di Andrea Romanazzi
Da tempo immemorabile i contadini di tutta Europa usavano accendere falò, i cosi detti fuochi di gioia , non è neanche raro che in questi fuochi si ardessero fantocci o si fingesse ardere una persona viva. Lo vedremo nel proseguo. In particolare era con il solstizio d’inverno che iniziava l’usanza accender falò perchè l’uomo primitivo in corrispondenza di quei giorni in cui il calore del sole e la sua luce iniziava a diminuire, quasi come per magia “simpatica”, accendeva fuochi in terra quasi per riportare il calore e la luce tra gli uomini.
Si tratta quasi certamente di un’usanza di origine precristiana. Secondo lo studioso Alexander Hislop, affonferebbe le sue radici nella morte e rinascita del dio vegetazionale, rappresentato da un ceppo. Nel suo libro The Two Babylons, Hislop afferma che “Il ceppo di Natale” è il dio Nimrod redivivo, il dio ucciso ma tornato in vita”. Secondo Mannhardt il ceppo rappresenterebbe lo spirito della vegetazione e il suo bruciare la luce solare che garantirebbe calore per tutto l’anno a venire. Altri studiosi vedono nella tradizione riminiscenze dell’accensione annuale del focolare sacro, che rappresenta sia il centro della vita familiare sia la dimora degli spiriti degli antenati.
La prima cosa da notare è la notevole somiglianza tra i vari rituali che prevedono l’accensione di questi fuochi, la cerimonia natalizia si distingue però un pò dalle altre per il suo carattere domestico, forse a causa del cattivo tempo che spesso impediva una cerimonia pubblica o l’accensione di un falò all’aperto. Le spiegazioni che gli antropologi hanno dato sono essenzialmente due, anche se per noi la verità sta come sempre “in Medio”. Infatti da una parte si è pensato che tali riti si basassero su una magia imitativa del ciclo solare, dall’altra si è pensato ad una funzione purificatrice.
A favore della teoria “solare” sono spesso le date in cui tali fuochi venivano accesi, esse coincidevano spesso con il solstizio d’inverno o d’estate, cioè con date fondamentali per il “culto solare”. Ma non solo le date ci suggeriscono una imitazione dell’astro, infatti l’usanza di far ruzzolare una ruota giù per una collina può proprio passare per una imitazione del percorso dell’astro nel cielo.
A favore della Teoria della purificazione vi è invece la tradizione che spesso tali feste erano legate alla purificazione, infatti il popolo batte sull’aspetto distruttivo dello stesso, vien così detto che il fuoco serve a bruciare e allontanare le streghe e quindi il male, e questo è facilmente espresso nell’usanza di bruciare l’effigie di una strega o di il fantomatico fantoccio. Tornando al “ciocco” di Natale, questi di solito era di olivo, betulla o molto più frequentemente di quercia, albero spesso associato alla divinità del tuono e da qui la convinzione che il ceppo proteggesse la casa dai fulmini.
Molti altri erano comunque i “poteri” del tronco natalizio, speso associato a riti di fertilità, così, per esempio, le sue ceneri erano disperse nelle campagne per renderle più fertili, o ancora secondo la tradizione sarebbero nati un numero di capretti pari a quello delle scintille che fossero saltate fuori dal fuoco.
La tradizione vuole così che qualche giorno prima della Sacra Notte ogni esponente maschile della famiglia andasse nei boschi per tagliare alberi di ulivo, betulla, abete o quercia, per poi arderli nel fuoco trasformandoli appunto in “ceppi” natalizi. Questa idea è presente in moltissime culture e anche in molte altre tradizioni differenti dal Natale ma, in questo momento dell’anno essa assume un carattere un pò differente, esso diventa un rituale domestico forse anche a causa delle intemperie che costringevano le famiglie nelle loro abitazioni e ben difficilmente potevano riuscire ad accender fuochi all’esterno.
L’idea di portare così nella propria casa un albero per poi bruciarlo diventa così un’altra spiegazione dell’usanza del famoso abete, del resto le stesse luci di cui oggi l’albero viene addobbato potrebbero ricordare appunto questo fuoco rituale e i doni deposti sotto di esso il suo carattere fecondatore e portatore di gioia. Questa idea non è in antitesi con il concetto espresso precedentemente della simbologia fallica, infatti il primitivo, portando a casa il ceppo, porta una parte di quello spirito arboreo che, dimorando nei boschi, rimane nel pezzo di legno fino ad esser bruciato, o meglio, “sacrificato” per poter rinascere dalle proprie ceneri come novella fenice. Del resto basta guardare le tradizioni popolari per capire come esso avesse poteri propiziatori. Si narra che le sue ceneri erano disperse nelle campagne le rendessero più fertili, tradizione che ritroviamo anche in Inghilterra o in Francia ove vi era l’usanza di picchiare sul ceppo per augurio di fertilità.
L’usanza del ceppo di Natale è attestata per la prima volta in Germania nel 1184, per poi diffondersi in Scandinavia, nelle Alpi italiane, nella penisola balcanica e nella penisola iberica. L’usanza la ritroviamo anche in Inghilterra, dove è attestata per la prima volta nel XVII secolo. In Italia molteplici sono le tradizioni. In Piemonte il ceppo era chiamato süc, dove si usava bruciarlo nelle 12 notti tra il Natale e l’Epifania. Era il simbolo nella rinascita naturale, della luce che nasce e prende vita dall’Albero, proprio come le divinità precedentemente descritte. E’ il simbolo della nuova prosperità nascente, da qui l’idea dei doni offerti ai bambini prima percuotendo il ceppo, oggi posti sotto l’albero. In diverse zone italiane il giorno di Santo Stefano aveva luogo il rituale di battitura delle piante da frutto eseguita di solito da un bambino che, munito di bastone, andava battendo la pianta recitando ad alta voce una specie d’invocazione. In Lombardia, il capofamiglia usava aspergere sul ceppo o zocco del ginepro e porvi sopra delle monete recitando una preghiera in nome della Trinità. In seguito, si beveva a volontà e il vino rimanente veniva gettato dal capofamiglia sul ceppo, era poi anche usanza, durante la cerimonia del ceppo, tagliare tre panettoni e conservarne un pezzo a scopo taumaturgico per tutto l’anno successivo.
In Friuli il ceppo natalizio è chiamato nadalìn, mentre a Genova veniva acceso il ceppo della città al quale si offriva vino e confetti, idea di una ospitalità e di prosperità che ritroviamo proprio tra i bei pacchi ricchi di lustrini dei nostri giorni.
Il Trebbi e l’Ungarelli scrivevano nel saggio “Costumanze e tradizioni del popolo Bolognese” che “… Nei paesi della provincia, in ogni casa campagnola, (…) si continua nella vigilia la consuetudine di mettere ceppo (…) vale a dire di porre al fuoco un enorme piede d’albero, detto ceppo, zocco o ciocco, che deve ardere tutto il giorno e talvolta fino a capo d’anno“. Dalle scintille fatte sprigionare con le “molle del fuoco” da ogni membro della famiglia si ricavano auspici sull’allevamento o sull’agricoltura. Un’altra antica tradizione bolognese, già scomparsa negli anni Trenta sempre rilevata dal Trebbi e dall’Ungarelli, prevedeva che alla nascita di una fanciulla il padre, a seconda della sua situazione economica, piantasse un certo numero di pioppi (a volte fino a mille) per abbatterli e venderli quando la ragazza si sarebbe sposata. Anche la tradizione del ceppo viene però cristianizzata.
Pietro Fanfani, nel Vocabolario dell’uso toscano, scriveva che nella Val di Chiana, la sera della vigilia di Natale, tutte le famiglie si riunivano tra loro e mettevano nel camino un ceppo dicendo in coro: “Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane; ogni grazia di Dio entri in questa casa; le donne facciano figliuoli, le capre capretti e le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina, e si riempia la conca di vino”. I bambini, bendati, inoltre, erano così fatti battere con le molle sul tronchetto mentre intonavano una canzone dedicata alla Vergine Maria.
In Campania, a Pietraroja è manifesta la tradizione del ciocco di natale, qui la tradizione vuole che a mezzanotte della vigilia si ponga un ceppo che doveva ardere fino a gennaio propiziando, con il suo fuoco, l’abbondanza delle provviste nei giorni invernali. Sempre in Campania, a Bonito, ogni capofamiglia, la sera della vigilia di Natale, sceglieva un grosso ceppo di legno di quercia, cerro o leccio, vi incideva una gran croce sopra e, prima di cena, riuniva tutta la famiglia, baciava il ceppo e gli dava fuoco. Si faceva in modo che il ceppo durasse fino all’epifania.
Che queste tradizioni siano antiche lo dimostra un famoso ed altrettanto raro libercolo “Curioso discorso intorno alla cerimonia del Ginepro, aggiuntavi la dichiarazione del metter ceppo e della Mancia a darsi nel tempo di Natale” del 1621 riportato dal De Gubernatis. Qui si descrive l’usanza bolognese di bruciare come ceppo natalizio un arbusto di Ginepro il giorno dell’epifania le cui ceneri erano poi conservate come talismano per tutto l’anno.
“…Posseggo un libercoletto abbastanza raro, intitolato: Curioso discorso intorno alla Cerimonia del Ginepro, aggiuntavi la dichiarazione del metter Ceppo e della Mancia solita a darsi nel tempo del Natale, stampato a Bologna nell’anno 1621 (…) avverto solamente che il carbone del ginepro bruciato a Natale, che serba la sua virtù magica per un anno, risponde perfettamente al carbone del ceppo natalizio provenzale al quale viene attribuita la medesima virtù, e rammento ancora una volta che l’agrifoglio natalizio inglese ha il medesimo significato del ginepro…”
Moltissime erano poi le tradizioni di ragazzi che, girando intorno al ceppo, intonavano canzoni in cambio di qualche regalo. Ma gli alberi non solamente si bruciavano. Sempre il De Gubernatis scriveva che nel portare il ceppo si cantava: «Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane ogni grazia di Dio entri in questa casa; le donne facciano figliuoli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina, e si riempia la conca del vino.» Secondo altre leggende il ceppo sarebbe servito ad asciugare i panni umidi di Gesù bambino, insomma contaminazioni su contaminazioni.
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