di Andrea Romanazzi
Anche il giorno di Natale non ci si risparmiava a tavola. Si consumava brodo di tacchino con riso e verze, timballo di maccheroni al forno con polpette, “mezziziti” con involtini di carne, anguille e pesciolini marinati, tacchino bollito o testina al forno. Non c’è però Natale senza dolci e la tradizione barese ci offre molte alternative al panettone milanese.
Soffermiamoci su questi. Chi, ad esempio, non ha mai assaggiato le cartellate della nonna al miele o, più tradizionalmente al vincotto, le castagnelle o il dimenticato pane “fenìscke”. Approfondiamo. Secondo la tradizione le cartellate rappresenterebbero la mangiatoia o le fasce che avvolsero il Bambino Gesù nella culla, ma anche la corona di spine al momento della crocifissione. L’etimologia è alquanto dibattuta, per alcuni proverrebbe da “incartocciate” a causa della loro forma, mentre secondo Giacomo Saracino, nel suo “Lessico Dialettale Bitontino”, la parola deriverebbe dal greco kartallos, ovvero cesto o paniere. In realtà è una preparazione antichissima, infatti secondo molti ricercatori deriverebbe dai “satura lanx“, un piatto di primizie caratterizzato da vari tipi di frutta, offerto nei cerimoniali di Cerere e Demetra e successivamente assorbiti, attraverso un’operazione sincretica, dalla tradizione popolare cristiana come doni alla Vergine. Si parla anche di una pittura rupestre del VI secolo a.C. rinvenuta nei pressi della città che le rappresenta ma in realtà non abbiamo trovato evidenze storiche di questo dato. Sono invece storicamente citate in un resoconto del 1517, come piatto presente nel banchetto nuziale di Bona Sforza. Da un punto di vista pratico la ricetta è molto semplice ma altrettanto elaborata. Riportiamo la ricetta tradotta delle “Carteddàte” dello storico, demologo e linguista Alfredo Giovine:
Nella fossetta al centro di un mucchio di 1 Kg. di farina posto sul tavoliere si versa una miscela di 100 gr. di olio e 100 di vino bianco fatto riscaldare non eccessivamente in precedenza. Si mescola il tutto con le mani cercando di sciogliere i grumi che si formano. Si aggiunge acqua calda e si impasta e si lavora fino a ottenere una pasta omogenea. Con un matterello si formano sfoglie molto sottili che si tagliano in strisce larghe da 2 a 2,5 cm. circa, che vanno piegate a metà nel senso longitudinale, pizzicando i bordi ogni 3 o 4 cm. A formare delle piccole conche e alla fine, riavvolgendola fino a formare una rosa. Si lasciano indurire non oltre un paio di giorni, indi si friggono in olio e si lasciano raffreddare. Si immergono in una padella, nel “vincotto” riscaldato e, tolte con un arnese bucato e adatto, vengono poste in un grosso tegame, coprendolo.
Altro dolce “povero”, frutto di una tradizione contadina sono le castagnedde. Anche in questo caso riportiamo la ricetta “storica” di Alfredo Giovine ma, in questo caso, propongo le quantità di massima degli ingredienti: 500 gr. di mandorle, 500 gr. di farina, 500 gr. di zucchero, 15 gr. di ammoniaca, 1 scorza gialla di limone, essenza di garofano, cannella. Si forma un mucchietto in parti eguali di farina, zucchero, mandorle spellate, abbrustolite e ridotte a pezzettini. Si aggiunge un odore di chiodi di garofano e di cannella. Si impasta con acqua tiepida e con la pasta ottenuta si formano dei bastoncini non più spessi del diametro di due centimetri che si schiacciano con il palmo della mano. Si ricavano delle strisce tagliate oblunghe e si pongono nel forno avendo cura di stendere un po’ di farina sul fondo della teglia in modo da impedire che si attacchino.
Decisamente meno noto è “u ppane fenìscke”, dolce praticamente scomparso dalle tavole baresi. E’ il Pacichelli, nel suo libro Il regno di Napoli del 1680 che parla per la prima volta di un pane aromatizzato, e successivamente lo ritroviamo citato nel 1802 in un documento dell’arcivescovo Capecelatro di Taranto. Era chiamato anche “schiavonesco” dal colore scuro che ricordava quello della pelle degli schiavi d’Africa. Non esiste una vera e propria ricetta, come afferma Sandro Romano, studioso di gastronomia storica, regionale ed ambasciatore dell’Accademia Italiana Gastronomia Storica per la Puglia, come molte ricette tradizionali non ha dosi particolari da rispettare ma viene ancora oggi fatta ad occhio. E così ancora una vota, per la preparazione, ci rifacciamo ad Alfredo Giovine e al suo libro “Il Dialetto di Bari”:
Si pone sul fuoco un tegame contenente un paio di chili di vino cotto e si porta a bollitura. Si aggiunge lentamente della semola rimestando bene per impedire che si attacchi sul fondo del tegame. Prima di togliere il recipiente dal fuoco e quando agli assaggi il pane “fenìscke” è cotto, si aggiunge un po’ di uva passita avendo cura di continuare a rimestare. Il dolce ottenuto si può consumare caldo o freddo.
Concludo la carrellata con un dolce non proprio tipicamente natalizio ma che mia nonna, nata nel 1901, mi preparava proprio a natale, la ricotta fritta, anche in questo caso piatto poverissimo ma assolutamente goloso. Bastano, per realizzarlo, 500 gr ricotta freschissima, 2 uova, farina, olio evo, sale q.b. e zucchero a velo. Dopo aver tagliato la ricotta in fette da circa 3 cm l’una e averla ben asciugata in un uno scottex per un paio di ore a temperatura ambiente, vengono bagnate nell’uovo e cosparse con poca farina. Il preparato viene così immerso nell’olio già bollente e poi condito con sale o zucchero a piacere.