lontano dal paese…il forese si mise in cammino ma giunto nei pressi della fontana di Tromacchio vide quattro persone che portavano a spalla una bara…decise di andare alla fontana di spando ma anche qui il cammino era sbarrato dai quattro…allora gli venne incontro un sacerdote morto da qualche tempo che lo prese per mano e gli disse “queste scommesse non le devi fare”…”
La strana fila tanto ricorda quelle raffigurazioni rinascimentali successive, chiamate “Danze Macabre” che iniziano ad apparire attorno al 1400, interpretate successivamente con il motivo della morte “livellatrice”. Sicuramente queste attingerebbero da ben più antichi ricordi, come testimonierebbe la primitiva guida delle fila.
Sempre nella regione pullulano storie di donne che, mentre raccoglievano l’acqua, nel riflesso del catino, scorgevano strane processioni tra le quali individuavano alcuni loro defunti, tradizione presente anche nel Sud Italia. Anche in questo caso le “visioni” sono accomunate da un particolare. Queste avvengono solo in particolari momenti della vita dell’individuo o in particolari periodi dell’anno, spesso coincidenti con festività agrarie, come ad esempio la Festa di Onnissanti o la notte di San Giovanni. Ecco così che nascono strane tradizioni ancora presenti come l’usanza nel caso di recenti lutti in famiglia, di occupare tutti i posti a sedere durante feste o banchetti, in modo che il morto non potesse trovare posto per la sua presenza, o ancora le tradizioni che ritroviamo in molti paesi del sud Italia e in particolare di Lucania, Puglia o Calabria ove si usa porre del cibo sul davanzale delle case, nel giorno dei morti.
Ecco così che, tra le numerose tradizioni legate alle schiere dei morti si propone una nuova ed interessante interpretazione delle schiere di ragazzini, mascherati da esseri demoniaci o semplicemente da strane creature animalesche, che girano per le città al grido di “trick or treak”. Guidati da un mitico “traghettatore”, come capitava nell’antichità, questi bambini, vestiti a maschera come i vetusti sciamani altro non sarebbero che i defunti che tornano tra i vivi e chiedendo loro in dono cibo e favori in cambio di tranquillità: solo una volta sazio il defunto potrà ritrovare la pace dell’aldilà.
Molto interessante, soprattutto la parte sulle tradizioni italiane. Complimenti!
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Grazie Palombaro, spero continuerai a seguirci, stiamo già lavorando per il solstizio di inverno o “natale”.
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Attendo con trepidazione 🙂
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