di Andrea Romanazzi
Quando si parla di orecchiette viene in mente la Puglia e la sua città simbolo: Bari. Sarà davvero così?
Non si conoscono le vere origini della pasta, per alcuni nasce in Cina, per altri era già presente sul desco dei romani. La pasta fresca e in particolare le “orecchiette”, come oggi le conosciamo, sono molto più recenti. Lo scrittore napoletano Giambattista Del Tufo nel ‘500 cita questa pasta con il nome di “strascinati”, e dello stesso periodo è un documento ritrovato negli archivi baresi che, parlando di dote matrimoniale, afferma di lasciare alla figlia l’abilità di preparare le “recchietedde”, una pasta a forma di dischetto cavato con una pressione del dito pollice che ne facilitava l’essiccazione e che quindi favoriva la facile conservazione. Sull’origine di questo formato di pasta ci sono davvero tante ipotesi. Secondo alcuni studiosi le orecchiette avrebbero origine ebraica, ovvero portate dalle comunità presenti in Puglia tra il XII e il XIII secolo. Deriverebbero da una rielaborazione delle “orecchie” di Haman, il primo ministro del sovrano persiano Assuero, che voleva sterminare tutti gli Ebrei abitanti nel regno. In realtà, però, questa ricetta ebraica è quella di un dolce preparato per la festa del Purim e davvero non facilmente assimilabile alle nostre orecchiette. Per altri le origini delle orecchiette sono nel Delfinato. Sembrerebbe che in Provenza venisse prodotto un tipo di pasta a forma di disco incavata con il pollice, giunta poi in Puglia attraverso Giovanna d’Angiò, regina di Provenza, Piemonte, ma anche Napoli e Taranto. La leggenda vuole che la regina di Napoli e Contessa di Provenza avesse provato questo piatto al nord e se ne fosse innamorata. Non è una credenza del tutto inventata. Nelle aree occitane del Piemonte si preparano ancora i crousèt. Se la forma è la stessa, però la ricetta è diversa, infatti si tratta di pasta all’uovo.

Il mistero dunque permane e ancor di più la “magia” delle orecchiette. la tradizione popolare le collega infatti ad un rito divinatorio per prevedere il sesso del nascituro. Poste in una pentola un’orecchietta e uno zito, se, al momento del bollore, fosse venuta a galla prima l’orecchietta il nascituro sarebbe stato una femmina, al contrario un maschietto. La magia non è completa Se però non ci aggiungiamo il ragù. Anche per questo condimento l’origine non è facile da individuare. L’etimologia della parola deriva dal francese ragoût, sostantivo derivato da ragoûter, cioè “risvegliare l’appetito” e originariamente indicava dei piatti di carne stufata di bovino con abbondante condimento di verdure. Non si trattava di condimento per pasta ma di un piatto a sé stante. Molto probabilmente è alla corte di Re Ferdinando IV di Borbone che l’influenza della cultura francese fa la sua prima apparizione nel Regno di Napoli. E’ Vincenzo Corrado, nel 1773, ne “Il cuoco galante” a nominare per la prima volta in Italia il piatto. Si tratta però ancora di uno stufato e non di un condimento. Nel 1790 Francesco Leonardi, nel suo “L’Apicio moderno”, parla per la prima volta di Maccaroni alla Napolitana, ovvero pasta condita con sugo di carne, ed è qui che per la prima volta viene inserito anche il pomodoro “con buon brodo di ragù, dove sieno stati cotti i pomidoro”. Lo ritroviamo poi negli scritti di Ippolito Cavalcanti che nella sua “Cucina teorica pratica” della prima metà dell’ottocento cita maccheroni conditi con sugo di stufato e formaggio grattugiato”.

Il sugo veniva così utilizzato per condire la pasta, e la carne consumata come seconda portata. Il ragù di cui abbiamo parlato finora però è quello definito alla napoletana, ben diverso da quello alla barese se si può dire che ne esista uno solo. Parafrasando uno scritto di Giuseppe Marotta, “‘l’oro di Napoli”, “Da quanti secoli ogni domenica, come la messa sugli altari, ricorre il ragù sulle mense pugliesi? Fin dalle primissime ore del mattino un tenero vapore si congeda dai tegami di terracotta….” Fin qui tutti d’accordo è sul seguito che si aprono le diatribe. Secondo la Tradizione il tipico ragù barese è rigorosamente di cavallo: un vecchio proverbio recita “carne de vaccine, sbrevogne a cci la checine”, ovvero, “la carne vaccina fa fare cattiva figura a chi la cucina”. In particolare venivano realizzate delle braciole, termine molto antico tanto da essere già stato usato da Ippolito Cavalcanti, famoso poeta e amico di Dante. Si stendono delle fette sottili di carne su di esse si pongono un pezzettino di formaggio romano, un pezzettino di lardo, tre foglie di prezzemolo, sale e pepe. Le fette così realizzate si arrotolano e si avvolgono rigorosamente con filo di cotone. Nel frattempo si pone sul fuoco un tegame con olio, pezzetti di lardo e cipolla. Si fanno così imbrunire le braciole aggiungendo di tanto in tanto un po’ d’acqua. A semi-cottura della carne si aggiunge salsa di pomodoro e un po’ di prezzemolo, sale, pepe e si lascia cuocere a fuoco lento per circa tre ore, aggiungendo acqua per compensare quella evaporata. Mistero Risolto? No, perché Luigi Sada nella Cucina della Terra di Bari ci presenta un altro tipo di ricetta “in un pignatino versare olio d’oliva, aglio, cipolla affettata, sale e pepe, un braciolone di vitello, con dito è legato con uno spago, la salsa, foglie di basilico spiccate dal arbusto piantato nel vaso di terracotta e far cuocere il tutto lentissimamente. quando cominciano a sprigionarsi le prime nuvolette di profumo, far scendere nel pignatino una sorsata di vino bianco, una cucchiaiata di conserva sciolta in bicchiere d’acqua tiepida”. Il resto, secondo l’autore lo farà l’amore e la vigilanza da attuare per non meno di 3-4 ore girando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno finché non risulterà un sugo denso e l’olio sarà venuto a galla. In questa ricetta il cavallo è sparito ma è rimasta sacra la Braciola….eppur si puote….anche senza. È sempre, infatti, il Sada che ci propone una variante, il ragù del “beccaio”, preparato con carne varia come maiale, agnello, vitello e cavallo con un procedimento di cottura simile a quello precedente.
Ricetta delle brasciòle de cavadde# consiste nella farcendo le braciole di carne di cavallo: stende la carne su un tavolo o un piano precedentemente pulito e la batte con un batticarne. Quindi taglia le fettine in pezzi più o meno grandi. Su ogni fettina dispone formaggio pecorino grattugiato, pezzetti di aglio, prezzemolo tritato, pepe e pancetta. Infine, arrotola la fettina su se stessa, creando un involto che viene mantenuto chiuso mediante alcuni stuzzicadenti. Quando le braciole sono pronte le cuoce in una pentola dove è stata precedentemente soffritta una cipolla a fettine sottili. Dopo aver lasciato dorare le braciole versa la #chenzèrve#, la salsa di pomodori e la lascia cuocere molto lentamente, per diverse ore mescolando di tanto. Il sugo preparato verrà poi utilizzato per condire la pasta fresca.
1 commento su “Orecchiette al Ragù: Tra origini, vaticini e preparazione tradizionale”