di Andrea Romanazzi
Le feste stagionali contadine sono ancora oggi il più evidente ricordo degli ancestrali culti agro-pastorali da sempre praticati dall’uomo antico, rituali di un mondo, il pagus, in cui la vita era scandita dal susseguirsi del giorno e della notte, dall’apparizione di un frutto o dallo sbocciare di un fiore, dal lussureggiare di un ramo o dalla foglia cadente oramai ingiallita. È in questo mondo che affonda le proprie radici il Tarantismo, fenomeno ancora attuale e che ben si inserisce nel quadro di quelli che possiamo definire “riti di possessione” tipici di culti e religioni Sciamaniche e Animiste.
Il rituale è piuttosto noto, gravita attorno alla figura di un mistico quanto enigmatico aracnide, la Tarantola che mordendo l’uomo, o, molto più spesso la donna, la rende ossessa e prende possesso, in particolari periodi dell’anno, del suo corpo.
In realtà il ragno questo non è l’unico animale legato al terribil morso, pensiamo a serpenti e scorpioni, più in generale, vedremo, animali totemici di una divinità che si rende in essi immanente.
Unica soluzione di guarigione è quella far “crepare” l’aracnide, ovviamente in maniera simbolica, e per far ciò ecco che nasce la danza. L’ossesso, secondo ben precisi rituali, deve mimare la danza del ragno, la tarantella, danzare con lui, e sconfiggere il ritmo dell’insetto con il ritmo del malato, costringerlo a farlo danzare fino allo sfinimento, eseguirlo, braccarlo con la incessante danza, per poi schiacciarlo e calpestarlo con il piede. Questo l’arcaico significato gestuale della tarantella.
Se, per quanto detto sin ora, spesso si è associato il fenomeno del tarantismo ai rituali di possessione, in realtà il rito ha ben più stretti legami con la tradizione sciamanica.
Nella cultura Occidentale le tipologie di trance conosciute sono essenzialmente legate a due tipologie di tradizioni: i rituali di possessione di tipo sciamanico e quelli di possessione demoniaca.
Semplificando, nel primo caso, attraverso particolari cerimonie, si produce uno stato di estasi solo attraverso il quale lo spirito dello sciamano “vola” per incontrare gli spiriti e ricevere l’insegnamento/richiesta auspicato. Il corpo rimane immobile e fermo, insensibile al dolore. E’ la descrizione di quello che diverrà il viaggio stregonesco, la donna che giace di notte al fianco del marito ed in realtà è al sabba ove incontra il suo Demone. E’ lei che cavalca Martinello e non il viceversa, è il dio che, in questo caso, si fa “giumenta” dello sciamano.
Ben diversa è la possessione demoniaca definita ad esempio dal Di Nola come “una particolare condizione personale o collettiva che si presenta come occupazione dello spirito o della presenza vitale individuale da parte di realtà estranee, rappresentate come potenze impersonali o personali”. A sua volta questa può esser benefica, come nel caso dei rituali del Tromba del Madagascar, o malefica e quindi da qui il differente approccio esorcistico/adorcistico.
Ovviamente, quando parliamo di demone, ci si riferisce al daimon della tradizione greca, un essere espressione intermedia tra l’uomo e la divinità.
Non è facile cercare di ridurre a quanto fin ora detto il fenomeno del tarantismo, in alcuni casi carico di tratti tipici dei rituali sciamanici, in altri forte espressione di una possessione. E’ ad esempio il Rouget e il Lapassade che parlano di un rito adorcistico definendo il fenomeno come una “identificazione non è repressa, ma al contrario coltivata, si tratta già di non esorcizzare lo spirito che è all’origine della possessione ma invece di conciliarselo”.
In realtà, esaminando bene i riti del tarantismo, molti sono i punti in comune più con una forma rituale sciamanica, pensiamo così semplicemente ad alcuni degli ornamenti ed oggetti utilizzati dalla tarantolata. Importante ad esempio è il vestito “della festa” con il quale l’ossessa si agghindava o ancora lo specchio, troppo spesso sottovalutato come semplice simbolo della vanità della tarantolata. Esso è, ad esempio, elemento fondamentale del mito di Zagreo, il dio bambino tentato dai Titani proprio con uno specchio curvo. Il dio, nell’atto stupito di guardare il suo volto deformato nell’oggetto, si distrae, permettendo ai Titani di ucciderlo e farlo a pezzi. Ecco l’importanza dello specchio nel rituale dionisiaco, esso è l’oggetto del sacrificio, l’immagine riflessa del sacrificio primordiale dei dio. Altrettanto importante è il tema dell’altalena dalla forte valenza sacrale-simbolica.
E’ il Kircher che parla di una fune sospesa alla quale il tarantolato si appendeva proprio nel tentativo di imitare il ragno.
“…questa donna al soffitto dell’umile sua dimora, aveva sospeso una fune il cui capo, di poco pendente sul pavimento nel mezzo del vano, essa tenacemente stringea tra le mani: e lanciandosi su di essa, vi si abbandonava col peso di tutto il corpo, i piedi piantati al suolo, girando il capo qua e là, il volto fiammeggiante, lo sguardo torvo…”
In realtà, nel suo moto, l’altalena ripropone la forza vitale presente nello spasmo sessuale, il “dondolio” presente nell’unione dei sessi fino al raggiungimento dei coitus primordiale.
Ecco così che l’altalena, e il suo movimento oscillante, diventa simbolo del rinnovamento della vegetazione, la rinascita di quello che vedremo sarà il dio morente.
Tutti questi oggetti sono elementi tipici dei rituali sciamanici. Così come per la tarantolata, il costume del sacerdote diviene di per sé rappresenta una ierofania, anche se non è essenziale una veste particolare. L’importante è non avere mai indosso il costume “quotidiano” che coinciderebbe con il profano. Per il semplice indossarlo lo sciamano trascende lo spazio profano e si prepara ad entrare in contatto con il mondo spirituale.
Stessa cosa dicasi per il già citato specchio che, nelle tradizioni dei popoli della Manciuria, ad esempio, aiuterebbe lo sciamano a vedere il mondo e per vedere gli spiriti.
Non dimentichiamo poi il tema fondamentale dello spirito-animale. Nella tradizione sciamanica gli spiriti, importanti ausiliari per i “viaggi” del sacerdote, e senza dei quali non sarebbe possibile il raggiungimento dell’estasi, si manifestano sotto sembianze animali.
Ecco così che durante il periodo dell’iniziazione lo sciamano deve imparare a conoscere la lingua segreta degli animali con la quale comunicare durante le sedute. E’ la taranta che parla con l’aracnide, è la misteriosa lingua della donna ossessa che entra in stretta comunione con il suo spirito.
La stessa altalena, la fune della tarantolata, è del tutto simile al rito dell’ascesa del “palo” o dell’albero sacro di tradizione sciamanica. La liana diviene così la via attraverso la quale gli dei discendono sulla terra e gli uomini salgono al cielo, un’idea che troviamo ancora ad esempio nel rope-trick fachirico.
Forse però l’elemento più strettamente comune è la danza e il momento musicale caratterizzato dallo strumento del tarantismo per eccezione: il tamburo.
E’ ancora una volta nella danza, ed in particolare nel passo del “saltellato”, che ritroviamo nuovi legami con lo sciamanesimo. Le danze “saltellate” erano infatti molto diffuse tra le civiltà di tutto il mondo e sempre legate ai culti trans-sciamanici. Se l’uomo è caratterizzato da una statura bipede ed eretta, ecco che ciò che va oltre le caratteristiche umane, la zoppia o la deformità, diventa un esperienza oltre i limiti umani. Dunque lo sciamano che voleva raggiungere l’estasi con il divino ecco che deve riproporre il tema dell’asimmetria nei propri movimenti per giungere al cospetto con il dio danzante. Non possiamo poi dimenticare la musica e il ritmo del tamburo. Il primo documento che mette in relazione la musica con il morso della taranta è il sertum papale de venenis, attribuito a Guglielmo di Marra di Padova nel 1362. Qui lo studioso afferma che quando l’aracnide morde l’individuo emette una melodia che viene ricordata dall’ossesso e che corrisponderebbe a quella che permetterebbe, durante il rito terapeutico, la guarigione.
“…vero è che le persone del volgo e gli ignoranti affermano che la tarantola emette una musica nel momento in cui morde, e che quando il malato ode delle melodie o canti conformi alla musica sopraddetta ne ricava grande giovamento…”.
Elementi indispensabili sono così la musica, la ripetitività del rumore, del suono, della parola. Da studi fatti, anche recentemente, si è visto che lo stato alterato di coscienza è caratterizzato dall’emissione di particolari onde cerebrali, chiamate onde teta caratteristiche degli stati di sogno ad occhi aperti, di massima immaginazione e creatività oppure di meditazione profonda e di sogno lucido. Sembrerebbe che proprio il suono del tamburo, strumento rituale interculturale, battuto a 240-300 colpi al minuto, attraversando i nervi acustici che sono direttamente connessi con le parti più profonde del cervello, porterebbe in risonanza l’emissione elettromagnetica cerebrale alla frequenza delle onde teta.
La divinità della Taranta e il sacrificio vegetazionale
Se fin ora abbiamo parlato del sacerdote/ossesso, interessante è anche soffermarci sul suo Daìmon: la Taranta. All’inizio, la divinità è vista e concepita come immanente, essa permea tutto ciò che circonda l’Antico e, dunque, essa è anche dendromorfa. In una visione fortemente animista, la vegetazione, l’animale, il cielo sono espressione della divinità. Successivamente, invece, una nuova idea si fa largo nella mente del primitivo: l’albero, e dunque la pianta, non viene più visto come divinità, ma come sua dimora; lo spirito arboreo, invece di essere considerato l’anima di ogni albero, diventa la divinità della foresta. È questo il passaggio dall’animismo sciamanico alla religione politeista.
Nell’immaginario dell’Antico, il passare di un animale attraverso i campi, durante la mietitura, era l’espressione dello stesso nume che si è reso immanente in esso. Così, quando le messi ondeggiano, è “il lupo, che attraversa il grano”, “il lupo sta nel grano”, “ecco il gran cane”, o sono “i capri che si inseguono”. E’ la nascita dell’idea di animale totemico, rifugio dello spirito del nume, adorato ma allo stesso tempo spesso ucciso dall’Antico. E’ già qui che si cela il seme del Tarantismo, l’ancestral colpa umana, come ben descrive Freud, nel suo Totem e Tabù. E’ la nostalgia del Padre sviluppatosi dal complesso di colpa per l’uccisione simbolica del divin genitore. Il momento del raccolto, di qualunque pianta si tratti, è un momento di crisi del regime esistenziale umano, un punto di criticità che sconvolge l’uomo antico. Sono le punizioni del dio che chiede di esser rispettato. E’ il momento in cui si genera la mistica crisi umana, è il contadino stesso in realtà causa della morte del Dio e dunque della sua stessa disperazione ponendo termine alla vita vegetale e così prestandosi alla punizione del dio.
L’antico va così alla ricerca di un capro espiatorio, fino all’apparizione dell’animale sacro, che, come novello agnello, lava dalle colpe ataviche.
Questa, seppure ancora nascosta, è l’idea del passaggio della crisi: nascondere il misfatto camuffandolo, trasformandosi da assassini in assassinati, da boia in vittime.
Ma la punizione è in agguato, l’onta al dio non si lava facilmente: ecco che molte tradizioni, quando per esempio un mietitore si ammala, giustificano l’evento associandolo a misteriosi quanto divini animali e così dicendo che “il cavallo bianco gli passa vicino”, o ancora che “ha la cagna bianca”, oppure, e questo è il riferimento più esplicito, che “la cagna bianca lo ha morso”.
E’ dunque questa l’intima essenza della taranta e del suo morso. Essa ripropone il momento di crisi umana, il vero ed unico Peccato Originale della stirpe di Eva, la raccolta del frutto proibito, della “messe del Signore” che viene così ucciso per dare la conoscenza all’uomo e ai suoi discendenti.
E’ la cacciata dall’Eden, la dipartita dal bosco che produceva per l’uomo, è la comparsa della vergogna primordiale, l’uman terrore che si annida tra le spire del serpente tentatore.
