La Stregoneria popolare sarda e il Museo della Stregoneria di Castelsardo

di Andrea Romanazzi

Il viaggio tra i musei italiani dedicati alle streghe e alla stregoneria continua. Dopo aver visitato il Museo Janua a Benevento

il museo ligure di Triora

lo stregato borgo di Pejo

e i sotterranei del Madame Mabel di Torino

arriviamo in Sardegna. Questo approfondimento sulla stregoneria italiana e in particolare su quella Sarda vuole mostrare la particolare specificità di una tradizione magica che caratterizza questa particolare regione d’Italia. Questo breve viaggio tra le figure che caratterizzano la stregoneria Sarda e alcuni rituali magici, ci porterà poi a Castelsardo dove, nascosto tra le suggestive strade acciottolate, si trova il Museo della Stregoneria, una finestra su un passato ricco di tradizioni e credenze legate alla magia e all’occulto. Con la sua interessante collezione di oggetti, reperti e storie, offre infatti un’opportunità unica per esplorare un aspetto affascinante e poco conosciuto della cultura sarda.

Se vogliamo esplorare il contesto magico religioso dell’isola, appare subito chiaro come la Sardegna sia sicuramente una delle regioni italiane più strettamente connessa a quel tessuto magico che pervade tutto il folklore nazionale. Allo stesso modo, però, durante il periodo della dominazione spagnola, che durò dal XIV al XVIII secolo, la regione fu sotto l’occhio vigile dell’Inquisizione che aveva in origine l’obiettivo di sradicare le eresie religiose, ma che ben presto estese i suoi interessi alla caccia alle pratiche considerate “magiche” o “stregoneria” e la Sardegna, con le sue antiche tradizioni pagane e pratiche di medicina popolare, divenne ben presto un luogo fertile da “mondare”.

La Bruxa, la Mayargia e i Berbos

Chi erano veramente le streghe. La stregoneria, come documentato nei primi scritti sulla materia, affonda le sue radici nel paganesimo. In questa ottica vedremo le “streghe” come donne legate ad antichi rituali tramandati dalle madri alle figlie da tempo immemorabile e legati ai rituali di campagna, maliarde ma spesso molto più probabilmente “ostetriche”, malefiche megere ma più spesso ignare donnicciole di paese, quasi sempre vedove, anziane, sole, insomma figure senza alcuna protezione sociale e senza una vera e propria identità perché non più sotto la tutela di un uomo. La vedovanza e la solitudine diventano così pretesto di forme di pregiudizio e fobie sessuali del popolo. In Sardegna queste povere ed ignare donne erano note come “bruxa”, termine che deriva dalla parola “brujia” con la quale in spagnolo,  si riferisce alla stregoneria o alla pratica delle arti magiche. Non era questo l’unica parola utile ad indicare la strega, colei che in Sardegna era infatti considerata levatrice e guaritrice, oggi potremmo definire domina erbarum, veniva chiamata con il termine di Mayargia, Colei che, attraverso fumigazioni dette affumenti,  e rituali, come quello per prevedere e diagnosticare il malocchio, diventava una importante figura del tessuto sociale regionale. Non è dunque un caso se una intera sala del museo di Castelsardo sia dedicata alla magia delle erbe e al loro utilizzo tradizionale in Sardegna.

Era colei che conosceva gli scongiuri, conosciuti sull’isola come “Berbos”, un termine che potrebbe derivare da una distorsione di “Verbus”, ma che chiarisce il loro riferimento e importanza. Questi incantesimi possedevano un potere così significativo che si credeva che una donna incinta entrata in una casa dove venivano pronunciati gli scongiuri avrebbe potuto perdere immediatamente il suo bambino. 

Nel nostro saggio La Stregoneria Popolare in Italia ne riportiamo vari.

Un tradizionale “Berbos” utile, ad esempio, a curare dai vermi intestinali recita: “Oi est lunis santu, Oi est matis santu, Oi est mercuris santu, Oi est jobia santa, Oi est cenebida santa, Oi est sabatu santu, Crasi su domingh’e Pasca, Su bremini a terra cascat”. Sempre lo stesso scopo aveva il seguente rituale. Dopo aver tracciato il segno della croce con il pollice sull’addome del paziente, il maghiaglias recitava lo scongiuro: “santu Martinu dai Roma endzeist, istraccu consimudu e non potesti, terrinu, infustu e patza ettada, la pena de sa matta ti siet passada”. Questo incantesimo si concludeva con l’esclamazione “non per amore tuo ma di tua madre”. Non mancavano poi rituali e preghiere per curare gli animali, da sempre importante elemento all’interno della società contadina.  Per debellare i vermi intestinali negli animali in Sardegna, veniva usato uno scongiuro come: “Come è caduto il fiore dal rovo e dalle spine, così cada il verme da questa bestia”. Questo veniva recitato mentre ci si segnava con la croce e si gettava un rametto di rovo alle spalle, di fronte a un rovo. Per affrontare parassiti come cimici, tarli, zecche e altri che infestavano gli animali, veniva utilizzato un “Berbos” speciale. Questo richiedeva di recitare lo scongiuro stando nudi in piedi dentro un secchio d’acqua in una notte di luna durante i quarti crescenti. Dopo essersi segnati con la croce, si pronunciava: “il capo ha posto la ruberia, la mala misura, l’usura e la stadera”, seguito da tre ripetizioni di “Che questo serva per distruggere tal cosa, in tal luogo, in tal animale, ecc…“. Queste pratiche testimoniano l’importanza dei Berbos nella cultura sarda, non solo come incantesimi di protezione, ma anche come manifestazione di credenze profonde e pratiche tradizionali radicate. 

Amuleti e Talismani sardi

La Mayargia non era solo colei che dominava il potere delle Erbe, ma sapeva anche confezionare amuleti talismani  con i più disparati effetti magici. Un esempio sono i Brevi, noti sull’isola con il termine di Pungas, veri e propri sacchetti realizzati con gli ingredienti più disparati. Sarebbe impossibile elencarli tutti: medaglie sacre, sale, frammenti di palma benedetta, foglie d’olivo, frammenti di reti di pescatori, peli di tasso, pezzetti di stole rubate, briciole di pane benedetto, cera della candela pasquale, pelle di serpente, monete, grano, carbone, frammenti di pietre basaltiche e molto altro ancora…singolari miscugli di residui di un mondo pagano commisti a oggetti tratti dalla novella fede cristiana. Nel Museo ne sono esposti alcuni. Di fattura più complessa era il Sonaltzolu, monile apotropaico realizzato in argento e vetro, al cui interno venivano inserite reliquie, tessuti di vestiti appartenenti a Santi, e altro materiale a protezione del possessore.

Particolarmente interessanti sono gli amuleti sardi legati al periodo della gestazione e alla crescita del bambino. Estremamente diffusa era la Pietra del latte o Perda ’e latti, un amuleto con  una piccola sfera di vetro opalescente o pasta vitrea bianca incapsulata in filigrana d’argento. Questa pietra, precedentemente abbrebada, ossia trattata con parole e formule magiche che ne incrementavano il potenziale magico, aveva come scopo il provvedere a non far mancare il latte nel seno materno. 

Perda ’e latti. Fine Ottocento. Collezione privata

La Perda ’e sambine, una corniola, veniva invece donata per facilitatrice del parto. Contro l’infertilità femminile era utilizzato il Sorigh’e mari, realizzato in argento con una conchiglia di ciprea incastonata.

Sorigh de mari. Fine Ottocento. Collezione privata

Un’altra conchiglia, il Turbo rugosus, ricopriva il ruolo centrale nell’amuleto noto come “Occhio di Santa Lucia”, che aveva il compito di proteggere gli occhi. Nel corso del tempo, queste pietre naturali vennero progressivamente sostituite con la pasta vitrea, la quale assumeva forma sferica, simbolicamente racchiudendo influenze particolari all’interno del complesso sistema magico-astrologico-religioso. Spesso, a questi amuleti si aggiungevano campanelli in argento, utilizzati per allontanare gli spiriti maligni.

Specificatamente utilizzati per allontanare il malocchio erano il “s’arghentu bibu”, noto anche come “de ssa preda de ss’ocru” o “pietra di Santa Lucia”. Questo amuleto è composto dall’opercolo della conchiglia bolma rugosa, incorniciato da una sottile lamina d’argento. Un altro amuleto distintivo è l'”eantiocru malu”, conosciuto come “sebezzè”, che consiste in un pezzo di stoffa nera inserito in un cerchio d’argento, da indossare intorno al collo. Secondo la credenza popolare, tale amuleto si sarebbe spezzato nel momento in cui una persona con il potere del malocchio avesse lanciato un’energia negativa. Il sebezzè aveva la capacità di attirare su di sé questa negatività, assorbendola.

Tra gli amuleti più riconosciuti contro il malocchio c’è il “kokko” o “coccus”, anche noto come “sabegia”. Realizzato in varie materie come corallo, pasta vitrea bianca o nera, legno, marmo, onice e ossidiana, questo amuleto è dotato di una parte rotante che lo rende in grado di difendere chi lo indossa. Ruotando e deviando il percorso dell’energia negativa, il kokko agisce come un potentissimo scudo. Descrivendo il kokko, Valla scrive: “Sono certi anellini di una sostanza nera che, infilati in una catenella d’argento, pendono da un lato o dal centro del petto dei lattanti”. Questo amuleto simboleggia l’occhio buono che contrasta l’occhio cattivo, attirandone lo sguardo e agendo come un “parafulmine” per assorbire e imprigionare ogni forma di negatività, fino a quando, esausto dopo aver svolto il suo compito, si frantuma.

Il Museo di Castelsardo

Per poter toccare con mano quanto finora descritto Basta recarsi nella pittoresca città di Castelsardo, nota un tempo come Castel Aragonese. Risalente al periodo medievale e rinascimentale, il borgo di Castelsardo, con le sue vie anguste e tortuose che si snodano per il promontorio, rappresenta un autentico crocevia di culture e sapere. Questo contesto che si presenta al visitatore il Museo della Stregoneria, sito nel Palazzo Episcopale. L’esposizione permanente è suddivisa in varie parti, ognuna delle quali getta luce su aspetti differenti della magia e delle credenze dell’epoca. Da curiosi oggetti legati alla cura delle malattie a pozioni e rituali, il percorso rivela una visione intima di un mondo in cui la magia e l’occulto avevano un ruolo cruciale. Il primo piano è suddiviso in varie sale, una dedicata agli ambienti dove viveva l’inquisitore, e le due successive alla conoscenza  e alla stregoneria Popolare interessantissima e, come già descritta sopra, e la sala delle Erbe ove pannelli esplicativi riportano le proprietà fitoterapeutiche e magiche delle più comuni piante diffuse in Sardegna. nella stanza definita della strega, poi, possiamo ammirare alcuni degli amuleti di cui abbiamo già parlato precedentemente.  il piano interrato invece è dedicato agli strumenti di tortura dell’Inquisizione. Uno degli aspetti più inquietanti è la ferocia con cui venivano perseguitati coloro che venivano etichettati come “streghe”. Bastava poco per essere accusati: la capacità di curare, superstizioni o riti inusuali potevano portare all’accusa. Perfino il possesso di un gatto poteva essere un segno sospetto. In queste sale il museo si concentra anche sui metodi di tortura impiegati per estorcere confessioni, spesso portando a morti atroci. La creazione del Tribunale dell’Inquisizione nel 1478 segnò una svolta nelle persecuzioni, con Castelsardo che divenne luogo di processi e di celebrazione di processi inquisitori.

La visita al Museo della Stregoneria è un’esperienza coinvolgente e suggestiva. Le sale ricche di atmosfera, i pannelli esplicativi e le scenografie a tema trasportano il visitatore in un’epoca in cui la magia e l’oscuro si intrecciavano nelle vite e nelle credenze delle persone. È un invito a esplorare un passato affascinante, a comprendere il ruolo della magia nella società e a riflettere su come la paura e l’ignoranza abbiano potuto scatenare persecuzioni spietate.

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